In
seguito ad una rovinosa caduta, dovuta ad un non perfetto stato di manutenzione
del manto stradale, un anziano signore riporta diverse ferite e muore per
complicanze insorte in conseguenza anche del suo precario stato di salute
generale. Il Tribunale, riconoscendo la responsabilità aggravata in capo alla
p.a. custode della strada, estesa anche all’esito letale, liquida una
considerevole somma a favore degli eredi e congiunti attori. La
sentenza in commento si articola in tre distinti passaggi fondamentali. Anzitutto,
con riguardo alla responsabilità della p.a. convenuta, il Tribunale afferma che
“...ai sensi dell’ art. 2051 c.c. - non risultando contestato dal Comune che
la caduta avvenne allorquando D. incappò su ampia buca presente sulla sede
stradale, descritta anche nella relazione tecnica versata in atti dagli attori,
con fotografie rammostranti il marciapiedi - deve ritenersi acclarata la
responsabilità dell’Ente proprietario della strada.” Sulla
scorta di quanto la Corte di Cassazione ha affermato nelle recentissime
pronunce n. 3651 del 20.02.06 e n. 5445 del 14.03.06 (cfr. per una
ricostruzione più ampia ed organica, su Altalex: Insidia stradale:
configurabile la responsabilità aggravata della p.a. e Responsabilità civile
della p.a. da manutenzione di strade pubbliche, entrambi di Giuseppe Buffone),
anche il Tribunale di Palermo ha ribadito che, in tema di insidia stradale, la
p.a., in qualità di custode della rete stradale di propria competenza, è
soggetta all’applicazione della c.d. “responsabilità aggravata” prevista
all’articolo 2051 c.c., anziché alla semplice responsabilità aquiliana ex art.
2043. Conseguentemente, afferma il giudicante, “...è irrilevante ... il
concetto di insidia elaborato dalla giurisprudenza in riferimento alla diversa
previsione dell’art. 2043...” e quindi a nulla rileva la circostanza che il
danneggiato fosse in grado di accorgersi della presenza dell’ostacolo, poiché
chi agisce per ottenere il risarcimento non è più onerato della prova
dell’elemento colposo. In
altre parole, non sta più al danneggiato dimostrare l’esistenza di una
“insidia” – caratterizzata dai ben noti elementi obiettivi (non visibilità del
pericolo) e soggettivi (imprevedibilità, costituita dall’impossibilità di
avvistare in tempo il pericolo medesimo per evitarlo con l’uso della normale
diligenza e prudenza) –, ma alla p.a. fornire, eventualmente, la prova
liberatoria di aver fatto tutto ciò che era in suo potere affinché il danno non
si verificasse – da non confondere, si badi bene, con la dimostrazione di
inesistenza del nesso causale tra buca e danno subito. Per
completezza di esposizione merita qui accennare anche alla tesi che esclude
l’ammissibilità di una prova contraria da parte della p.a., poiché, a tal
proposito, nulla è previsto nell’articolo 2051 c.c., mentre, si obietta, in
altri casi, laddove il legislatore lo ha ritenuto opportuno – si veda ad
esempio nell’articolo 2050 – tale possibilità è stata espressamente prevista. In
secondo luogo, inoltre, il Tribunale affronta il problema “...se la caduta
... possa considerarsi antecedente causale non solo delle lesioni ma anche del
successivo decesso…”. A
tal proposito, si afferma – ancora una volta nel solco già tracciato dalla S.C.
(cfr. sentenza 5.07.04 n. 12273) – che “antecedente causale” del decesso
è, secondo l’interpretazione prevalente dell’articolo 41 c.p., ogni antecedente
“in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato”, sia
quelli diretti e prossimi, sia quelli indiretti e remoti. Se è vero, nel caso
di specie, che la morte del danneggiato è intervenuta anche in conseguenza
delle sue pregresse condizioni di salute, si può affermare, tuttavia, che la
caduta non è la mera occasione di fatto in cui tali condizioni sono peggiorate,
ma riveste anche il ruolo di vero e proprio antecedente logico-giuridico senza
il quale non si sarebbero verificate le conseguenze successive – fra cui,
senz’altro anche la morte. Da
ultimo, una volta accertata la responsabilità della p.a. per le lesioni subite
dal defunto e appurato che tale responsabilità si estende anche all’esito
letale del danno, si tratta di determinare il quantum del
risarcimento. A
tal proposito, il Tribunale ha liquidato la consistente cifra complessiva –
pari a € 254.805,00 – quale somma di due distinte voci di danno: da un lato il
danno non patrimoniale – biologico e morale – subito dal de cuius
spettante agli attori jure hereditatis; dall’altro il danno, ancora non
patrimoniale (rectius: morale), spettante ai congiunti del
defunto jure proprio, in ragione della perdita affettiva da essi subita
per la scomparsa di un valido sostegno morale. Sotto
il primo profilo, il Tribunale ha addirittura ridotto le richieste avanzate da
parte attrice, fondate su un’applicazione dei tradizionali criteri tabellari.
Tali criteri, afferma il giudicante, sono inadeguati al caso di specie per
almeno due ordini di motivi. Da un lato le richieste vanno ridotte poiché “...assumere
che il risarcimento del danno biologico, cui consegua la morte, è dovuto per
intero ... non è corretto perché esclude uno degli elementi costitutivi del
danno risarcibile: e cioè la durata di esso.” In altre parole, la morte,
come – in senso più favorevole – la completa guarigione del paziente,
escludono, per definizione, che vi sia una qualche menomazione fisica nel
paziente, limitando la risarcibilità a quelle sole voci di danno che attengano
all’inabilità temporanea in cui ha versato il danneggiato finché è
sopravvissuto. D’altro canto, tuttavia, l’applicazione meccanica e pedissequa
delle richiamate tabelle, per quanto esse siano dettate per un uso il più
possibile generalizzato, risulta inadatta in considerazione del fatto che esse
presuppongo la sopravvivenza del soggetto alle lesioni subite. Pertanto “…detto
complessivo danno non patrimoniale (biologico e morale), patito dalla vittima e
da questa trasmesso agli eredi, non può essere liquidato secondo i criteri
ordinari (tabellari o equitativi), ma va opportunamente personalizzato (cfr.
Cassazione civile, sez. III, 16 maggio 2003, n. 7632; Cassazione civile, sez.
III, 14 luglio 2003, n. 11003) tenendo conto della maggiore intensità della
sofferenza, della circostanza che la malattia è stata seguita dalla morte,
delle condizioni in cui versò il soggetto in quel periodo…” Ben
più consistente rispetto al primo profilo di danno, risulta essere il secondo,
e cioè quello risarcibile jure proprio agli attori-congiunti del
defunto, riconoscendo loro un grave perturbamento dell’animo e della vita
familiare. Tale valutazione, per quanto necessariamente legata a criteri equitativi,
non può tuttavia prescindere da una qualche forma di correlazione razionale tra
l’entità oggettiva del danno e l’equivalente pecuniario. A tal proposito, il
Tribunale ha ritenuto di dover applicare al caso concreto la formula del
risarcimento del danno morale che sarebbe spettato al danneggiato (tenendo
conto delle circostanze di specie, quali età, sofferenze patite, ecc.) se,
anziché morire, egli avesse riportato una invalidità pari al 100%. A
ciò si aggiungono le spese funerarie – che, in base a quanto affermato dalla
Corte di Cassazione (cfr. sent. 4185/1998), costituiscono “…parte integrante
dell’obbligazione risarcitoria gravante sull’autore del fatto…” – e gli
interessi sulla somma complessiva. In particolare, precisa il Tribunale, tale
ultimo conteggio, dovendo in esso ricomprendersi anche il risarcimento per il
danno derivante da ritardato pagamento, deve essere effettuato sulla somma
capitale di anno in anno aggiornata in ragione di tassi medi di rivalutazione,
anziché risultare da un’unica operazione compiuta sulla cifra finale totale
(cfr. Cass., S.U., 17.02.1995, n. 1712). (Altalex, 23 agosto 2006. Nota di Marco Contini. Si ringrazia Giuseppe Incardona, avvocato in Palermo) Tribunale di Palermo Sezione III Civile In
Nome Del Popolo Italiano Il
Tribunale di Palermo – III Sezione Civile in
composizione monocratica, in persona del Giudice Istruttore Dott. Giuseppe De
Gregorio, all’esito della discussione orale, ha pronunciato e pubblicato
mediante lettura di dispositivo e contestuale motivazione (art. 281 sexies
c.p.c.) la seguente SENTENZA nella
causa civile iscritta al n° 6585/2003 R.G. vertente tra B.
A. M., D. G., D. D., D. F. (avv. G. Incardona) Attori e: Comune
di Palermo, in persona del Sindaco legale rappresentante pro tempore (avv.
Francesco Friscia) Convenuto. Il
Tribunale di Palermo – III Sezione Civile in
composizione monocratica in persona del Giudice dr. G. De Gregorio, ogni
contraria istanza, eccezione e deduzione respinta, definitivamente pronunciando
nel contraddittorio delle parti, così provvede: In
accoglimento delle domande avanzate da B. A. M., D. D., D. F., D. G. con atto
di citazione del 23/5/2006, condanna Comune di Palermo al pagamento: in favore
di tutti gli altri attori della somma di € 15.580,13.= oltre interessi come per
legge dalla data della decisione sino al soddisfo; in favore dell’attrice B. A.
M. della somma di € 169.870,00.=, oltre interessi come per legge dalla data
della decisione sino al soddisfo; in favore di ciascuno degli attori D. G., S.,
F. della somma di € 84.935,00.= (e così in totale € 254.805,00.=), oltre
interessi come per legge dalla data della decisione sino al soddisfo. Condanna
il comune convenuto alla rifusione delle spese in favore degli attori, che
liquida in complessivi € 7.420,00.= di cui € 960,00 per esborsi, € 1.320,00 per
diritti, € 5.140,00 per onorari, oltre rimborso spese generali, I.V.A. e C.P.A.
come per legge, ed oltre le spese di CTU, liquidate come da decreto in atti. La
sentenza è provvisoriamente esecutiva tra le parti ai sensi dell’art. 282
c.p.c.. Motivi della Decisione La
domanda risarcitoria di A. M. B., D. D., F. D. e G. D. si incentra, in punto di
ricostruzione del fatto illecito dedotto (rovinosa caduta del 08.3.2001, di G.
D., marito della prima e padre degli altri, sulla cittadina via Wagner), sulla
stato di manutenzione della sede stradale di cui è titolare il Comune
convenuto, in particolare da ricondurre alla presenza di una buca non perfettamente
visibile (per cui il de cuius cadde procurandosi lesioni, che ne cagionarono
-secondo la prospettazione attorea – il decesso il successivo 21.3.2001). Da
ciò discende, poi, la conclusione in ordine alla responsabilità del Comune (per
quanto appresso specificato), al quale viene chiesto il ristoro dei danni
patrimoniali e non patrimoniali patiti, sia jure proprio che hereditatis, sotto
il profilo della responsabilità extracontrattuale. E
ai sensi dell’ art. 2051 c.c.c. - non risultando contestato dal Comune che la
caduta avvenne allorquando D. incappò su ampia buca presente sulla sede
stradale, descritta anche nella relazione tecnica versata in atti dagli attori,
con fotografie rammostranti il marciapiedi - deve ritenersi acclarata la
responsabilità dell’Ente proprietario della strada. A
nulla rileva poi che l’odierno attore potesse accorgersi, per le buone
condizioni di visibilità (il fatto avvenne intorno alle ore 12:00), della
insidia : è irrilevante, infatti, per l’attribuzione di responsabilità di cui
all’art. 2051 c.c. il concetto di insidia elaborato dalla giurisprudenza in
riferimento alla diversa previsione dell’art. 2043 cod. civ. (cfr., tra le
tante, Cassazione civile sez. III, 8 novembre 2002, n. 15710), ed atta a
connotare peculiarmente i presupposti (non visibilità e imprevedibilità) della
situazione di pericolo. Sulla
responsabilità ex art. 2051 c.c.., è rimasto dimostrato che la "cosa"
- rectius, il marciapiedi dissestato - ebbe piena efficienza causale
sull’infortunio; e tanto basta per derivarne la presunzione di colpa in capo a
chi, per quei lavori, ne era divenuto di fatto custode, e che può liberarsi
solo fornendo la dimostrazione del caso fortuito: prova nel caso di specie non
fornita. Né,
infine, rileva che il Comune abbia affidato la gestione dei servizi di
manutenzione delle strade cittadine ad altro Ente (AMIA), come documentato
(deliberazione Consiglio Comunale del 13.3.1993); ciò, infatti, può avere
rilievo nei rapporti interni fra detti soggetti, non potendosi escludere comunque
la responsabilità del proprietario della sede stradale. Pertanto,
in ragione di tali considerazioni, va dichiarata la responsabilità del Comune
di Palermo. Per
il danno, vanno soggiunte diverse considerazioni. Deve
intanto evidenziarsi che G. D., a cagione della caduta, riportò delle lesioni
di natura esclusivamente ortopedica (frattura mediocervicale del femore destro
e frattura del collo chirurgico dell’omero destro), come accertato dal CTU, con
relazione coerente e lineare, logicamente sviluppata e pienamente esaustiva
rispetto ai quesiti proposti, i cui risultati si condividono pertanto in questa
sede. Il successivo decesso, occorso in data 21 marzo 2001, avvenne poi a
cagione di patologie preesistenti di cui soffriva già G. D. (che aveva 78 anni),
e cioè malattia cerebrovascolare cronica a prevalente impegno cerebrale,
diabete mellito, ipertensione, e rispetto le quali le lesioni sofferte a
cagione della caduta possono aver svolto ruolo di concausa nel determinismo
della morte, facendo cioè precipitare una situazione clinica già compromessa
(così il CTU). E non può non evidenziarsi che, contrariamente a quanto rappresentato
dal CT di parte dell’ attore, già nei primi momenti di ricovero dopo il
sinistro (presso il Pronto Soccorso) cominciò a manifestare segni clinici
riconducibili non solo all’evento per cui è causa, bensì alle patologie
pregresse (episodio ischemico con afasia, descritto nel relativo referto). Per
stabilire, quindi, se la caduta dell’8 marzo 2001 possa considerarsi
antecedente causale non solo delle lesioni ma anche del successivo decesso,
deve porsi mente alla interpretazione dell’art. 41 c.p. - e quindi della
rilevanza, per l’ordinamento, di tutti fattori causali concomitanti (salva
l’ipotesi della causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento)
-, norma di riferimento atteso che il codice civle non disciplina
l’accertamento del nesso di causalità materiale (e tale lacuna viene
comunemente colmata attingendo alle disposizioni del codice penale: cfr. sul
punto, e tra le tante, Cassazione 17 novembre 1997 n° 11386). La
stessa Cassazione ancora recentemente sostiene con nettezza che “è ius receptum
il principio secondo il quale tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un
evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause,
abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota, salvo
il temperamento di cui all’art. 41, secondo comma, c.p., secondo cui la causa
prossima sufficiente da sola a produrre l’evento esclude il nesso eziologico
fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere
occasioni”, derivandone “che, per escludere che un determinato fatto abbia
concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe
potuto verificarsi anche in mancanza di quel fatto, ma occorre dimostrare,
avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si
sarebbe egualmente verificato senza quell’antecedente” (Cass. 5 luglio 2004 n°
12273). Prova nel caso di specie non solo non sussistente, ma addirittura
smentita dalle valutazioni espresse dal CTU. Posto,
quindi, che il sinistro per cui è causa rappresentò concausa dell’evento
letale, deve a questo punto delinearsi il danno patito, che gli attori indicano
innanzitutto in quello biologico/morale patito dal de cuius, per il periodo dal
sinistro al decesso, e che pretendono quali eredi di G. D.. Per la stima, gli
stessi attori chiedono l’applicazione dei criteri tabellari ordinari,
parametrandoli alla invalidità permanente che le sole lesioni di natura
ortopedica avrebbe cagionato ( e che il CTU stesso, con valutazione di tipo
prognostico-probabilistico, stima nel 15%). Tuttavia,
assumere che il risarcimento del danno biologico, cui consegua la morte, è
dovuto per intero (come se il soggetto avesse raggiunto la durata di vita
conforme alle speranze) nel caso in cui il decesso è (anche) conseguenza delle
lesioni, non è corretto perché esclude uno degli elementi costituitivi del
danno risarcibile: e cioè la durata di esso. Poiché,
secondo i più recenti orientamenti, anche il danno biologico è una perdita (del
bene salute), non può dar luogo allo stesso risultato risarcitorio risentire di
questa perdita del bene salute nella misura del 100% per alcuni giorni/mesi o
per l’intera durata della via media. Ed invero, se la morte è stata causata
dalle lesioni, l’unico danno biologico risarcibile è quello correlato
dall’inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso
concepibile un danno biologico da invalidità permanente. Infatti,
secondo i principi medico-legali, a qualsiasi lesione dell’integrità
psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può
conseguire talore un’invalidità permanente, Per l’esattezza l’invalidità
permanente si considera insorta allorché, dopo che la malattia ha compiuto il
suo decorso, l’individuo non sia riuscito a riacquistare la sua completa
validità. Il consolidarsi di postumi permanenti può quindi mancare in due casi:
o quando, cessata la malattia, questa risulti guarita senza reliquati; ovvero
quando la malattia si risolva con esito letale. La nozione medico-legale di
"invalidità permanente" presuppone, dunque, che la malattia sia
cessata e che l’organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari
alterato, ma stabile. Si
intende, pertanto, come nell’ipotesi di morte causata dalle lesione, non sia
configurabile alcuna invalidità permanente in senso medico-legale: la malattia,
infatti, non si risolve con esiti permanenti, ma determina, o contribuisce a
determinare (come nel caso di specie) la morte dell’individuo. Ne
consegue che quando la morte è causata dalle lesioni, dopo un apprezzabile
lasso di tempo, il danneggiato acquisisce soltanto il diritto al risarcimento
del danno biologico da inabilità temporanea e per il tempo di permanenza in
vita; e perciò la risarcibilità del danno (biologico, ma anche morale, per il
patema d’animo connesso alla malattia) è ammessa iure hereditatis,
limitatamente al periodo di sopravvivenza (cfr. Corte Costituzionale 27 ottobre
1994, n° 372, nonché Cassazione civile, 27.12.1994, n° 11169). Va
poi soggiunto che detto complessivo danno non patrimoniale (biologico e
morale), patito dalla vittima e da questa trasmesso agli eredi, non può essere
liquidato secondo i criteri ordinari (tabellari o equitativi), ma va
opportunamente personalizzato (cfr. Cassazione civile, sez. III, 16 maggio
2003, n. 7632; Cassazione civile, sez. III, 14 luglio 2003, n. 11003) tenendo
conto della maggiore intensità della sofferenza, della circostanza che la malattia
è stata seguita dalla morte, delle condizioni in cui versò il soggetto in quel
periodo (al riguardo, va segnalato che dalla documentazione clinica emerge che
l’infortunato era cosciente e percepì la malattia, mentre non si evince se ebbe
contezza dell’esito infausto post-operatorio). In definitiva, quello in esame è
un danno nel quale i fattori della personalizzazione debbono valere in un grado
assai elevato e, per questa ragione, non può essere liquidato attraverso
l’applicazione di criteri contenuti in tabelle, che, per quanto dettagliate,
nella generalità dei casi, sono predisposte per la liquidazione del danno
biologico o delle invalidità temporanee o permanenti di soggetti che
sopravvivono all’evento dannoso. Nel
caso di specie, quindi, non deve farsi riferimento al richiamato (dagli attori)
criterio tabellare adottato da questo Tribunale, che a sua volta si rifà ai
valori della legge 57/2001 (pur se previsti espressamente per l’infortunistica
stradale), mentre deve aversi riguardo alla gravità delle lesioni ed
all’intensità del dolore della vittima. Allora,
proprio in ragione della gravi lesioni patite (lesioni fratturative, che hanno
imposto terapia continua, in ospedale, e hanno causato gli aggravamenti che hanno
condotto al decesso) non può che accordarsi un importo ben inferiore a quello
indicato dagli attori, e cioè € 12.000,00.= da ricollegare ai tredici giorni di
invalidità e alle sofferenze morali connesse, in valuta esclusivamente attuale:
ammontare certamente congruo rispetto la valutazione meramente equitativa che
il caso di specie richiede. Danno
non patrimoniale iure proprio. Tale
posta va accordata, secondo l’orientamento tradizionale del Supremo Collegio
(cfr. Cassazione civile 7.5.1983 n° 3116) per cui "il risarcimento del
danno non patrimoniale, derivante dalla morte ex delicto, va riconosciuto in
favore dei prossimi congiunti, iure proprio, cioè indipendentemente dalla loro
qualità di eredi, quando il rapporto di stretta parentela con la vittima, le
condizioni personali ed ogni altra circostanza del caso concreto evidenzino un
grave perturbamento del loro animo e della loro vita familiare, per la perdita
di un valido sostegno morale, e, pertanto, a prescindere dall’eventuale
pregressa cessazione della situazione di convivenza con la vittima medesima, la
quale di per sé non può configurare elemento indiziario idoneo a sorreggere la
congettura del venir meno della comunione spirituale fra congiunti, con
conseguente riduzione della sofferenza dei superstiti a un livello
giuridicamente irrilevante”. E
in base alla relazione di parentela e di convivenza, può riconoscersi il danno
non patrimoniale (morale) "riflesso" richiesto. Per
quanto attiene alla valutazione, questo danno sfugge, in virtù del suo contenuto
etico, ad una precisa quantificazione ed è, pertanto, di natura essenzialmente
equitativa; tuttavia, va rispettata l’esigenza di una razionale correlazione
tra l’entità oggettiva del danno (specie se destinato a protrarsi nel tempo) e
l’equivalente pecuniario, in modo che questo, tenuto conto del potere di
acquisto della moneta, mantenga la sua connessione con l’entità e la natura del
danno da risarcire, e non rappresenti un mero simulacro o una parvenza di
risarcimento (cfr. Cass. Civ. sez. III 21.5.1996 n° 4671). Può quindi operarsi
un criterio che, pur rimanendo essenzialmente equitativo, offra un parametro di
riferimento concreto, anche in relazione all’ esigenza di indicare gli estremi
logico- giuridici e fattuali che hanno guidato la quantificazione (cfr.
Cassazione civile, sez. II l1.2.1998 n° 1382): si liquida, allora, sulla base
del danno morale che sarebbe spettato al defunto se, anziché morire, avesse
riportato una invalidità del 100%, tenendo pure conto delle esigenze del caso
di specie, e cioè dell’ età della persona offesa e del dolore arrecato ai
familiari per la sua morte e di tutte le circostanze ed elementi della
fattispecie, in modo da rendere la somma liquidata il più possibile adeguata
all’effettivo pretium doloris. Ciò utilizzando un parametro di riferimento
preciso, rappresentato dalle tabelle in uso presso questo Tribunale per la
liquidazione del danno biologico e del morale, già richiamate in precedenza, e
secondo il criterio dagli stessi attori invocato; contemperato però con le
esigenze del caso concreto, e cioè con la particolare situazione di salute in
cui versava il de cuius, rispetto la quale - come detto - l’incidente occorso
in via Wagner rappresenta un antecedente causale. Pertanto,
può allora liquidarsi ai superstiti (in base agli scarni elementi forniti al
Decidente - essenzialmente, la relazione di parentela - ed equitativamente) la
cifra di € 150.000,00 per la moglie, ed € 75.000,00 per ciascuno dei tre figli. Spese
funerarie: va premesso che nel caso di fatto illecito che abbia determinato la
morte della vittima, le spese funerarie costituiscono parte integrante
dell’obbligazione risarcitoria gravante sull’autore del fatto, della quale
condividono la natura nel senso che danno luogo anch’esse ad un debito di valore
(cfr. Cassazione Civile sez. 3 23.04.1998 n° 4185). Pertanto, tale richiesta è
accoglibile, considerate inoltre le allegazioni probatorie sul punto. Tale voce
si liquida nel complessivo ammontare, in valuta dell’epoca dell’esborso (come
da copia della fattura prodotta), di Lire 3.113.700, da rivalutare in attuali
Lire 3.350.000 pari ad € 1.730,13. Interessi
da ritardato pagamento: le somme sin qui liquidate, se da un lato costituiscono
l’adeguato equivalente pecuniario, al momento della statuizione, della compromissione
di beni giuridicamente protetti, tuttavia non comprendevano l’ulteriore e
diverso danno rappresentato dalla mancata disponibilità della somma dovuta,
provocata dal ritardo con cui viene liquidato al creditore danneggiato
l’equivalente in D. del bene leso. Orbene, tale voce di danno deve essere
provata dal creditore e, solo in caso negativo, il giudice, nel liquidare il
risarcimento ad essa relativo, può fare riferimento, quale criterio presuntivo
ed equitativo, ad un tasso di interesse che, in mancanza di contrarie
indicazioni suggerite dal caso concreto, può essere fissato in un valore
prossimo all’interesse legale del periodo intercorrente tra la data del fatto e
quella attuale della liquidazione; ciò in quanto nei debiti di valore, come in
quelli di risarcimento da fatto illecito, vanno infatti corrisposti interessi
per il cui calcolo non si deve utilizzare necessariamente il tasso legale, ma
un valore tale da rimpiazzare il mancato godimento delle utilità che avrebbe
potuto dare il bene perduto. Tale
"interesse" va poi applicato non già alla somma rivalutata in
un’unica soluzione alla data della sentenza, bensì, conformemente al principio
enunciato dalle S.U. della Suprema Corte con sentenza 17/2/1995, n° 1712
(ribadito da Cassazione sez. II civile sentenza 3/12/1997 n° 12262, nonché da
Cassazione civile sez. III, l0 marzo 2000 n° 2796 sulla "somma
capitale" originaria rivalutata di anno in anno. Procedendo
alla stregua dei criteri appena enunciati, a partire dal danno complessivamente
subito e su indicato in valori attuali, si determina il “danno iniziale",
inteso come danno finale devalutato alla data del sinistro; questo dunque viene
successivamente rivalutato fino alla data della sentenza, al contempo
calcolando gli interessi ponderati via via maturati. Si arriva in tal modo a
determinare l’importo esatto degli interessi da corrispondere per la mancata
completa disponibilità del risarcimento dovuto. All’esito di tutti i conteggi,
la somma da liquidare in favore di B. A. M., D. G., D. D., D. F. - quali eredi
di G. D. - ammonta ad € 15.580,13.=, somma del danno morale e biologico per
invalidità temporanea precedentemente riconosciuto (per il de cuius), e del
danno patrimoniale (per spese funerarie), e degli interessi (€ 1.850,00). Le
somme da liquidare in favore di B. A. M., D. G., D. D., D. F. - in proprio -
ammontano a complessivi € 424.675,00.=, di cui € 169.970,00 per la prima ed €
254.805,00 in totale per gli altri tre (€ 84.935,00 cadauno). Su
tutti tali valori, al cui pagamento va condannato il comune di Palermo,
decorrono gli interessi al tasso legale vigente dalla data della presente
sentenza all’effettivo saldo. Le
spese (ivi comprese quelle di CTU) seguono la soccombenza; la liquidazione in
dispositivo. Così
deciso in Palermo alla udienza odierna del 28 giugno 2006. Depositato
in Cancelleria il 28 giugno 2006. |
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