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Da Altalex - Danni da insidia stradale: responsabilità oggettiva del Comune

Tribunale Palermo, sez. III civile, sentenza 28 giugno 2006

In seguito ad una rovinosa caduta, dovuta ad un non perfetto stato di manutenzione del manto stradale, un anziano signore riporta diverse ferite e muore per complicanze insorte in conseguenza anche del suo precario stato di salute generale. Il Tribunale, riconoscendo la responsabilità aggravata in capo alla p.a. custode della strada, estesa anche all’esito letale, liquida una considerevole somma a favore degli eredi e congiunti attori.

La sentenza in commento si articola in tre distinti passaggi fondamentali.

Anzitutto, con riguardo alla responsabilità della p.a. convenuta, il Tribunale afferma che “...ai sensi dell’ art. 2051 c.c. - non risultando contestato dal Comune che la caduta avvenne allorquando D. incappò su ampia buca presente sulla sede stradale, descritta anche nella relazione tecnica versata in atti dagli attori, con fotografie rammostranti il marciapiedi - deve ritenersi acclarata la responsabilità dell’Ente proprietario della strada.

Sulla scorta di quanto la Corte di Cassazione ha affermato nelle recentissime pronunce n. 3651 del 20.02.06 e n. 5445 del 14.03.06 (cfr. per una ricostruzione più ampia ed organica, su Altalex: Insidia stradale: configurabile la responsabilità aggravata della p.a. e Responsabilità civile della p.a. da manutenzione di strade pubbliche, entrambi di Giuseppe Buffone), anche il Tribunale di Palermo ha ribadito che, in tema di insidia stradale, la p.a., in qualità di custode della rete stradale di propria competenza, è soggetta all’applicazione della c.d. “responsabilità aggravata” prevista all’articolo 2051 c.c., anziché alla semplice responsabilità aquiliana ex art. 2043. Conseguentemente, afferma il giudicante, “...è irrilevante ... il concetto di insidia elaborato dalla giurisprudenza in riferimento alla diversa previsione dell’art. 2043...” e quindi a nulla rileva la circostanza che il danneggiato fosse in grado di accorgersi della presenza dell’ostacolo, poiché chi agisce per ottenere il risarcimento non è più onerato della prova dell’elemento colposo.

In altre parole, non sta più al danneggiato dimostrare l’esistenza di una “insidia” – caratterizzata dai ben noti elementi obiettivi (non visibilità del pericolo) e soggettivi (imprevedibilità, costituita dall’impossibilità di avvistare in tempo il pericolo medesimo per evitarlo con l’uso della normale diligenza e prudenza) –, ma alla p.a. fornire, eventualmente, la prova liberatoria di aver fatto tutto ciò che era in suo potere affinché il danno non si verificasse – da non confondere, si badi bene, con la dimostrazione di inesistenza del nesso causale tra buca e danno subito.

Per completezza di esposizione merita qui accennare anche alla tesi che esclude l’ammissibilità di una prova contraria da parte della p.a., poiché, a tal proposito, nulla è previsto nell’articolo 2051 c.c., mentre, si obietta, in altri casi, laddove il legislatore lo ha ritenuto opportuno – si veda ad esempio nell’articolo 2050 – tale possibilità è stata espressamente prevista.

In secondo luogo, inoltre, il Tribunale affronta il problema “...se la caduta ... possa considerarsi antecedente causale non solo delle lesioni ma anche del successivo decesso…”.

A tal proposito, si afferma – ancora una volta nel solco già tracciato dalla S.C. (cfr. sentenza 5.07.04 n. 12273) – che “antecedente causale” del decesso è, secondo l’interpretazione prevalente dell’articolo 41 c.p., ogni antecedente “in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato”, sia quelli diretti e prossimi, sia quelli indiretti e remoti. Se è vero, nel caso di specie, che la morte del danneggiato è intervenuta anche in conseguenza delle sue pregresse condizioni di salute, si può affermare, tuttavia, che la caduta non è la mera occasione di fatto in cui tali condizioni sono peggiorate, ma riveste anche il ruolo di vero e proprio antecedente logico-giuridico senza il quale non si sarebbero verificate le conseguenze successive – fra cui, senz’altro anche la morte.

Da ultimo, una volta accertata la responsabilità della p.a. per le lesioni subite dal defunto e appurato che tale responsabilità si estende anche all’esito letale del danno, si tratta di determinare il quantum del risarcimento.

A tal proposito, il Tribunale ha liquidato la consistente cifra complessiva – pari a € 254.805,00 – quale somma di due distinte voci di danno: da un lato il danno non patrimoniale – biologico e morale – subito dal de cuius spettante agli attori jure hereditatis; dall’altro il danno, ancora non patrimoniale (rectius: morale), spettante ai congiunti del defunto jure proprio, in ragione della perdita affettiva da essi subita per la scomparsa di un valido sostegno morale.

Sotto il primo profilo, il Tribunale ha addirittura ridotto le richieste avanzate da parte attrice, fondate su un’applicazione dei tradizionali criteri tabellari. Tali criteri, afferma il giudicante, sono inadeguati al caso di specie per almeno due ordini di motivi. Da un lato le richieste vanno ridotte poiché “...assumere che il risarcimento del danno biologico, cui consegua la morte, è dovuto per intero ... non è corretto perché esclude uno degli elementi costitutivi del danno risarcibile: e cioè la durata di esso.” In altre parole, la morte, come – in senso più favorevole – la completa guarigione del paziente, escludono, per definizione, che vi sia una qualche menomazione fisica nel paziente, limitando la risarcibilità a quelle sole voci di danno che attengano all’inabilità temporanea in cui ha versato il danneggiato finché è sopravvissuto. D’altro canto, tuttavia, l’applicazione meccanica e pedissequa delle richiamate tabelle, per quanto esse siano dettate per un uso il più possibile generalizzato, risulta inadatta in considerazione del fatto che esse presuppongo la sopravvivenza del soggetto alle lesioni subite. Pertanto “…detto complessivo danno non patrimoniale (biologico e morale), patito dalla vittima e da questa trasmesso agli eredi, non può essere liquidato secondo i criteri ordinari (tabellari o equitativi), ma va opportunamente personalizzato (cfr. Cassazione civile, sez. III, 16 maggio 2003, n. 7632; Cassazione civile, sez. III, 14 luglio 2003, n. 11003) tenendo conto della maggiore intensità della sofferenza, della circostanza che la malattia è stata seguita dalla morte, delle condizioni in cui versò il soggetto in quel periodo…

Ben più consistente rispetto al primo profilo di danno, risulta essere il secondo, e cioè quello risarcibile jure proprio agli attori-congiunti del defunto, riconoscendo loro un grave perturbamento dell’animo e della vita familiare. Tale valutazione, per quanto necessariamente legata a criteri equitativi, non può tuttavia prescindere da una qualche forma di correlazione razionale tra l’entità oggettiva del danno e l’equivalente pecuniario. A tal proposito, il Tribunale ha ritenuto di dover applicare al caso concreto la formula del risarcimento del danno morale che sarebbe spettato al danneggiato (tenendo conto delle circostanze di specie, quali età, sofferenze patite, ecc.) se, anziché morire, egli avesse riportato una invalidità pari al 100%.

A ciò si aggiungono le spese funerarie – che, in base a quanto affermato dalla Corte di Cassazione (cfr. sent. 4185/1998), costituiscono “…parte integrante dell’obbligazione risarcitoria gravante sull’autore del fatto…” – e gli interessi sulla somma complessiva. In particolare, precisa il Tribunale, tale ultimo conteggio, dovendo in esso ricomprendersi anche il risarcimento per il danno derivante da ritardato pagamento, deve essere effettuato sulla somma capitale di anno in anno aggiornata in ragione di tassi medi di rivalutazione, anziché risultare da un’unica operazione compiuta sulla cifra finale totale (cfr. Cass., S.U., 17.02.1995, n. 1712).

(Altalex, 23 agosto 2006. Nota di Marco Contini. Si ringrazia Giuseppe Incardona, avvocato in Palermo)


Tribunale di Palermo

Sezione III Civile

In Nome Del Popolo Italiano

Il Tribunale di Palermo – III Sezione Civile

in composizione monocratica, in persona del Giudice Istruttore Dott. Giuseppe De Gregorio, all’esito della discussione orale, ha pronunciato e pubblicato mediante lettura di dispositivo e contestuale motivazione (art. 281 sexies c.p.c.) la seguente

SENTENZA

nella causa civile iscritta al n° 6585/2003 R.G. vertente tra

B. A. M., D. G., D. D., D. F. (avv. G. Incardona)

Attori

e:

Comune di Palermo, in persona del Sindaco legale rappresentante pro tempore (avv. Francesco Friscia)

Convenuto.

Il Tribunale di Palermo – III Sezione Civile

in composizione monocratica in persona del Giudice dr. G. De Gregorio, ogni contraria istanza, eccezione e deduzione respinta, definitivamente pronunciando nel contraddittorio delle parti, così provvede:

In accoglimento delle domande avanzate da B. A. M., D. D., D. F., D. G. con atto di citazione del 23/5/2006, condanna Comune di Palermo al pagamento: in favore di tutti gli altri attori della somma di € 15.580,13.= oltre interessi come per legge dalla data della decisione sino al soddisfo; in favore dell’attrice B. A. M. della somma di € 169.870,00.=, oltre interessi come per legge dalla data della decisione sino al soddisfo; in favore di ciascuno degli attori D. G., S., F. della somma di € 84.935,00.= (e così in totale € 254.805,00.=), oltre interessi come per legge dalla data della decisione sino al soddisfo.

Condanna il comune convenuto alla rifusione delle spese in favore degli attori, che liquida in complessivi € 7.420,00.= di cui € 960,00 per esborsi, € 1.320,00 per diritti, € 5.140,00 per onorari, oltre rimborso spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge, ed oltre le spese di CTU, liquidate come da decreto in atti.

La sentenza è provvisoriamente esecutiva tra le parti ai sensi dell’art. 282 c.p.c..

Motivi della Decisione

La domanda risarcitoria di A. M. B., D. D., F. D. e G. D. si incentra, in punto di ricostruzione del fatto illecito dedotto (rovinosa caduta del 08.3.2001, di G. D., marito della prima e padre degli altri, sulla cittadina via Wagner), sulla stato di manutenzione della sede stradale di cui è titolare il Comune convenuto, in particolare da ricondurre alla presenza di una buca non perfettamente visibile (per cui il de cuius cadde procurandosi lesioni, che ne cagionarono -secondo la prospettazione attorea – il decesso il successivo 21.3.2001).

Da ciò discende, poi, la conclusione in ordine alla responsabilità del Comune (per quanto appresso specificato), al quale viene chiesto il ristoro dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti, sia jure proprio che hereditatis, sotto il profilo della responsabilità extracontrattuale.

E ai sensi dell’ art. 2051 c.c.c. - non risultando contestato dal Comune che la caduta avvenne allorquando D. incappò su ampia buca presente sulla sede stradale, descritta anche nella relazione tecnica versata in atti dagli attori, con fotografie rammostranti il marciapiedi - deve ritenersi acclarata la responsabilità dell’Ente proprietario della strada.

A nulla rileva poi che l’odierno attore potesse accorgersi, per le buone condizioni di visibilità (il fatto avvenne intorno alle ore 12:00), della insidia : è irrilevante, infatti, per l’attribuzione di responsabilità di cui all’art. 2051 c.c. il concetto di insidia elaborato dalla giurisprudenza in riferimento alla diversa previsione dell’art. 2043 cod. civ. (cfr., tra le tante, Cassazione civile sez. III, 8 novembre 2002, n. 15710), ed atta a connotare peculiarmente i presupposti (non visibilità e imprevedibilità) della situazione di pericolo.

Sulla responsabilità ex art. 2051 c.c.., è rimasto dimostrato che la "cosa" - rectius, il marciapiedi dissestato - ebbe piena efficienza causale sull’infortunio; e tanto basta per derivarne la presunzione di colpa in capo a chi, per quei lavori, ne era divenuto di fatto custode, e che può liberarsi solo fornendo la dimostrazione del caso fortuito: prova nel caso di specie non fornita.

Né, infine, rileva che il Comune abbia affidato la gestione dei servizi di manutenzione delle strade cittadine ad altro Ente (AMIA), come documentato (deliberazione Consiglio Comunale del 13.3.1993); ciò, infatti, può avere rilievo nei rapporti interni fra detti soggetti, non potendosi escludere comunque la responsabilità del proprietario della sede stradale.

Pertanto, in ragione di tali considerazioni, va dichiarata la responsabilità del Comune di Palermo.

Per il danno, vanno soggiunte diverse considerazioni.

Deve intanto evidenziarsi che G. D., a cagione della caduta, riportò delle lesioni di natura esclusivamente ortopedica (frattura mediocervicale del femore destro e frattura del collo chirurgico dell’omero destro), come accertato dal CTU, con relazione coerente e lineare, logicamente sviluppata e pienamente esaustiva rispetto ai quesiti proposti, i cui risultati si condividono pertanto in questa sede. Il successivo decesso, occorso in data 21 marzo 2001, avvenne poi a cagione di patologie preesistenti di cui soffriva già G. D. (che aveva 78 anni), e cioè malattia cerebrovascolare cronica a prevalente impegno cerebrale, diabete mellito, ipertensione, e rispetto le quali le lesioni sofferte a cagione della caduta possono aver svolto ruolo di concausa nel determinismo della morte, facendo cioè precipitare una situazione clinica già compromessa (così il CTU). E non può non evidenziarsi che, contrariamente a quanto

rappresentato dal CT di parte dell’ attore, già nei primi momenti di ricovero dopo il sinistro (presso il Pronto Soccorso) cominciò a manifestare segni clinici riconducibili non solo all’evento per cui è causa, bensì alle patologie pregresse (episodio ischemico con afasia, descritto nel relativo referto).

Per stabilire, quindi, se la caduta dell’8 marzo 2001 possa considerarsi antecedente causale non solo delle lesioni ma anche del successivo decesso, deve porsi mente alla interpretazione dell’art. 41 c.p. - e quindi della rilevanza, per l’ordinamento, di tutti fattori causali concomitanti (salva l’ipotesi della causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento) -, norma di riferimento atteso che il codice civle non disciplina l’accertamento del nesso di causalità materiale (e tale lacuna viene comunemente colmata attingendo alle disposizioni del codice penale: cfr. sul punto, e tra le tante, Cassazione 17 novembre 1997 n° 11386).

La stessa Cassazione ancora recentemente sostiene con nettezza che “è ius receptum il principio secondo il quale tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota, salvo il temperamento di cui all’art. 41, secondo comma, c.p., secondo cui la causa prossima sufficiente da sola a produrre l’evento esclude il nesso eziologico fra questo e le altre cause antecedenti, facendole scadere al rango di mere occasioni”, derivandone “che, per escludere che un determinato fatto abbia concorso a cagionare un danno, non basta affermare che il danno stesso avrebbe potuto verificarsi anche in mancanza di quel fatto, ma occorre dimostrare, avendo riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, che il danno si sarebbe egualmente verificato senza quell’antecedente” (Cass. 5 luglio 2004 n° 12273). Prova nel caso di specie non solo non sussistente, ma addirittura smentita dalle valutazioni espresse dal CTU.

Posto, quindi, che il sinistro per cui è causa rappresentò concausa dell’evento letale, deve a questo punto delinearsi il danno patito, che gli attori indicano innanzitutto in quello biologico/morale patito dal de cuius, per il periodo dal sinistro al decesso, e che pretendono quali eredi di G. D.. Per la stima, gli stessi attori chiedono l’applicazione dei criteri tabellari ordinari, parametrandoli alla invalidità permanente che le sole lesioni di natura ortopedica avrebbe cagionato ( e che il CTU stesso, con valutazione di tipo prognostico-probabilistico, stima nel 15%).

Tuttavia, assumere che il risarcimento del danno biologico, cui consegua la morte, è dovuto per intero (come se il soggetto avesse raggiunto la durata di vita conforme alle speranze) nel caso in cui il decesso è (anche) conseguenza delle lesioni, non è corretto perché esclude uno degli elementi costituitivi del danno risarcibile: e cioè la durata di esso.

Poiché, secondo i più recenti orientamenti, anche il danno biologico è una perdita (del bene salute), non può dar luogo allo stesso risultato risarcitorio risentire di questa perdita del bene salute nella misura del 100% per alcuni giorni/mesi o per l’intera durata della via media. Ed invero, se la morte è stata causata dalle lesioni, l’unico danno biologico risarcibile è quello correlato dall’inabilità temporanea, in quanto per definizione non è in questo caso concepibile un danno biologico da invalidità permanente.

Infatti, secondo i principi medico-legali, a qualsiasi lesione dell’integrità psicofisica consegue sempre un periodo di invalidità temporanea, alla quale può conseguire talore un’invalidità permanente, Per l’esattezza l’invalidità permanente si considera insorta allorché, dopo che la malattia ha compiuto il suo decorso, l’individuo non sia riuscito a riacquistare la sua completa validità. Il consolidarsi di postumi permanenti può quindi mancare in due casi: o quando, cessata la malattia, questa risulti guarita senza reliquati; ovvero quando la malattia si risolva con esito letale. La nozione medico-legale di "invalidità permanente" presuppone, dunque, che la malattia sia cessata e che l’organismo abbia riacquistato il suo equilibrio, magari alterato, ma stabile.

Si intende, pertanto, come nell’ipotesi di morte causata dalle lesione, non sia configurabile alcuna invalidità permanente in senso medico-legale: la malattia, infatti, non si risolve con esiti permanenti, ma determina, o contribuisce a determinare (come nel caso di specie) la morte dell’individuo.

Ne consegue che quando la morte è causata dalle lesioni, dopo un apprezzabile lasso di tempo, il danneggiato acquisisce soltanto il diritto al risarcimento del danno biologico da inabilità temporanea e per il tempo di permanenza in vita; e perciò la risarcibilità del danno (biologico, ma anche morale, per il patema d’animo connesso alla malattia) è ammessa iure hereditatis, limitatamente al periodo di sopravvivenza (cfr. Corte Costituzionale 27 ottobre 1994, n° 372, nonché Cassazione civile, 27.12.1994, n° 11169).

Va poi soggiunto che detto complessivo danno non patrimoniale (biologico e morale), patito dalla vittima e da questa trasmesso agli eredi, non può essere liquidato secondo i criteri ordinari (tabellari o equitativi), ma va opportunamente personalizzato (cfr. Cassazione civile, sez. III, 16 maggio 2003, n. 7632; Cassazione civile, sez. III, 14 luglio 2003, n. 11003) tenendo conto della maggiore intensità della sofferenza, della circostanza che la malattia è stata seguita dalla morte, delle condizioni in cui versò il soggetto in quel periodo (al riguardo, va segnalato che dalla documentazione clinica emerge che l’infortunato era cosciente e percepì la malattia, mentre non si evince se ebbe contezza dell’esito infausto post-operatorio). In definitiva, quello in esame è un danno nel quale i fattori della personalizzazione debbono valere in un grado assai elevato e, per questa ragione, non può essere liquidato attraverso l’applicazione di criteri contenuti in tabelle, che, per quanto dettagliate, nella generalità dei casi, sono predisposte per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità temporanee o permanenti di soggetti che sopravvivono all’evento dannoso.

Nel caso di specie, quindi, non deve farsi riferimento al richiamato (dagli attori) criterio tabellare adottato da questo Tribunale, che a sua volta si rifà ai valori della legge 57/2001 (pur se previsti espressamente per l’infortunistica stradale), mentre deve aversi riguardo alla gravità delle lesioni ed all’intensità del dolore della vittima.

Allora, proprio in ragione della gravi lesioni patite (lesioni fratturative, che hanno imposto terapia continua, in ospedale, e hanno causato gli aggravamenti che hanno condotto al decesso) non può che accordarsi un importo ben inferiore a quello indicato dagli attori, e cioè € 12.000,00.= da ricollegare ai tredici giorni di invalidità e alle sofferenze morali connesse, in valuta esclusivamente attuale: ammontare certamente congruo rispetto la valutazione meramente equitativa che il caso di specie richiede.

Danno non patrimoniale iure proprio.

Tale posta va accordata, secondo l’orientamento tradizionale del Supremo Collegio (cfr. Cassazione civile 7.5.1983 n° 3116) per cui "il risarcimento del danno non patrimoniale, derivante dalla morte ex delicto, va riconosciuto in favore dei prossimi congiunti, iure proprio, cioè indipendentemente dalla loro qualità di eredi, quando il rapporto di stretta parentela con la vittima, le condizioni personali ed ogni altra circostanza del caso concreto evidenzino un grave perturbamento del loro animo e della loro vita familiare, per la perdita di un valido sostegno morale, e, pertanto, a prescindere dall’eventuale pregressa cessazione della situazione di convivenza con la vittima medesima, la quale di per sé non può configurare elemento indiziario idoneo a sorreggere la congettura del venir meno della comunione spirituale fra congiunti, con conseguente riduzione della sofferenza dei superstiti a un livello giuridicamente irrilevante”.

E in base alla relazione di parentela e di convivenza, può riconoscersi il danno non patrimoniale (morale) "riflesso" richiesto.

Per quanto attiene alla valutazione, questo danno sfugge, in virtù del suo contenuto etico, ad una precisa quantificazione ed è, pertanto, di natura essenzialmente equitativa; tuttavia, va rispettata l’esigenza di una razionale correlazione tra l’entità oggettiva del danno (specie se destinato a protrarsi nel tempo) e l’equivalente pecuniario, in modo che questo, tenuto conto del potere di acquisto della moneta, mantenga la sua connessione con l’entità e la natura del danno da risarcire, e non rappresenti un mero simulacro o una parvenza di risarcimento (cfr. Cass. Civ. sez. III 21.5.1996 n° 4671). Può quindi operarsi un criterio che, pur rimanendo essenzialmente equitativo, offra un parametro di riferimento concreto, anche in relazione all’ esigenza di indicare gli estremi logico- giuridici e fattuali che hanno guidato la quantificazione (cfr. Cassazione civile, sez. II l1.2.1998 n° 1382): si liquida, allora, sulla base del danno morale che sarebbe spettato al defunto se, anziché morire, avesse riportato una invalidità del 100%, tenendo pure conto delle esigenze del caso di specie, e cioè dell’ età della persona offesa e del dolore arrecato ai familiari per la sua morte e di tutte le circostanze ed elementi della fattispecie, in modo da rendere la somma liquidata il più possibile adeguata all’effettivo pretium doloris. Ciò utilizzando un parametro di riferimento preciso, rappresentato dalle tabelle in uso presso questo Tribunale per la liquidazione del danno biologico e del morale, già richiamate in precedenza, e secondo il criterio dagli stessi attori invocato; contemperato però con le esigenze del caso concreto, e cioè con la particolare situazione di salute in cui versava il de cuius, rispetto la quale - come detto - l’incidente occorso in via Wagner rappresenta un antecedente causale.

Pertanto, può allora liquidarsi ai superstiti (in base agli scarni elementi forniti al Decidente - essenzialmente, la relazione di parentela - ed equitativamente) la cifra di € 150.000,00 per la moglie, ed € 75.000,00 per ciascuno dei tre figli.

Spese funerarie: va premesso che nel caso di fatto illecito che abbia determinato la morte della vittima, le spese funerarie costituiscono parte integrante dell’obbligazione risarcitoria gravante sull’autore del fatto, della quale condividono la natura nel senso che danno luogo anch’esse ad un debito di valore (cfr. Cassazione Civile sez. 3 23.04.1998 n° 4185). Pertanto, tale richiesta è accoglibile, considerate inoltre le allegazioni probatorie sul punto. Tale voce si liquida nel complessivo ammontare, in valuta dell’epoca dell’esborso (come da copia della fattura prodotta), di Lire 3.113.700, da rivalutare in attuali Lire 3.350.000 pari ad € 1.730,13.

Interessi da ritardato pagamento: le somme sin qui liquidate, se da un lato costituiscono l’adeguato equivalente pecuniario, al momento della statuizione, della compromissione di beni giuridicamente protetti, tuttavia non comprendevano l’ulteriore e diverso danno rappresentato dalla mancata disponibilità della somma dovuta, provocata dal ritardo con cui viene liquidato al creditore danneggiato l’equivalente in D. del bene leso. Orbene, tale voce di danno deve essere provata dal creditore e, solo in caso negativo, il giudice, nel liquidare il risarcimento ad essa relativo, può fare riferimento, quale criterio presuntivo ed equitativo, ad un tasso di interesse che, in mancanza di contrarie indicazioni suggerite dal caso concreto, può essere fissato in un valore prossimo all’interesse legale del periodo intercorrente tra la data del fatto e quella attuale della liquidazione; ciò in quanto nei debiti di valore, come in quelli di risarcimento da fatto illecito, vanno infatti corrisposti interessi per il cui calcolo non si deve utilizzare necessariamente il tasso legale, ma un valore tale da rimpiazzare il mancato godimento delle utilità che avrebbe potuto dare il bene perduto.

Tale "interesse" va poi applicato non già alla somma rivalutata in un’unica soluzione alla data della sentenza, bensì, conformemente al principio enunciato dalle S.U. della Suprema Corte con sentenza 17/2/1995, n° 1712 (ribadito da Cassazione sez. II civile sentenza 3/12/1997 n° 12262, nonché da Cassazione civile sez. III, l0 marzo 2000 n° 2796 sulla "somma capitale" originaria rivalutata di anno in anno.

Procedendo alla stregua dei criteri appena enunciati, a partire dal danno complessivamente subito e su indicato in valori attuali, si determina il “danno iniziale", inteso come danno finale devalutato alla data del sinistro; questo dunque viene successivamente rivalutato fino alla data della sentenza, al contempo calcolando gli interessi ponderati via via maturati. Si arriva in tal modo a determinare l’importo esatto degli interessi da corrispondere per la mancata completa disponibilità del risarcimento dovuto. All’esito di tutti i conteggi, la somma da liquidare in favore di B. A. M., D. G., D. D., D. F. - quali eredi di G. D. - ammonta ad € 15.580,13.=, somma del danno morale e biologico per invalidità temporanea precedentemente riconosciuto (per il de cuius), e del danno patrimoniale (per spese funerarie), e degli interessi (€ 1.850,00).

Le somme da liquidare in favore di B. A. M., D. G., D. D., D. F. - in proprio - ammontano a complessivi € 424.675,00.=, di cui € 169.970,00 per la prima ed € 254.805,00 in totale per gli altri tre (€ 84.935,00 cadauno).

Su tutti tali valori, al cui pagamento va condannato il comune di Palermo, decorrono gli interessi al tasso legale vigente dalla data della presente sentenza all’effettivo saldo.

Le spese (ivi comprese quelle di CTU) seguono la soccombenza; la liquidazione in dispositivo.

Così deciso in Palermo alla udienza odierna del 28 giugno 2006.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2006.


© asaps.it
Giovedì, 24 Agosto 2006
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