RESPONSABILITA’
AUTOMOBILISTICA
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(ASAPS) - Diritto
al risarcimento, in caso di sinistro mortale, anche per le spese sostenute per
il funerale. Questo è l’aspetto più pubblicizzato, anche se meno importante, su
giornali e siti specializzati, della
sentenza del Tribunale di Brescia, pronunciata nel lontano 18 gennaio 1997,
oggi confermata dalla Cassazione con la pronuncia 12 giugno 2006, n. 13546. Gli eredi di una vittima della strada avevano presentato
istanza di risarcimento del danno al Tribunale ottenendo una somma a titolo sia
di risarcimento del danno patrimoniale, che di ristoro del danno non
patrimoniale. La cifra comprendeva la perdita dell’apporto alla contribuzione
economica, il danno morale, la riparazione del veicolo ed anche le spese per il
funerale. Non era stato riconosciuto, però dalla corte territoriale il danno
biologico, cioè la diminuzione apprezzabile economicamente della qualità della
persona, né a titolo di eredità, né per diritto proprio. Non iure
hereditatis, poiché la vittima era deceduta pressoché istantaneamente e,
per così dire semplificando, non aveva fatto in tempo ad acquisire un diritto
al risarcimento, per le gravi lesioni riportate, che i parenti potessero poi
ereditare. Non iure proprio poiché, secondo il tribunale, non era stato
provato il danno alla salute e cioè l’insorgenza di malattie psicofisiche causa
la scomparsa del congiunto. Il danno biologico sotto forma di danno
esistenziale, invece, era stato riconosciuto e risarcito, anche se sulla scorta
di un ragionamento poi censurato dalla Corte di Cassazione. E la sentenza
dell’Alta Corte n. 13546/2006, su questo punto, è una decisione di scuola. Per
quanto riguarda la figura di recente elaborazione, del danno esistenziale,
come particolare forma di risarcimento per danno non patrimoniale, la corte di
Brescia l’aveva fatta rientrare nel concetto di “danno biologico”, come “menomazione
psicofisica della persona, in sé e per sé considerata, incidente sul valore
umano in tutta la sua concreta dimensione, e che assume rilevanza non solo
economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica” (Cass.,
17/5/1985, n. 3025; Cass., 20/12/1988, n. 6938; Cass., 6/7/1990, n. 7101). Ora, in Cassazione, entrano in causa diverse
considerazioni sulla risarcibilità del danno non patrimoniale che, l’art. 2059
cod. civ. ammette al risarcimento solo nei casi determinati dalla legge. Il
discorso è piuttosto complesso ed per questo è stato perciò oggetto di diversi
orientamenti della stessa giurisprudenza di legittimità. Qui, basta ricordare
che l’interpretazione secondo la quale, con riferimento all’art.185 cod. pen.,
la possibilità di addivenire ad un risarcimento del danno non patrimoniale si
restringerebbe ai soli fatti che costituiscono reato, è stata dalla Corte
superata con l’ammissione al risarcimento di tutti i casi in cui vi sia lesione
di interessi essenziali della persona, costituzionalmente garantiti.
Trattandosi di interessi fondamentali, che si traducono in diritti inviolabili,
è la stessa norma costituzionale che li prevede a determinarne la risarcibilità
ai sensi dell’art. 2059. E’ un modo molto tecnico per dire che il diritto alla
salute, anche se non comporta danni patrimoniali, deve essere comunque
quantificato pecuniariamente. Nel nostro
caso, perciò, si è ammessa la risarcibilità del danno “morale” inteso come
patema d’animo o sofferenza psichica interiore, nonché del “danno biologico
psichico”, cioè una lesione alla integrità psicofisica, che è più del mero
dolore, ma una degenerazione della sofferenza psichica che tracima nella vera e
propria malattia. La morte di un parente, indiscutibilmente, menoma (anche
per sempre), la personalità del superstite, incidendo sul suo modo di essere
pure nei rapporti esterni, oltre che sull’ equilibrio e armonia del nucleo
familiare. Nel caso di specie si trattava di un nucleo familiare pacificamente
convivente, costituito dal defunto, dalla consorte e dai due figli maggiorenni,
unita anche nell’attività lavorativa, dato che i figli lavorano col padre. Per i superstiti di quella famiglia
la vita non sarà mai più quella che si prospettava. Ma se si dice che questa
menomazione è “indiscutibile”, significa che il danno si da per scontato anche
senza doverne portare le prove davanti al giudice ed infatti, la Corte aveva
già avuto modo in passato di affermare e di ribadire che la prova del danno
esistenziale da uccisione dello stretto congiunto può essere data invero anche
a mezzo dì presunzioni [v. Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., 31/5/2003,
n. 8828; Cass., 19/8/2003, n. 12124; Cass., 15/7/2005, n. 15022 ) , le quali al
riguardo assumono anzi “precipuo rilievo” (v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n.
6572 ).
* Funzionario della
Polizia di Stato e Corte di Cassazione All’ esito di incìdente stradale avvenuto a
Cella-tica il 23/2/1993 il sig. Angelo C. decedeva. Nel 1994 i sigg.ri Lidia B., Alex e Massimiliano
C., in proprio e quali eredi del defunto nonché quali soci e legali
rappresentanti della società Cidue & C. s.n.e., convenivano avanti al
Tribunale di Brescia i sigg.ri Tarcisio e Renata G., la compagnia Assicurazioni
Tirrena s.p.a. in l.c.a. e la M.A.A Assicurazioni s.p.a., quest’ultima in nome e per
conto del Fondo di garanzia per le vittime della strada, per ivi sentirli
condannare -previo accertamento e declaratoria dell’esclusiva responsabilità
del G. nella causazione del suindicato sinistro- al risarcimento in via
solidale dei danni da essi conseguentemente sofferti, Nella resistenza dei
convenuti -la sola M.A.A. essendosi mantenuta contumace-, con sentenza del 18
gennaio 1997 1’adito giudice, riconosciuta 1’esclusiva responsabilità del
Tarcisio G. nella causazione del sinistro, condannava i G. e la M.A.A.
Assicurazioni al pagamento, in via solidale, in favore degli attori delle somme
di £ 285.314.000, a titolo di danno patrimoniale subito per la perdita
dell’apporto di contribuzione economica in qualità di -rispettivamente- marito
e padre; di £ 200.000.000, a titolo di danno morale ( £ 100 milioni per la
moglie e £ 50.000.000 per ciascuno dei figli ); di £ 5.390.000 per spese
funerarie; e di £ 15.000.000 per la riparazione del veicolo ( liquidate a favore
della società intestataria ) . Rigettava invece la domanda di risarcimento del
danno biologico dagli attori proposta iure heredìtatis ( nella ravvisata
in configurabìlità nel caso di tale tipo di danno, essendo il C. deceduto quasi
immediatamente dopo il sinistro ) e iure proprio ( in difetto della
prova di malattie psicofische insorte a causa della scomparsa del congiunto ). Rigettato il gravame interposto in via principale
dalla Tirrena s.p.a., con sentenza del 12/1/2002 la Corte d’Appello di Brescia,
in parziale accoglimento dell’ appello incidentale spiegato dagli originari
attori Lidia B., Alex e Massimiliano C., in proprio e quali eredi del defunto
Angelo C., condannava i G. e la M.A.A. Assicurazioni al pagamento, in via
solidale, in favore dei predetti dell’ulteriore somma ( equitativamente
liquidata ) di £ 90.000.000 ( £ 30.000.000 per ciascuno ), a titolo di
risarcimento del danno dai medesimi subito iure proprio in ragione della
«permanente alterazione del rapporto familiare» conseguente alla perdita dello
stretto congiunto e alla privazione ex abrupto «di tutti quei legami
affettivi, etici e psicologici che costituivano il suo modo d’essere anche nei
rapporti esterni e che erano una componente fondamentale dell’equilibrio e
armonia del nucleo familiare». Avverso la suindicata sentenza della corte di
merito propone ora ricorso per cassazione la compagnia As sìcurazioni Tirrena
s.p.a., sulla base di unico complesso motivo. Resistono con controricorso i sigg.ri B., Alex e
Massimiliano C.. Gli intimati sigg.ri Tarcisio e Renata G., e Nuova
M.A.A Assicurazioni s.p.a. non hanno svolto attività difensiva. MOTIVI DELLA DECISIONE
Con unico complesso motivo la Assicurazioni
Tirrena s.p.a. denunzia violazione dell’ art. 2697 ce. ; violazione dei presupposti di configurabìlità e
relative «modalità di prova» del c.d. danno esistenziale; violazione del’ art.
27 29 ce. ; vìzio di motivazione ex art. 360, n. 5 c.p.c. per omessa,
contraddittoria ed insufficiente motivazione in ordine a punto decisivo della
controversia. Lamenta l’erroneità della ravvisata configurabilita di un
risarcibile danno esistenziale, quale «terza figura di danno», altra e
diversa dal danno biologico e dal danno morale, essendosi sia dalla Corte
Costituzionale (Corte Cost. n. 372 del 1994 ) che in giurisprudenza dì
legittimità ( Cass. n. 1073 del 2002 ) affermato essere «il c.d. danno morale
soggettivo» risarcibile «solo se si trasforma in lesione della integrità
psico-fisica, da provare con gli opportuni mezzi, non escluse le presunzioni che,
secondo il dettato dell’art. 2729 cod. civ., devono essere gravi, precise e
concordanti>>. Deduce ulteriomente che non può pervenirsi a ritenere
configurabile un danno «presunto iuris et de iure», anche in mancanza di
idoneo supporto probatorio, conseguente ad ogni evento «doloroso nell’ambito
della famiglia». Denunzia la sussistenza di «molteplici aspetti di
arbitrarietà, contraddittorietà ed illogicità» derivanti dall’affermazione che
non vi è nel caso prova alcuna di un «trauma psicologico permanente» (con
conseguente mancata ammissione della richiesta CTU in ragione del ravvisato
difetto di «idoneo substrato probatorio» ) per poi ravvisarsi la sussistenza di
un «danno psico-fisico permanente, definito danno esistenziale, che sì
differenzierebbe dal patema d’animo e dallo stato di angoscia transeunte»,
senza che risultino peraltro neppure indicate le specifiche situazioni
scaturite per i danneggiati in conseguenza della dolorosa perdita del
congiunto. Il motivo è infondato. Nel riformare la sentenza di primo grado, che
-come si legge nell’impugnata sentenza- aveva ( tra l’altro ) rigettato «la
domanda di risarcimento del danno biologico proposta iure proprio, in
difetto di una prova concreta che dal fatto per cui è causa» fossero «derivate
ai familiari malattie psicofisiche, non rapportabili al semplice dolore
o sofferenza per la morte del congiunto, che già rilevano per il danno morale»,
la Corte d’Appello di Brescia ha ritenuto di poter «far rientrare» il «danno
esistenziale» subito «dalla persona offesa a causa della morte violenta del
congiunto» nel concetto di danno biologico, quest’ultimo intendendo
quale «menomazione psicofisica della persona, in sé e per sé considerata,
incidente sul valore umano in tutta la sua concreta dimensione, e che assume rilevanza
non solo economica, ma anche biologica, sociale, culturale ed estetica»,
secondo la risalente nozione di tale danno accolta dall’espressamente evocata
Cass., 17/5/1985, n. 3025 (nonché ribadita da Cass., 20/12/1988, n. 6938;
Cass., 6/7/1990, n. 7101 ), invero non rispondente al significato ad esso
attualmente attribuito. Al riguardo la corte di merito sottolinea che
«l’Organizzazione mondiale della sanità, dopo aver ricordato che "il
possesso del migliore stato di salute costituisce uno dei diritti fondamentali
di ogni essere umano", ha definito la salute come "benessere fisico,
psichico e sociale, non consistente soltanto in un’ assenza di malattia o di
infermità", e tale ampia nozione di salute non è ignota alla nostra
legislazione: basti richiamare l’art. 4 della legge 194/1978, dove è previsto
che la donna possa interrompere la gravidanza quando il parto o la maternità
"comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o
psichica", o anche l’art. 9 della legge 300/70, dove viene distinto più
volte la salute del lavoratore e la sua integrità fisica>>. Nel porre in evidenza, da un canto, che alla
stregua di una «moderna concezione della persona intesa come portatrice di
valori, aspettative e diritti che trova il suo punto di riferimento costituzionale
negli artt. 2 - 29- 32 della Costituzione, l’ordinamento giuridico deve
tutelare il diritto alla salute, ossia il benessere fisico e psichico
inteso nel senso ampio di cui si è detto, da ogni ingiusta offesa
altrui>>, e, per altro verso, la plurioffensività del sinistro, con
l’avvertita esigenza che vengano risarciti tutti i danni conseguenti ad «ogni
sinistro», anche quelli subiti da «terze persone», da considerarsi non già
quali danni «di riflesso» o «di rimbalzo» ( come affermato dalle richiamate
Cass. n. 60/91, Cass. n. 1516 del 2001 e Cass. n. 10291 del 2001 ) bensì quali
danni anch’ essi «diretti», la corte dì merito ha affermato che tale danno ( da
intendersi come «permanente alterazione del rapporto familiare ... incidente
sulla salute intesa in senso lato come benessere fisico, psichico e sociale» )
va invero «differenziato» dal danno morale, da ravvisarsi viceversa nella mera
sofferenza o perturbamento psichico. Ha quindi concluso per la autonoma
risarcibilità della «morte violenta di un parente stretto» quale danno iure proprio
sofferto dagli stretti congiunti, ponendo al riguardo in rilievo come sia
«indiscutibile» che «la morte di un parente stretto menoma, anche per sempre,
la personalità del superstite privandola, ex abrupto, di tutti quei legami
affettivi, etici e psicologici che costituivano il suo modo d’essere anche nei
rapporti esterni e che erano una componente fondamentale dell’equilibrio e
armonia del nucleo familiare». Danno che ha poi liquidato facendo ricorso al
criterio equitativo ex artt. 1226 e 2056 cc* Orbene, la suindicata riconduzione del «danno
esistenziale» all’interno del «danno biologico» operato dal giudice del gravame
di merito va invero riconsiderata alla stregua dell’orientamento espresso da
questa Corte in materia. Nel fare il punto sugli orientamenti interpretati
vi maturati all’esito della progressiva evoluzione della disciplina
post-codicistica in tema di risarcimento del danno alla persona, questa Corte
ha ancora recentemente avuto modo di operare un intervento razionalizzatore,
con il quale è venuta a ricondurre le plurime voci di danno nel tempo elaborate
nell’ambito di un "’sistema bipolare", costituito dal danno
patrimoniale ex art. 2043 ce. e dal danno non patrimoniale ex art. 20 59 ce (
v. Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass. , 31/5/2003, n. 8828 ). Con particolare riferimento a quest’ultimo,
nell’avvertita insufficienza dell’ interpretazione che ne segnava la
coincidenza -limitandone corrispondentemente la risarcibilità- con l’unica
ipotesi tipica positivamente prevista ( art. 18 5 c.p. ) , quale oggetto del
rinvio ivi contenuto, restrittivamente interpretata come sostanziantesi nel
mero patema d’animo o sofferenza psichica di carattere interiore ( danno morale
) , questa Corte, in considerazione anche della proliferazione delle fonti
normative prevedenti la risarcibilità del danno morale successivamente
determinatasi, è pervenuta, da un canto, a rimarcare il carattere interiore e
privo di obiettivizzazione all’ esterno del danno morale, espressamente qualificato
come « soggettivo»; per altro verso, a precisare che esso non esaurisce
l’ambito del danno non patrimoniale, costituendone un mero aspetto, al contempo
svincolandone la risarcibili-tà dalla ricorrenza del reato ( v. Cass.,
31/5/2003, n. 8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828 ). Nel porre in rilievo che la Costituzione riconosce
e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, questa Corte ha sottolineato come
il danno non patrimoniale costituisca categoria ampia e comprensiva di ogni
ipotesi in cui risulti leso un valore inerente la persona ( v. Cass.,
31/5/2003, n. 8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828 ) . Ha fatto al riguardo richiamo anche ai molteplici
interventi della Corte Costituzionale che hanno segnato l’evoluzione
interpretativa in argomento. Anzitutto alla pronunzia che ha riconosciuto la
tutela del danno non patrimoniale nella sua accezione più ampia di danno
determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non suscettìbili
direttamente di valutazione economica, includendovi il ed. danno biologico,
quale lesione del bene "salute", figura autonoma ed indipendente da
qualsiasi circostanza e conseguenza di carattere patrimoniale { v. Corte Cost.,
26/7/1979, n. 88). Alla sentenza che ha quindi collocato il danno
biologico nell’ambito del danno patrimoniale ex art. 2043 cc, ravvisandone il
fondamento nell’ingiustizia insita nel fatto menomativo della integrità
biopsichica, nella sottolineata esigenza di sottrarre la risarcibilità del
danno non patrimoniale derivante dalla lesione dì un diritto costituzionale
tutelato ( il diritto alla salute contemplato dall’art. 32 Cost. ) ai limiti
posti dall’art. 2059 ce. (v. Corte Cost., 14/7/1986, n. 184) . Alla decisione, ancora, che ha nuovamente
ricondotto il danno biologico nell’ ambito dell’ art. 2059 cc. (v. Corte Cost.,
27/10/1994, n. 372). In tale quadro, si è in giurisprudenza di
legittimità affermato non poter essere il danno non patrimoniale più inteso,
come viceversa in precedenza, in termini di sostanziale coincidenza con il
(solo) danno morale, e limitatamente all’ipotesi in cui il fatto illecito
integri una fattispecie di reato ( v. Cass., 21/10/2005, n. 20355; Cass.,
20/10/2005, n. 20323; Cass., 19/10/2005, n. 20205; Cass., 15/1/2005, n. 729). Movendo (anche) dalle modifiche legislative nel
corso degli anni intervenute ( art. 2 L. n. 117 del 1988 in tema di
risarcimento anche dei danni non patrimoniali derivanti dalla privazione della
libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie; art. 29,
comma 9, L. n. 675 del 1996, in tema di moda lità illecite nella raccolta di
dati personali; art. 44, comma 7, D.lgs. n. 286 del 1998, in tema dì adozione
di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; art. 2 L. n. 89
del 2001, in tema di mancato rispetto del termine ragionevole di durata del
processo) , il danno biologico è stato quindi recepito nell’ambito dell’ ampia
categoria del danno non patrimoniale in una diversa e più restrittiva accezione rispetto a
quella accolta dalla corte dì merito nell’impugnata sentenza , venendo ad essere
fissato nel significato di lesione dell’integrità psicofisica accertabile in
sede medico-legale (v. Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828 ).
Danno non rimasto invero allo stadio di mero dolore o patema d’animo interiore,
con degenerazione della sofferenza interiore fino a sfociare in una patologia
obiettivamente riscontrabile ( es., malattia psico-fisica, esaurimento nervoso,
ecc.). La categoria del danno non patrimoniale si è
ravvisata tuttavia, anche all’esito dell’enucleazione di tale figura ulteriore
e diversa dal danno morale «soggettivo», risultare ancora non esaustìvamente
considerata, rinvenendosi molteplici rilevanti situazioni soggettive negative
di carattere psico-fisico non riconducibili né al danno morale «soggettivo» né
al danno biologico, nelle suindicate restrittive nozioni accolte. Situazioni che in dottrina sono state indicate
sostanziarsi nei più diversi tipi di reazione al fatto evento dannoso, e
racchiuse nella sintesi verbale <<danno esistenziale». Si è in giurisprudenza e dottrina pressoché
generalmente avvertita peraltro la necessità, in uno sforzo di categorizzazione
unificante, di individuare tratti comuni alle varie ipotesi al riguardo
indicate, e di delimitare 1’ambito di relativa risarcibilità, in ossequio anche
al principio generale dell’ ordinamento in base al quale il danno deve essere
sopportato dal suo autore, sicché il danneggiante è tenuto a risarcire tutto il
danno ma solo il danno a lui ascrivibile. Esigenza di delimitazione d’altro canto avvertita
già dallo stesso legislatore, il quale, diversamente che per quello
patrimoniale ex art. 2043 ce., ha improntato in termini dì tipicità la
risarcibilità del danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 ce, limitandola
ai soli casi previsti dalla legge ( cfr. Cass., 15/7/2005, n. 15022 ). A tale stregua, la giurisprudenza di legittimità è
pertanto pervenuta a considerare il danno non patrimoniale risarcibile ex art.
2059 ce solamente in pre senza di lesione di interessi essenziali della
persona, ravvisati in quelli costituzionalmente garantiti, al riguardo
sottolineandosi che il rinvio ai casi in cui la legge consente la riparazione
del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore
della Costituzione, anche alle previsioni della Legge fondamentale, ove si
consideri che il riconoscimento nella Costituzione, dei diritti inviolabili
inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma
necessariamente, ne esige la tutela, in tal modo configurandosi propriamente un
«caso determinato dalla legge», al massimo livello, di riparazione del danno
non patrimoniale ( v. Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828. V.
altresì Cass., 12/12/2003, n. 19057; Cass., 15/7/2005, n. 15022 ). Tra gli interessi essenziali in argomento rilevanti
( salute, famiglia, reputazione, libertà di pensiero, ecc. ) , senz’altro
ricompresi sono quelli relativi alla sfera degli affetti ed alla reciproca
solidarietà nell’ambito della famìglia, alla libera e piena esplicazione delle
attività realizzatrici della persona umana nell’ambito della peculiare
formazione sociale che è la famiglia, trovanti fondamento e garanzia
costituzionale negli artt. 2, 29 e 30 Cost. Interessi che risultano
irrimediabilmente violati in caso di uccisione dello stretto congiunto ( v.
Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828. V. altresì, in
particolare, Cass., 15/7/2005, n. 15022; Cass., 20/10/2005, n. 20324 ) . Le Sezioni Unite di questa Corte sono quindi
recentissimamente giunte ad affermare che il danno esistenziale consiste in
«ogni pregiudizio ( di natura non meramente emotiva ed interiore, ma
oggettivamente accertabile ) provocato sul fare areddittuale del soggetto, che
alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte
di vita diverse quanto all’ espressione e realizzazione della sua personalità
nel mondo esterno» ( v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572 ) . Nel sottolineare che, diversamente da quello
morale, esso non ha natura meramente emotiva ed interiore ma deve essere
oggettivamente accertabile ed aver determinato «scelte dì vita» diverse da
«quelle che si sarebbero adottate se non si fosse verificato l’evento dannoso»,
con obiettiva incidenza «in senso negativo» nella sfera del danneggiato,
«alterandone l’equilibrio e le abitudini di vita», le Sezioni Unite hanno
escluso in particolare che «la lesione degli interessi relazionali connessi al
rapporto di lavoro resti sostanzialmente priva di effetti», senza provocare
invero «conseguenze pregiudizievoli nella sfera soggettiva del lavoratore,
essendo garantito l’interesse prettamente patrimoniale alla prestazione
retributiva» ( v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572 ). Le Sezioni Unite hanno altresì sottolineato che il
<<danno esistenziale> non consiste in meri «dolori e sofferenze», ma deve
aver determinato «concreti cambiamenti, in senso peggiorativo, nella qualità
della vita». Ne emerge dunque una figura di danno alla salute
in senso lato che, pur dovendo -diversamente dal danno morale soggettivo ( v.
Cass., 10/8/2004, n. 15418 ) -obiettivarsi, a differenza del danno biologico
rimane integrato a prescindere dalla relativa accertabilità in sede
medico-legale ( v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572 ) . Nel precisarsi che il riconoscimento dei
"diritti della famiglia" ( art. 29 Cost. ) va inteso non
restrittivamente, cioè come tutela delle estrinsecazioni della persona
nell’ambito esclusivo di quel nucleo, con una proiezione di carattere meramente
interno, bensì nel più ampio senso di modalità di realizzazione della vita
stessa dell’individuo, alla stregua dei valori e dei sentimenti che il rapporto
personale ispira, sia generando bisogni e doveri, sia dando luogo a gratifi
cazioni, supporti, affrancazioni e significati, si è in giurisprudenza di
legittimità al riguardo posto in rilievo che laddove il fatto lesivo alteri
profondamente tale complessivo assetto, provocando una rimarchevole dilatazione
dei bisogni e dei doveri ed una determinante riduzione -se non annullamento-
delle positività che dal rapporto parentale derivano ( v. Cass., 31/5/2003, n.
8827; Cass., 20/10/2005, n. 20324 ), viene a determinarsi quello
<<sconvolgìmento delle abitudini di vita» che, pur potendo avere diversa
ampiezza e consistenza in termini dì intensità e protrazione nel tempo in
relazione alle diverse situazioni, deve trovare comunque obiettivazione
nell’alterazione del modo di relazionarsi del soggetto sia all’ interno del
nucleo familiare che all’ esterno di esso nell’ambito dei comuni rapporti della
vita di relazione ( v. Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828 ). Esso si sostanzia invero in una modificazione
(peggiorativa) della personalità dell’individuo, che si obiettivizza
socialmente nella negativa incidenza sul suo modo di rapportarsi con gli altri,
sia all’interno del nucleo familiare, che all’esterno del medesimo, nell’ambito
dei comuni rapporti della vita relazione. E ciò in conseguenza della subita
alterazione; della privazione ( oltre che di quello materiale anche } del
rapporto personale con lo stretto congiunto nel suo essenziale aspetto
affettivo o di assistenza morale ( cura, amore ), cui ciascun componente del
nucleo familiare ha diritto nei confronti dell’altro, come per ì coniugi in
particolare previsto dall’art. 143 ce. ( dalla relativa violazione potendo
conseguire l’intollerabilità della prosecuzione della convivenza e
l’addebitabilità della separazione personale ) ; per il genitore dall’ art. 147
ce., e ancor prima da un principio immanente nell’ordinamento fondato sulla
responsabilità genitoriale ( v. Corte Cost., 13/5/1998, n. 166; Cass.,
1/4/2004, n. 6365; Cass., 9/6/1990, n. 5633 ) , da considerarsi in combinazione
con l’art. 8 L. adoz. ( la violazione dell’obbligo di cura o assistenza morale
determinando lo stato dì abbandono del minore che ne legittima l’adozione ) ;
per il figlio nell’art. 315 ce , secondo una in tal senso valorizzabile,
orientata lettura. Trattasi, come dalla corte di merito correttamente
affermato nell’impugnata sentenza, di danno non già «riflesso» o «di rimbalzo»
bensì «diretto», dagli stretti congiunti del defunto sofferto iure proprio, in
quanto l’evento morte è plurioffensivo, non solamente causando l’estinzione
della vita della vìttima primaria, che subisce il massimo sacrificio del
relativo diritto personalissimo, ma altresì determinando l’estinzione del
rapporto parentale con i congiunti della vittima, a loro volta lesi
nell’interesse all’intangibilità della sfera degli affetti reciproci e alla
scambievole solidarietà che connota la vita familiare ( v. Cass., 31/5/2003, n.
8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828 ). Così come quello patrimoniale, anche il danno non
patrimoniale ha natura di danno-conseguenza, quale danno che scaturisce dal
fatto-evento. Con riferimento in particolare al danno da
uccisione, esso consìste non già nella violazione del rapporto familiare
quanto piuttosto nelle conseguenze che dall’irreversibile venir meno
del godimento del congiunto e dalla definitiva preclusione delle reciproche
relazioni interpersonali discendono. Si è infatti escluso che tale tipo di danno sìa
configurabile in re ipsa, precisandosi che deve essere allegato e
provato da chi vi abbia interesse, senza rimanere tuttavia precluso il ricorso
a valutazioni prognostiche ed a presunzioni ( sulla base di elementi obiettivi
forniti dall’interessato ). E proiettandosi esso nel futuro, assume al riguardo
rilievo la considerazione del periodo di tempo nel quale si sarebbe
presumibilmente esplicato quel godimento del congiunto che l’illecito ha reso
invece impossibile ( v. Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828 ). Il danno non patrimoniale deve essere dunque
riconosciuto e liquidato nella sua interezza, essendo pertanto necessaria,
laddove il risarcimento non risulti in termini generali e complessivi
domandato, l’analitica considerazione e liquidazione in relazione ai diversi
aspetti in cui esso si scandisce. Quando il danneggiato chiede il risarcimento del danno
non patrimoniale la domanda va cioè intesa come estesa a tutti gli aspetti
di cui tale ampia categoria sì compone, nella quale vanno d’altro canto
riassorbite le plurime voci di danno nel corso degli anni dalla giurisprudenza
elaborate proprio per sfuggire agli angusti limiti della suindicata restrittiva
interpretazione dell’art. 2059 ce. La domanda di risarcimento del danno non
patrimoniale in termini generali formulata non può essere infatti limitata
alla considerazione meramente di alcuni dei medesimi, con esclusione di altri (
cfr. Cass., 24/2/2006, n. 4184; Cass., 26/2/2003, n. 28 69, con riferimento in
particolare al danno biologico ), una tale limitazione essendo invero rimessa,
in ossequio al principio della domanda, alla previa scelta del danneggiato, che
si limiti a far valere solamente alcuna del le tre suindicate voci che tale
categoria integrano (v. Cass., 28/7/2005, n. 1583; Cass., 7/12/2004, n. 22987.
Con riferimento alla richiesta di risarcimento del danno morale, nel senso che
essa non possa intendersi come limitata alla sola sofferenza psichica
transeunte ma debba considerarsi quale «sinonimo>> della locuzione «danno
non patrimoniale», v. peraltro Cass., 15/7/2005, n. 15022). Neil’impugnata sentenza, al di là dell’erroneo
inquadramento sistematico sopra evindenzìato, la corte di merito, pur sembrando
a volte privilegiare il profilo della perdita del rapporto familiare in sé e
per sé considerato, il «fatto storìco>> di non avere più il coniuge o il
genitore a causa dell’illecito e di non potere più essere, relativamente a
quella persona, coniuge e figlio, alla stregua del complessivo tenore delle
argomentazioni spese in motivazione risulta aver fatto invero sostanzialmente
applicazione del sopra delineato concetto di danno esistenziale, come emerge
anche da quanto affermato in sede di relativa qualificazione ( « ... un danno
che potremmo chiamare danno esistenziale e che sostanzialmente è configurabile
quando la morte violenta di un congiunto provoca uno sconvolgimento ed
un’alterazione permanente dell’ equilibrio del nucleo familiare» ) nonché dalla
compiuta attribu zione della somma in questione in favore degli stretti
congiunti in vìa ulteriore ed autonoma rispetto ai già riconosciuti danni
patrimoniale e morale, pur escludendo avere essi subito un «trauma psicofisico
permanente», integrante -come detto- il danno biologico, secondo il suo attuale
effettivo significato. Stante quanto sopra rilevato e precisato in
termini di configurabilità del danno esistenziale ed in ordine alla sua natura
dì danno-conseguenza, infondata risulta invero altresì la censura dalla
ricorrente mossa in termini di vizio di motivazione. Del pari priva di fondamento sì rivela la
denunziata violazione dell’art. 2697 ce. Neil’ affermare essere «indiscutìbile»
che «la morte di un parente stretto menoma (anche per sempre), la personalità
del superstite», incidendo sul suo «modo di essere» pure «nei rapporti
esterni», oltre che sull’ «equilibrio e armonìa del nucleo familiare», e
movendo dalla considerazione che nel caso trattavasi di nucleo familiare
pacificamente convivente costituito dal defunto, dalla consorte e dai due figli
maggiorenni, unita anche nell’attività lavorativa, atteso che il più grande dei
figli svolgeva lavorava con il padre e della costituita società faceva parte
anche la rispettiva moglie e madre, la corte di merito ha infatti ritenuto il
danno in questione presuntivamente provato. Orbene, come questa Corte ha già avuto modo di
affermare e di ribadire, la prova del danno esistenziale da uccisione dello
stretto congiunto può essere data invero anche a mezzo dì presunzioni [ v.
Cass., 31/5/2003, n. 8827; Cass., 31/5/2003, n. 8828; Cass., 19/8/2003, n.
12124; Cass., 15/7/2005, n. 15022 ) , le quali al riguardo assumono anzi
«precipuo rilievo» (v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572 ). Le presunzioni, vale osservare, come affermato in
giurisprudenza di legittimità ( v. Cass., Sez, Un. , 24/3/2006, n. 6572 ) e
sostenuto anche in dottrina non costituiscono uno strumento probatorio dì rango
wsecondario" nella gerarchia dei mezzi di prova e «più debole» rispetto
alla prova diretta o rappresentativa. Va al riguardo sottolineato come, alla stessa
stregua di quella legale la presunzione vale invero nel caso a sostanzialmente
facilitare 1’assolvimento dell’onere della prova da parte di chi ne è onerato,
trasferendo sulla controparte l’onere della prova contraria. Questa Corte è pervenuta ad affermare che «la
presunzione semplice e la presunzione legale iuris tantum si distinguono
unicamente in ordine al modo di insor genza, in quanto mentre il fatto sul
quale la prima si fonda dev’essere provato in giudizio, e il relativo onere
grava su colui che intende trarne vantaggio, la seconda è stabilita dalla legge
e, quindi, non abbisogna della prova di un fatto sul quale possa fondarsi e
giustificarsi. Una volta, tuttavia, che la presunzione semplice si sia formata
e sia stata rilevata ( cioè, una volta che del fatto sul quale si fonda sia
stata data o risulti la prova ) , essa ha la medesima efficacia che deve
riconoscersi alla presunzione legale iuris tantum,quando viene rilevata,
in quanto 1’una e 1 ’altra trasferiscono a colui, contro il quale esse
depongono, 1 ’ onere della prova contraria» ( così Cass., 27/11/1999, n. 13291
). Da tale considerazione consegue il ritenere la
parte onerata ex art. 2 697 ce. sollevata dal provare il fatto previsto { che,
come posto in rilievo anche in dottrina, deve considerarsi provato ove provato
il «fatto base» ) . Ed altresì che, come per quella legale, anche per la
presunzione semplice in assenza di prova contraria ( quando, come nel caso,
ammessa ) il giudice è tenuto a ritenere provato il fatto previsto, non
essendogli consentita al riguardo la valutazione ai sensi dell’art. 116 c.p.c. Il prevalente orientamento segnala peraltro che at
traverso lo schema logico della presunzione la legge non vuole imporre
conclusioni indefettibili ma introduce uno strumento di accertamento dei fatti
di causa che può anche presentare qualche margine di opinabilità nell’operata
riconduzione, in base a regole (elastiche) dì esperienza, del fatto ignoto da
quello noto, mentre quando queste regole si irrigidiscono -assumendo
consistenza di normazione positiva- si ha un fenomeno qualitativamente diverso,
e dalla praesumptio hominis si passa nel campo della presunzione legale
(v. Cass., 16/3/1979, n. 1564 ). Come da questa Corte ripetutamente affermato, in
tema di prova per presunzioni semplici nella deduzione dal fatto noto a quello
ignoto il giudice di merito incontra il solo limite del princìpio di
probabilità: non occorre, cioè, che i fatti, su cui la presunzione si fonda,
siano tali da far apparire la esistenza del fatto ignoto come 1 ’unica
conseguenza possibile dei fatti accertati secondo un legame di necessarieta
assoluta ed esclusiva ( in tal senso v. peraltro Cass,, 6/8/1999, n. 8489;
Cass., 23/7/1999, n. 7954; Cass., 28/11/1998, n. 12088 ), ma è sufficiente che
1’operata inferenza sia effettuata alla stregua di un canone di ragionevole
probabilità, con riferimento alla connessione degli accadimenti la cui normale
sequenza e ricorrenza può verificarsi secondo regole di esperienza ( v. Cass.
23/3/2005, n. 6220; Cass., 16/7/2004, n. 13169; Cass., 13/11/1996, n. 9961;
Cass., 18/9/1991, n. 9717; Cass., 20/12/1982, n. 7026 ) , basate siili’ id
quod plerumque accidit ( v. Cass., 30/11/2005, n. 6081; Cass., 6/6/1997, n.
5082 ). La presunzione basata sulla regola di esperienza
(la quale ove fondata sulla tipicità di determinati fatti in base alla regola
di esperienza di tipo statistico richiama l’istituto proprio dell’esperienza
tedesca dell’Anscheinsbeweis ), che può indurre il giudice ad escludere
la necessità di ulteriori prove al riguardo, è, diversamente da quella legale,
in realtà rimessa ad una conclusione di tipo argomentativo, nell’ambito del
prudente apprezzamento del giudice ex art. 116 c.p.e. La parte contro cui gioca
la presunzione è in ogni caso ammessa a fornire la prova contraria, spettando
in tal caso al giudice stabilire l’idoneità nel caso concreto di quest’ultima a
vincerla. Pur se anche nell’ambiente familiare è
astrattamente possìbile che la perdita dello stretto congiunto (coniuge o
genitore) possa non determinare conseguenze pregnanti nella sfera soggettiva
laddove rimangano garantite quelle economiche, tale conseguenza appare in vero
nei normali rapporti di vita familiare assolutamente meno probabile e frequente
che non nei rapporti di tipo lavorativo, come quello preso in considerazione da
Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572. Si è in giurisprudenza di legittimità affermato
rispondere invero a regole di comune esperienza che quanto più stretto è il
rapporto parentale tanto più intenso è il dolore, specie se al rapporto si
associa la convivenza ( v. Cass., 11/8/2004, n. 15568 ), laddove la vastità e
la coesione del nucleo familiare della vittima può essere tale da lenire la
sofferenza, nei limiti di quanto possibile in un evento tragico del tipo in
esame, con la presenza di altri affetti familiari ( v., con riferimento a
nucleo familiare composto anche dai nonni, Cass., 15/2/2006, n. 3289 ). Si è altresì affermato doversi ritenere
sussistente, in capo al soggetto che ha posto in essere la condotta causativa
della morte del congiunto, 1’elemento della prevedibilità dell’evento in
relazione alla lesione in pari tempo delle situazioni giuridiche dei soggetti
legati alla vittima primaria da un vincolo coniugale o parentale, e in
particolare dell’interesse all’intangibilità delle relazioni familiari, atteso
che la prevedibilità dell’evento dannoso deve essere valutata in astratto, e
non in concreto, normalità il fatto che la vittima sia inserita in un nucleo
familiare, come coniuge, genitore, figlio o fratello ( v. Cass., 31/5/2003, n.
8828 ). Provato il fatto-base della sussistenza di un
rapporto di coniugio o di filiazione e della convivenza con il congiunto
defunto, è allora da ritenersi che la privazione di tale rapporto
presuntivamente determina ripercussioni ( anche se non necessariamente per
tutta la vita ) sia sull’assetto degli stabiliti ed armonici rapporti del
nucleo familiare, sia sul modo di relazionarsi degli stretti congiunti del
defunto ( anche ) all’ esterno di esso rispetto ai terzi, nei comuni rapporti
della vita di relazione. Incombe allora alla parte in cui sfavore opera la
presunzione dare la prova contraria al riguardo, idonea a vincerla ( es.,
situazione di mera convivenza "forzata", caratterizzata da rapporti
deteriorati, contras seganti da continue tensioni e screzi; coniugi in realtà
"separati in casa", ecc. ). Non si tratta infatti, diversamente da quanto
lamentato dalla odierna ricorrente, di un’ipotesi di presunzione iuris et de
iure. Nel caso in esame, incontestato il fatto-base
della normale e pacifica convivenza del nucleo familiare costituito dal
defunto, dalla consorte e dai due figli maggiorenni, il cui armonico
svolgimento trova sintomatica conferma nella circostanza che uno dei figli
svolgeva anche attività lavorativa con il padre e che della costituita società
faceva parte anche la rispettiva moglie e madre, ed allegata { atteso che, se
dispensa la parte che intende avvantaggiarsi dagli effetti favorevoli collegati
al fatto dall’ onere di provare quest’ultimo, la presunzione non dispensa
altresì dall’ onere di allegare il medesimo } dagli odierni
controricorrenti la circostanza che la morte del loro stretto congiunto ha per
essi comportato un’alterazione dell’ equilibrio mentale riflettentesi sotto il
profilo della difficoltà di partecipazione all’ attività quotidiana e della demotivazione
rispetto alla vita futura (come pure delle molteplici difficoltà incontrate
nella conduzione della piccola azienda de cui avevano dovuto continuare ad
occuparsi da soli), la corte di merito ha ritenuto provato il danno
esistenziale da essi sofferto. Era quindi l’odierna ricorrente a dover fornire la
prova contraria idonea a vincere la presunzione di sconvolgimento delle
abitudini e delle aspettative, o del modo di relazionarsi con il prossimo
derivante ai controricorrenti dalla perdita del -rispettivamente-marito e padre
Nessun elemento risulta tuttavia essere stato dalla medesima dedotto e provato
al riguardo, essendosi la ricorrente limitata ad eccepire la mancanza di prova
in ordine al fatto che tale alterazione fosse degenerata in un trauma psicologico
permanente dal quale fosse derivata una malattia psicofisica, una
situazione cioè integrante, come sopra esposto, la diversa fattispecie del
danno biologico ( v. Cass., 3/5/2004, n. 8333; Cass., 4/2/2002, n. 1442. V.
anche Cass., 10/2/2003, n. 1937 ) . Correttamente, nel complessivo risarcimento del
danno non patrimoniale sofferto dagli odierni resistenti è stata quindi dalla
corte di merito concessa un’ulteriore somma a ristoro anche di tale aspetto,
non considerato nella liquidazione operata dal giudice di prime cure. Il danno patrimoniale da uccisione di congiunto,
quale tipico danno-conseguenza che si proietta nel futuro, privo ( come il
danno morale ed il danno biologico ) del carattere della patrimonialità, ben
può, in ragione nella natura di tale danno e nella funzione di riparazione
assolta mediante la dazione di una somma dì denaro nel caso non reintegratrice
di una diminuzione patrimoniale bensì compensativa di un pregiudizio non
economico ( v. Cass., 31/5/2003, n. 8827 ), essere -co me nel caso- liquidato
secondo il criterio equitativo ex artt. 122
6 e 2056 ce. ( v. Cass., Sez. Un., 24/3/2006, n. 6572 ), in
considerazione dell’intensità del vincolo familiare, della situazione di
convivenza e di ogni ulteriore utile circostanza, quali la consistenza più o
meno ampia del nucleo familiare, le abitudini di vita, 1’età della vittima e
dei singoli superstiti, le esigenze di questi ultimi, rimaste definitivamente
compromesse (v. Cass., 31/5/2003, n. 8828; Cass., 7/11/2003, n. 16716; Cass.,
29/9/2004, n. 19564; Cass., 15/7/2005, n. 15022; Cass., 20/10/2005, n. 20324) . Modificata, in applicazione dei poteri a questa
Corte conferiti dall’art. 384, 2° co., c.p.c, la motivazione nei sensi fatti
sopra palesi, a tale stregua venendo conseguentemente meno anche 1’ulteriore
profilo di doglianza concernente il dedotto vizio di motivazione, l’impugnata
sentenza può essere mantenuta ferma per il resto. Il ricorso va dunque rigettato. Le ragioni della decisione costituiscono peraltro
giusti motivi per disporre la compensazione tra le parti delle spese del presente giudizio. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese
del giudizio di cassazione. Roma, 22/2/2006 Il Consigliere est.
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