La
giurisprudenza di merito (nella specie il Tribunale di Grosseto in composizione
monocratica), con la sentenza che si annota, fornisce una risposta
condivisibile, seria e meditata al grave problema invalso con la grave e
discutibile modifica del regime della recidiva (L. 251 del 5 Dicembre 2005),
scelta legislativa che ha comportato sino ad oggi (tramite l’art. 69 comma 4°
c.p.) l’annientamento e l’azzeramento del valore processuale di qualsivoglia
attenuante a fronte della contestazione – nei confronti dell’indagato/imputato
– delle aggravanti di cui agli artt. 99/4° o 111 e 112 comma 1° n. 4 c.p. . Detto
ciò, però, non può tacersi la circostanza che more solito, è l’interprete
giurisprudenziale che deve, ricorrendo a complesse costruzioni giuridiche,
ovviare a scelte legislative lacunose e, spesso – come nella fattispecie –
contradittorie. La
pronuncia offre, così, un’apprezzabile interpretazione del divieto di
prevalenza delle attenuanti, contenuto nel novellato art. 69 comma 4° c.p.,
che, siccome alternativa all’orientamento creatosi, prima facie, supera
indubbiamente il mero dato lessicale e si ancora, invece, alla concreta ratio
che sottende alla norma. L’adesione
di chi scrive, (che si andrà in prosieguo motivando) a tale posizione
giurisprudenziale, non impedisce, però, di rilevare come la soluzione cui il
giudice monocratico è pervenuto si ponga nell’alveo della interlocutoria
necessità, che si ha ogni qualvolta ci si imbatta in una novella legiferativa a
sé stante e, quindi, dagli effetti privi di adeguata meditazione, scollegati
dalla realtà giuridica precedente e disarmonici rispetto al tessuto normativo
preesistente. Appare,
dunque, di particolare interesse la soluzione prospettata dal Tribunale di
Grosseto, soprattutto, in quanto essa si pone in specifica relazione
all’applicazione dell’attenuante di cui all’art. 73 comma V dpr 309/90. Non
si può, infatti, dimenticare che proprio l’entrata in vigore della L. 251/05, ha
determinato conseguenze aberranti ed inaccettabili, in quanto vicende
processuali che, usualmente, avrebbero dovuto essere ricomprese, sotto il
duplice profilo della qualificazione giuridica e della pena effettiva,
nell’alveo dell’ipotesi lieve (da 1 a 6 anni), sono state, invece, pesantemente
sanzionate con le pene previste dal comma 1 o 1 bis dell’art. 73 dpr 309/90 (da 6 a 20
anni) e, quindi, con conseguenze che definire del tutto inique è un mero
eufemismo. L’ART. 73 COMMA V DPR 309/90 (E
SUCCESSIVE MODIFICAZIONI). Per
meglio inquadrare la complessiva tematica ed apprezzare le conclusioni cui è
pervenuta la sentenza che si commenta, si impone una brevissima notazione
relativa all’art. 73 comma V dpr 309/90. E’
notissima la diatriba insorta e tuttora persistente (sopita sotto la cenere
della giurisprudenza, ma pronta a riesplodere) in relazione alla natura
dell’istituto. L’interpretazione
imperante considera l’ipotesi lieve quale circostanza attenuatrice della
fattispecie base di cui all’art. 73 co. 1 ed 1 bis. Tale
convincimento si fonda sul presupposto, peraltro, richiamato anche dallo stesso
giudice monocratico di Grosseto, che la lieve entità sia legislativamente
dipendente da tutta una serie elementi (i mezzi, la modalità, le circostanze
dell’azione, la qualità e quantità delle sostanze) che non appaiono divergenti
nella loro consistenza rispetto alle fattispecie previste dai citati commi 1 ed
1 bis dell’art. 73, ma che finiscono per attribuire ad esse una minore valenza
offensiva. La
Suprema Corte, Sez. IV, con la pronuncia 24 Febbraio 2005, n. 20556, (rv.
231352), Cianchetta, (in CED Cassazione, 2005, Riv. Pen., 2006, 5, 599) ha
ribadito tale concetto, precisando che “L’attenuante speciale prevista
dall’art. 73, comma quinto, D.P.R. 9 ottobre 1990,
n. 309, per i reati di produzione e traffico di stupefacenti, trova
applicazione quando la fattispecie concreta risulti di trascurabile
offensività, sia per l’oggetto materiale del reato, in relazione alle
caratteristiche qualitative e quantitative della sostanza, sia per la condotta,
riferibile ai mezzi, alle modalità e alle circostanze della stessa, per cui il
vaglio in senso negativo anche di uno solo dei parametri di riferimento
individuati dalla legge deve condurre ad escludere l’ipotesi del fatto di lieve
entità”1. Parimenti,
la giurisprudenza di merito, si è allineata nel palesato senso (cfr. Trib.
Rovigo, 19 Gennaio 2005, Riv. Pen., 2006, 3, 341 nota di PIETROPOLLI, PATRIAN),
ribadendo la centralità del concetto di minina offensività penale della
condotta, che, per quanto riguarda altri e diversi aspetti, conciderebbe con la
fattispecie ordinaria, presa a base dalla legislazione sugli stupefacenti.2 A
fronte del prevalente orientamento non sono mancate, soprattutto in dottrina,
voci dissonanti. E’
il caso di ricordare, fra tutte, la convincente ed importante posizione assunta
dal FLORA3, che
ritenne le condotte, integranti la ipotesi lieve, come fattispecie autonome,
tali da potere assumere la veste di reati fine di quella che viene considerata
un’associazione “minore”. L’Autore,
infatti, si riallacciò all’esame di varie norme, più o meno correlate con
l’art. 73 co. V. e che rinviano al contenuto dello stesso, in quanto usano
forme lessicali in equivoche e tali da indurre a considerare detta norma quale
espressione di un reato autonomo ed indipendente rispetto la fattispecie
ordinaria di cui ai co. 1 e 1 bis dell’art. 73 . Oggettivamente,
la stessa normativa in tema di stupefacenti è, infatti, senza dubbio prodiga di
riferimenti difficilmente smentibili. Il
richiamo di principale e rilevante pertinenza è, quindi, costituito dal 6°
comma dell’art. 74 DPR
309/90, che recita “Se l’associazione è costituita per commettere i
fatti descritti dal comma 5 dell’articolo 73, si applicano il primo e il
secondo comma dell’articolo 416 del codice penale4”. La
individuazione della fattispecie di cui all’art. 73 co. V. come ipotesi
specifica e paradigmatica, atta a giustificare una previsione sanzionatoria
diversa da quella ordinaria prevista ai co. 1° e 2°5, non può
definirsi un casuale lapsus del legislatore. Lo
stesso tenore letterale della norma denota una scelta legislativa che induce a
considerare l’art. 73 come fattispecie di reato autonoma, rispetto alla quale
l’art. 73 comma V° viene ad operare in modo autonomo, sì da legittimare una
disposizione normativa l’art. 74/6° che differisce oggettivamente dalla basilare
ipotesi associativa. Vi
è, infatti, da domandarsi per quale ragione si sia sentita la necessità di
ricorrere ad una previsione ad hoc (quella del 6° comma citato), in presenza di
una prospettazione ordinaria del reato associativo involgente, quali delitti
fine, le condotte di cui all’art. 73, se non per distinguere sul piano della
realtà giuridica due situazioni invero autonome tra loro, anche sotto
l’eclatante profilo della sanzione. Né
la scelta di individuare una sanzione specifica e diversa, rispetto a quella
concernente l’associazione prevista ai commi 1 e 2 dell’art. 74 DPR 309/90, può a
propria volta venire qualificata come esempio di predisposizione di
un’ulteriore attenuante ad effetto speciale6. Ciò
posto, va, inoltre, rilevato che la stessa recente L. 49 del 21 Febbraio 2006,
non ha affatto risolto l’arcano, o meglio, non ha colto l’importante occasione
di rimodulare, in termini di plausibilità e coerenza giuridica, l’istituto,
così che emergesse la vera natura dello stesso, la quale va orientata nel senso
di una piena autonomia, rispetto alla fattispecie base. La
scelta di negare il ritenuto carattere di circostanza attenuante dell’art. 73
comma V dpr 309/90,
si imponeva e si impone tuttora, proprio allo scopo di prevenire effetti
aberranti sia sul piano della discrasia fra fatto reale e qualificazione
giuridica dello stesso, sia sotto il profilo dell’eccessività ed irrazionalità
della sanzione che venga inflitta, laddove intervengano previsioni normative
quali, ad esempio, la L.
251 del 2005 (ex-Cirielli). E’,
infatti, assolutamente contrario ad un criterio di obbiettività giuridica, il
fatto che una vicenda che rivesta i caratteri della modestia/lievità e, quindi,
rientri nei parametri sanciti per la sussistenza della lieve entità, non possa
venire qualificata come tale e venga sanzionata con pene che attengono ad
ipotesi di reato del tutto differente, anche e non solo sul piano
dell’offensività. Tant’è,
comunque, che allo stato si deve dolentemente prender atto del principio
tuttora vigente, nonchè della necessità di dovere percorrere altre vie
giuridiche di carattere interpretativo, al fine, di prevenire i guasti di un
modo di legiferare incoerente e privo di armonicità. Non
a caso, la sentenza che si commenta si viene a porre nel complesso alveo di
quella funzione di salvaguardia dei diritti dell’imputato ad un giusto esito
del processo, che – diversamente opinando – verrebbe del tutto disattesa. Si
tratta di un contributo prezioso, che, però, mette spietatamente a nudo i
limiti culturali del nostro legislatore, che continua (nonostante si
avvicendino governi sostenuti da forze tra loro politicamente differenti ed
opposte) ad intervenire con vere e proprie “toppe normative”, preferite a progetti
di legge di ampio respiro e coordinati con norme previgenti. LA RECIDIVA E LA PREVISIONE DELL’ART. 69 COMMA 4° C.P. L’elemento
giuridicamente destabilizzante il criterio del bilanciamento fra attenuanti ed
aggravanti, sancito dall’art. 69 c.p. è stato introdotto con le modifiche
apportate sia all’art. 99 c.p.7 che allo stesso art.
69 c.p. . Inutile
ripercorrere il relativo iter, giacchè lo stesso è pacificamente notorio. Ai
fini che ci occupano, si deve, però, rilevare come – nonostante la novella
normativa introdotta – l’istituto della recidiva abbia, comunque,
sostanzialmente mantenuto il carattere della facoltatività in relazione
all’aumento di pena relativo, fatta eccezione per l’ipotesi di cui al comma V
dell’art. 99 c.p. . Ciò
vale a dire che il P.M. ha l’indubbio dovere di contestare la circostanza
aggravante, ma che – correlativamente – il giudice non è vincolato alla stessa,
avendo egli il potere di applicare o meno l’aumento relativo alla circostanza,
se ritenuta sussistente (Cfr. Cass. Pen., 15-05-1986, Menemio, Riv. Pen., 1987,
699).8 Corre
l’obbligo, però, di chiarire cosa si intenda effettivamente per potere
del giudice di non aumentare la pena per effetto della recidiva contestata dal
P.M. . La
questione non è di poco conto, né puramente formale, in quanto involge la
necessità di determinare e circoscrivere gli effettivi poteri decisori del
giudice. Vale
a dire che è fondamentale comprendere e precisare se : 1. il giudice possa ritenere sussistente la circostanza aggravante, ma
non applicare l’aumento relativo; 2. il giudice possa, allo scopo di non applicare l’aumento di pena,
escludere in toto l’aggravante contestata. La
soluzione del problema, infatti, ruota attorno all’interpretazione da fornire
alla locuzione “...può essere sottoposto ad un aumento....”. Ritiene
chi scrive che, per quanto concerne la prima tesi, emerga un’evidente
contraddizione fra la disposizione dell’art. 64 c.p., laddove è previsto il
principio (peraltro ovvio e logico) che a fronte di una circostanza aggravante
debba stabilirsi un aumento, che, ove non predeterminato dalla legge, sia nel
massimo pari ad 1/3 della pena prevista, e la considerazione, giurisprudenzialmente
esposta, che l’art. 99 cod. pen., nel testo sostituito dall’art. 9 del D.L. 11
aprile 1974 n. 99 convertito in legge 7 giugno 1974 n. 220, conferisce facoltà
al giudice non di escludere la circostanza, (che è inerente alla persona del colpevole)
ma di non apportare gli aumenti di pena che da essa dovrebbero conseguire [Cfr.
Sez. II, sent. n. 185 del 15-01-1990 (cc. del 29-11-1988), Sciuto (rv 183010)].
Se
da un lato, si sostiene sul piano normativo che non si può non far conseguire
alla circostanza di ritenere sussistente un’aggravante, il relativo aumento di
pena, [che anche fosse di un solo giorno], dal canto giurisprudenziale si
reputa, invece, possibile la dicotomia fra riconoscimento di sussistenza di una
circostanza aggravante e negazione dell’applicazione del relativo aumento di
pena. La
scelta di ritenere possibile in capo al giudice il potere di non computare
l’aumento di pena corrispondente ad un particolare e specifico negativo profilo
del commesso reato, integra una soluzione indubbiamente ambigua, in quanto non
priva di illogicità, perchè contraddice non solo la previsione normativa sopra
richiamata, ma la stessa funzione giuridica cui assolvono le circostanze
aggravanti [e che è, indubbiamente, quella di delineare in modo pieno sia il
fatto da giudicare, che le conseguenze sanzionatorie dello stesso]. Ciò
non di meno, però, pare di dovere rilevare che essa sia, allo stato, ahimè,
l’unica soluzione possibile, posto che la recidiva può essere esclusa solamente
laddove si verifichi che non si verte in ambito di quelle condizioni soggettive
che ne giustifichino la contestazione nei confronti dell’imputato. E’,
pertanto, evidente che l’ipotesi dell’esclusione in toto dell’aggravante della
recidiva, pur in presenza di effettive condizioni che ne giustifichino
l’applicazione, concreterebbe null’altro che una scelta illogica, irrazionale
e, probabilmente configurante una vera e propria illegittimità, se non
addirittura un abuso. Sicchè
– cone detto – va preferita la prima opzione, ferme, peraltro, le forti
perplessità avanzate sul punto. LA SCELTA OPERATA DALLA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI GROSSETO. Esaurite
le premesse sistematiche sin qui doverosamente svolte, ed alle quali
necessariamente ci si deve riallacciare, si deve valutare la portata concreta
della decisione del Tribunale di Grosseto. Appare,
in primo luogo, del tutto condivisibile la preliminare metodologica posta dal
giudice, laddove egli intende verificare la ratio effettiva dell’intervento di
modifica in ordine all’art. 69 comma 4° c.p., onde inferire dallo stesso
elementi atti a permettere un’intepretazione che superi il mero dato testuale . In
effetti, anche alla luce dei limiti evidenziati al punto precedente, in tema di
facoltatività della recidiva, appare evidente che il fine del legislatore è
stato indubbiamente quello “di evitare il dissolvimento delle
aggravanti nel giudizio di prevalenza delle attenuanti, senza tuttavia negare
la possibilità per il giudice di perseguire questo risultato mediante
l’applicazione in via autonoma delle aggravanti “blindate”9. Si
tratta di un orientamento che appare indubbiamente corretto e che trova
effettivi prodromi normativi non solo nell’art. 1, comma terzo, d.l.
15.12.1979, n. 625 come convertito nell’art. 1, legge 6.2.1980, n. 15, ma anche
in tempi più recenti nell’art. 12 comma 3 quater del d.l.vo 286/98. Entrambe
le norme contengono, infatti, previsioni del tutto simili a quella dell’art. 69
comma 4° c.p. relativamente alla questione del divieto di equivalenza e di
prevalenza delle attenuanti rispetto ad aggravanti specifiche, quale quella
della finalità di terrorismo, o quelle concernenti l’ingresso e la permanenza
illecita di persone extracomunitarie in Italia10. Vi
è, però, da chiedersi – ciò posto – perchè mai il legislatore tanto attento,
nell’ambito della legge sull’immigrazione, (cioè in un o specifico settore)) a
prevedere un meccanismo di temperamento di un’evidente asperità di diritto
sostanziale, (atto a recuperare dopo l’aumento dato dalla circostanza
aggravatrice l’evenutale diminuzione di pena propria delle attenuanti) si sia
mostrato, invece, carente, sul piano della previdenza (lungimiranza è parola troppo
pesante) in un contesto di previsione normativa di carattere generale. Sia
chiaro che questa ultima osservazione assume valenza di mera “polemica
giuridica” e non intende, affatto, inficiare o porre in discussione un percorso
valutativo che si condivide in toto. Tornando
al problema strettamente giuridico, la tesi, riportata nella sentenza che si
commenta, ha il pregio di offrire, al giudicante, due concrete possibilità di
alternativa decisoria, che rispettano la libertà di convincimento dello stesso.
La prima
è di natura strettamente “conservatrice”, in quanto consiste nel mantenere
intatto ed inalterato il codificato principio del bilanciamento fra attenuanti
ed aggravanti. Sicchè,
in tale occasione, l’eventuale giudizio che si verrà a formulare si porrà come
conclusione nel senso di escludere la dichiarazione di prevalenza delle
attenuanti, potendo queste, al più, essere configurate come equivalenti. La seconda, invece, (ed è ciò che maggiormente interessa) assume il carattere
della vera innovazione, perchè prevede che l’aggravante specifica (o “protetta”
come definisce la sentenza), rimanga al difuori del meccanismo proprio del
giudizio di valenza, e venga applicata in modo assolutamente autonomo rispetto
alle altre circostanze. E’
indubbio che la interpretazione fornita dal Tribunale di Grosseto, attraverso
la possibilità di introdurre, in relazione alla novella normativa della L. 251/05, una soluzione
del tutto alternativa a quella cd. “conservatrice”, permette e rende, per lo
meno, sul piano dell’apparenza, accettabile quest’ultima, la quale, ove fosse
stata applicata in via esclusiva, quale unica soluzione prevista
dall’ordinamento, avrebbe manifestato segni di palese incostituzionalità. Ove
unica soluzione possibile (siccome offerta dall’art. 69 comma 4° c.p.) fosse
stata quella di blindare in termini di sfavore per le attenuanti, l’istituto
del bilanciamento fra queste e le aggravanti, sarebbe balzato all’evidenza la
frustrazione del potere del giudice di decidere liberamente. Se
lo sbarramento dato dalla contestazione (anche solo strumentale) della recidiva
ex art. 99/4° c.p. e dal meccanismo di cui all’art. 69 comma 4° c.p., fosse
unica soluzione orba di alternative desisorie, il giudice si sarebbe trovato,
infatti, aprioristicamente ed irrazionalmente vincolato ope legis a non
manifestare in modo pieno ed assoluto il suo convincimento, che, invece,
avrebbe potuto porsi nel senso di ritenere l’imputato meritevole di attenuanti
da valutare con favore preponderante rispetto alle aggravanti contestate. Si
sarebbe, così, giunti alla aberrante conclusione che il giudicante – in forza
esclusiva del dettato legislativo – avrebeb dovuto contraddire il proprio
orientamento, comprimendo concretamente la consequenziale portata aritmetica di
un’attenuante, che egli poteva ritenere giusta, corretta ed aderente alla
fattispecie. Così
opinando, dunque il giudicante avrebbe potuto, quindi, solo aderire (al più) ad
un giudizio di equivalenza fra le opposte circostanze, soluzione che non appare
affatto rispettosa né delle risultanze processuali, né dell’intimo
convincimento maturato. E’,
quindi, evidente che ove si dovesse ritenere perseguibile e percorribile solo
la tesi che ancora il giudizio di cui all’art. 69 comma 4° c.p. ad una rigida
applicazione dell’obbligatorietà del giudizio di comparazione delle aggravanti
“protette” con l’aggiunta del divieto di prevalenza delle attenuanti, si
perverrebbe ad una situazione nella quale il giudice, dovendo obtorto collo
seguire il percorso dettato – senza alternativa alcuna - dalla norma in
disamina, vivrebbe una irreversibile discrasia fra l’interno volere del
requirente e la forma della pubblica manifestazione di tale orientamento. Con
la ulteriore conseguenza, in fatto e diritto, che il risultato cui si
perverrebbe e che è trasfuso in sentenza, non corrisponderebbe, né potrebbe in
alcun modo corrispondere, quindi, all’effettiva conclusione che il giudice ha
effettivamente raggiunto (e che dovrebbe, invece, costituire la vera decisione
presa), né ai presupposti valutati in sede di giudizio. Non
è, pertanto, accettabile un orientamento normativo che frustri e comprima,
così, il libero convincimento del giudice, inteso come libertà di valutare la
prova, dando conto dei criteri adottati e dei risultati conseguiti. (Cfr. Trib.
Napoli, 29/03/2005, Guida al Diritto, 2005, 18, 90). E’,
quindi, assolutamente evidente che la soluzione che il Giudice Monocratico di
Grosseto propugna si pone nell’auspicabile senso di contemperare una duplice
contrapposta esigenza e cioè, da un lato, quella di riconoscere come
obbligatoria l’applicazione di aggravanti specificamente previste (tra le quali
la recidiva), e dall’altro, di permettere, però e giustamente, l’applicazione
effettiva di una o più circostanze attenuanti. Coglie,
dunque, nel segno la duplice osservazione, riportata in sentenza, sul punto
secondo la quale : 1.
è principio generale quello per cui l’obbligatorietà dell’applicazione delle
aggravanti protette, tende ad impedire quell’effetto indotto dato dalla facoltà
del giudice di potere, tramite il giudizio di prevalenza delle attenuanti,
svuotare le stesse di pregnanza concreta ai fini della quantificazione della
pena, 2.
ad un simile risultato si può, però, giungere anche con l’applicazione autonoma
di quelle aggravanti, vale a dire escludendole dalla comparazione con le altre
circostanze diverse, (salvaguardando a parere di chi scrive – comunque –
l’esistenza e l’incidenza delle attenuanti anche in situziani giuridiche del tutto
anomale). In
conclusione, una volta definite dal legislatore (discutibilmente) obbligatorie
le aggravanti specifiche, sin qui indicate ed illustrate, le opzioni del
giudice restano le due già indicate in precedenza e cioè A) esecuzione
di un giudizio di comparazione fra tutte le circostanze aggravanti ed
attenuanti ritenute configurabili, fermo il fatto che si può addivenire a due
sole ulteriori soluzioni obbligate A1) giudizio di prevalenza delle aggravanti sulle attenuanti, A2) giudizio di equivalenza fra le aggravnti ed attenuanti (caso in
cui l’aggravante va considerata come applicata); B) esclusione
dal giudizio di valenza o bilanciamento della sola aggravante specifica. In
questo secondo caso, il Tribunale di Grosseto illustra il procedimento applicativo,
affermando che si procederà prima alle diminuzioni di pena per le attenuanti
dichiarate prevalenti e, indi, all’aumento conseguente all’applicazione della
prima aggravante. Si
tratta di un iter logico e condivisibile anche se, sul piano squisitamente
procedimentale in altre previsioni legislative (con buona pace dell’armonicità
e della unitarietà del diritto) si è ritenuto, invece, essere opportuno
applicare prima l’aumento per l’aggravante isolatamente ritenuta ed indi la
diminuzione eventuale in forza del giudizio di valenza fra la altre aggravanti
e le attenuanti, (così come previsto espressamente dall’art. 12 comma 3 quater d.l.vo 286/98). E’,
peraltro, evidente che la globale soluzione adottata dal giudice di Grosseto,
per quanto sostenibile ed accoglibile (con convinzione), appare più consona e
sintonica rispetto ad attenuanti, quali quelle di cui all’art. 62 bis o 62
c.p., le quali circoscrivono il loro raggio d’applicazione sia oggettiva, che
soggettiva a specifici e parziali aspetti frazionali della condotta criminosa
ipotizzata, a differenza dell’attenuante di cui all’art. 73 comma V dpr 309/90, che,
invece, postula un complessivo giudizio di ridotta offensività della
fattispecie base, fondato su molteplici parametri, il principale dei quali è
quello ponderale. In
buona sostanza, appare evidente che se il giudice dovesse ricorrere alla prima
delle due opzioni possibili, cioè ad un giudizio di valenza che coinvolga
indiscriminatamente tutte le aggravanti e tutte le attenuanti, verrebbe a
provocare – comunque e sempre – l’inaccettabile (in fatto e diritto)
conseguenza della svalutazione piena e totale di pregnanza dell’attenuante del
comma V, e l’ancor più inammissibile conclusione che il quantum di pena in
concreto applicato sarà quello concernente un reato assolutamente differente da
quello in realtà da lui ritenuto. Il
riconoscimento, in sentenza, della sussistenza dell’ipotesi lieve, infatti,
postula un giudizio delibativo che modifica fortemente nella sua sostanza il
fatto commesso, il quale, così, assume un connotato di minore (e certamente
modesto) allarme sociale e, per tale, motivo viene sanzionato con una pena
inferiore di sei volte nel minimo e di circa volte nel massimo, rispetto alla
sanzione base. Per
converso, svincolare – come avviene nel secondo caso – l’attenuante da
qualsivoglia giudizio di valenza rispetto alla aggravante cd. blindata,
permette, indubbiamente il recupero, sotto tutti i profili dell’effettività
della stessa, effetto questo che non può essere trascurato, se non a patto di
voler stravolgere la realtà processuale. Non
dimentica, certo, chi scrive che la deprecabile natura di attenuante
dell’istituto dell’art. 73/5° non pone lo stesso al riparo da altri e diversi
possibili giudizi di valenza, rispetto ad altre e diverse aggravanti, per
cosiddire comuni, che possano svuotare l’ipotesi lieve di pregnanza concreta
nei casi specifici. E’,
comunque, chiaro a chiunque che, sino a che non intervenga un poco di buon
senso giuridico, (con una modifica di legge che renda l’ipotesi lieve, come
reato autonomo) la soluzione adottata dal Tribunale di Grosseto (come
d’altronde le altre che si auspica interverranno in futuro), introducendo
un’alternativa ad una scelta, che se unica, apparirebbe – come detto più volte
– incostituzionale, intelligentemente sventa e vanifica una istituenda
situazione giurisprudenziale che già, nei primi mesi di applicazione
dell’ex-Cirielli, ha dimostrata un patente, quanto ingiusto, scollamento fra
fatto e diritto. Certo
è che non potrà in eterno essere l’esegeta a colmare lacune o supplire a crassi
errori normativi. (Altalex,
Nota di Carlo
Alberto Zaina. Si ringrazia per la segnalazione il dott.
Sergio Compagnucci) 1 Nella fattispecie, la Corte
ha confermato la sentenza del giudice di merito che aveva negato l’applicazione
dell’attenuante in presenza di quantitativi di eroina non cospicui,
commercializzati in modo frequente e sistematico, ritenendo tale condotta
sintomo di una non trascurabile potenzialità diffusiva dell’attività di
spaccio. 2 La circostanza attenuante
speciale del fatto di lieve entità di cui all’art. 73 comma 5, D.P.R. 9 ottobre 1990, n.
309 (testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti),
deve essere riconosciuta in tutte le ipotesi di minima offensività penale della
condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri
parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze
dell’azione). Nel caso di specie è stata ritenuta sussistente la circostanza
attenuante "de qua" in considerazione della qualità e quantità di
sostanza stupefacente sequestrata (trattasi di un quantitativo non elevato, gr.
30,8 di cocaina pari a 270 dosi commerciali, con principio attivo non
particolarmente elevato), nonché delle modalità della condotta (risulta infatti
che l’imputato ha posto in essere la detenzione a fine di spaccio con mezzi e
modi assai semplici e limitati: la cocaina era detenuta sulla persona). 3 In La nuova normativa sugli
stupefacenti. Commento alle norme penali del Testo Unico, Milano, 1991, 4 Il testo dell’art. 416 del
codice penale è il seguente: "Art.
416 (Associazione per delinquere). - Quando tre o più persone si associano allo
scopo di commettere più delitti, coloro che promuovono o costituiscono od
organizzano l’associazione sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da tre
a sette anni. Per
il solo fatto di partecipare all’associazione, la pena è della reclusione da
uno a cinque anni. I
capi soggiacciono alla stessa pena stabilita per i promotori. La
pena è aumentata se il numero degli associati è di dieci o più". 5 Recitano i primi due commi
dell’art. 74 DPR 309/90 Quando tre o più persone si associano allo scopo di
commettere più delitti tra quelli previsti dall’articolo 73, chi promuove,
costituisce, dirige, organizza o finanzia l’associazione è punito per ciò solo
con la reclusione non inferiore a venti anni. Chi
partecipa all’associazione è punito con la reclusione non inferiore a dieci
anni. 6 Per una disamina più
approfondita delle ragioni a sostegno della tesi di minoranza V. C.A. ZAINA LA
NUOVA DISCIPLINA PENALE DELLE SOSTANZE STUPEFACENTI, Maggioli Editore, 2006 7 Art.
99. Recidiva. Chi,
dopo essere stato condannato per un delitto non colposo, ne commette un altro,
può essere sottoposto ad un aumento di un terzo della pena da infliggere per il
nuovo delitto non colposo. La
pena può essere aumentata fino alla metà: 1)
se il nuovo delitto non colposo è della stessa indole; 2)
se il nuovo delitto non colposo è stato commesso nei cinque anni dalla condanna
precedente; 3)
se il nuovo delitto non colposo è stato commesso durante o dopo l’esecuzione
della pena, ovvero durante il tempo in cui il condannato si sottrae
volontariamente all’esecuzione della pena. Qualora
concorrano più circostanze fra quelle indicate al secondo comma, l’aumento di
pena è della metà. Se
il recidivo commette un altro delitto non colposo, l’aumento della pena, nel
caso di cui al primo comma, è della metà e, nei casi previsti dal secondo
comma, è di due terzi. Se
si tratta di uno dei delitti indicati all’articolo 407, comma 2,
lettera a), del codice di procedura penale, l’aumento della pena per la
recidiva è obbligatorio e, nei casi indicati al secondo comma, non può essere
inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto. In
nessun caso l’aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo
delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo
delitto non colposo». 8 L’art. 9 d. l. n. 99 del
1974, che ha profondamente modificato la disciplina dell’art. 99 c. p. sulla
recidiva non ha reso facoltativa la contestazione della stessa, ma ha conferito
al giudice di merito il potere di non aumentare la pena per effetto della recidiva
contestata, attribuento una semplice facoltà di non apportare l’aumento di pena
corrispondente al tipo di recidiva contestata; ne consegue che il giudice ha
l’obbligo di motivare, ove ritenga di aumentare la pena per effetto della
recidiva, onde mettere in luce i rapporti tra il nuovo reato e la condanna
precedente; mentre se ritiene di procedere ad un giudizio di comparazione con
eventuali circostanze attenuanti deve motivare esclusivamente in ordine alle
ragioni per le quali ha ritenuto la equivalenza o la prevalenza per le
fattispecie circostanziate di segno opposto. V. però anche Sez. I, sent. n. 2031 del 17-03-1983 (cc.
del 13-07-1982), Lo Cascio rv 157808 In base alla normativa sulla
recidiva introdotta con la legge n. 220 del 1974, il giudice ha la facoltà di
escludere la recidiva che, nonostante la particolare natura di qualificazione
giuridica inerente alla persona del colpevole, riceve nel vigente ordinamento
penale un trattamento giuridico del tutto identico a quello previsto in
generale per le circostanze aggravanti del reato. 9 Cfr, sentenza Tribunale
Grosseto 10 Cfr. commi 3 bis e 3 ter art. 13 d.l.vo 286/98. Tribunale di Grosseto (Omissis) Ora,
nella fattispecie è stata contestata all’imputato la recidiva reiterata
specifica infraquinquennale, contestazione che risulta corretta da quanto
emerge dal casellario giudiziale (v., tra l’altro, ultima condanna da parte
della Corte di Appello di Firenze, divenuta irrevocabile il 6.12.2004, per il
reato ex art. 73, commi 1 e 5, d.p.r. 309/90 e 99 c.p., commesso in data
15.11.2003, e la precedente condanna del Pretore di Siena, irrevocabile il
19.4.99, per i reati ex artt. 635, 336 c.p.). Pertanto,
il ravvisamento di tale specifica forma di recidiva pone la questione del
divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sancito dall’art. 69, comma
4, c.p., come sostituito dall’art. 3 della legge 5.12.2005, n. 251, nei casi
previsti dall’art. 99, comma 4, c.p., come sostituito dall’art. 4 della legge
appena citata, novella normativa applicabile in questo giudizio in quanto il
fatto è stato commesso successivamente alla sua entrata in vigore. Secondo
il pacifico orientamento della Cassazione, infatti, la fattispecie di cui
all’art. 73, comma 5, d.p.r. n. 309/90, costituisce un’ipotesi aggravata e non
già una ipotesi autonoma di reato (v., per tutte, Cass.pen, sez. un., sent. n.
9148 del 1991). V’è,
in realtà, chi – con l’entrata in vigore della legge di modifica n. 49 del 2006
– ha sostenuto che dovrebbe darsi spazio alla teoria della fattispecie
autonoma, ritenendo che un argomento letterale si dedurrebbe dall’inciso di
apertura della norma di cui all’art. 73, comma 5-bis, che richiama
espressamente l’”ipotesi di cui al comma 5”. Tale
osservazione, però, non è condivisibile, in quanto la legge n. 49 del 2006 non
ha apportato alcuna sostanziale innovazione alla fattispecie lieve di cui al
comma quinto, per cui sono sempre valide le argomentazioni addotte dalla
Suprema Corte a sostegno della natura circostanziale, cioè il fatto che la
lieve entità è correlata ad elementi (i mezzi, la modalità, le circostanze
dell’azione, la qualità e quantità delle sostanze) che non mutano,
nell’obiettività giuridica e nella struttura, le fattispecie previste dai primi
commi dell’art. 73, ma attribuiscono ad esse una minore valenza offensiva (v.
Cass.pen, sez. un., n. 9148/91, cit.). Una
volta stabilito che la fattispecie di cui al comma quinto, anche dopo l’entrata
in vigore della legge n. 49 del 2006, va considerata come una circostanza
attenuante ad effetto speciale, si pone inevitabilmente la problematica del
divieto di prevalenza sancito dal nuovo art. 69, comma 4, in caso di recidiva
reiterata. Quest’ultima
disposizione, infatti, nell’estendere il giudizio di comparazione ad ogni
circostanza (soggettiva, ad efficacia speciale o autonoma), ne esclude
l’applicabilità per le aggravanti di cui agli artt. 99, comma quarto, 111 e
112, comma primo, n. 4), c.p., stabilendo per questi casi un divieto di
prevalenza delle attenuanti. Tali circostanze specifiche, pertanto, sono
assoggettate ad un trattamento particolare e si possono così definire “blindate”
o anche “protette”. Ad
una prima lettura della disposizione novellata sembrerebbe di doversi affermare
che la sussistenza di una di tali aggravanti impedisce l’applicazione della
diminuzione di pena conseguente al riconoscimento di una circostanza
attenuante, stante il divieto della prevalenza di quest’ultima. Quindi,
si dovrebbe affermare che i fatti di lieve entità di cui al comma quinto
dell’art. 73, in caso di ritenuta recidiva reiterata, non potrebbero godere del
trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie attenuata (cioè la pena
della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000,00 ad euro
26.000,00), bensì di quello di cui alla ipotesi ordinaria (reclusione da sei a
venti anni e multa da euro 26.000,00 ad euro 260.000,00). Un
simile regime normativo è stato considerato in contrasto sia con il parametro
della ragionevolezza desumibile dal principio di uguaglianza ex art. 3 della
Costituzione sia con la finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27
della stessa Carta (v. ordinanza del Tribunale di Ravenna emessa in data
12.1.2006, giud. Messini, con cui è stata rimessa alla Corte delle leggi la
questione di legittimità costituzionale del nuovo art. 69, ultimo comma, c.p.
nella parte in cui esclude la possibilità della prevalenza delle attenuanti
sulla recidiva reiterata). Ed
invero, laddove si propendesse per la obbligatorietà del giudizio di
bilanciamento delle aggravanti “protette” con divieto di prevalenza delle
attenuanti, il dubbio di costituzionalità sarebbe effettivamente condivisibile. Tuttavia, qui si ritiene che tale conclusione non discenda
necessariamente né dalla disposizione codicistica interessata né dal sistema. In
particolare, il punto nodale sta nello stabilire se con l’attuale formulazione
dell’art. 69, comma 4, c.p. il legislatore abbia inteso mantenere la
obbligatorietà del giudizio di comparazione delle aggravanti “protette” con
l’aggiunta del divieto di prevalenza delle attenuanti ovvero se lo scopo sia
stato soltanto quello di evitare il dissolvimento delle aggravanti nel
giudizio di prevalenza delle attenuanti, senza tuttavia negare la possibilità
per il giudice di perseguire questo risultato mediante l’applicazione in via
autonoma delle aggravanti “blindate”. In altri termini, optando per
quest’ultima ipotesi, il giudice in caso di aggravante “protetta” concorrente
con una o più circostanze attenuanti potrebbe: a) decidere di procedere al
bilanciamento, ed in questo caso non gli è consentita la dichiarazione di
prevalenza delle attenuanti; b) oppure escludere dal bilanciamento la sola
aggravante “protetta”, la quale verrebbe quindi applicata in via autonoma
rispetto alle altre circostanze. A
favore di tale soluzione, militano gli argomenti addotti dalla Corte
Costituzionale con la sentenza interpretativa di rigetto n. 38 del 1985
(confermata con la successiva sentenza n. 194/85) emessa in relazione al
trattamento sanzionatorio previsto per la aggravante della finalità di
terrorismo. In quel caso, il Giudice delle leggi era stato chiamato a decidere
in ordine alla legittimità costituzionale dell’art. 1, comma terzo, d.l.
15.12.1979, n. 625 come convertito nell’art. 1, legge 6.2.1980, n. 15,
relativamente alla questione del divieto di equivalenza e di prevalenza delle
attenuanti sull’aggravante della finalità di terrorismo. Mentre
il comma terzo dell’art. 1 del decreto legge prevedeva che in caso di concorso
con l’aggravante speciale non si applicavano le disposizioni dell’art. 69 c.p.
e le diminuzioni di pena si operavano sulla pena conseguente all’applicazione
delle aggravanti, in sede di conversione veniva previsto che le attenuanti
concorrenti con l’aggravante della finalità di terrorismo non potevano essere
ritenute equivalenti o prevalenti rispetto alla stessa (oltre che rispetto alle
aggravanti ad effetto speciale o indipendenti). La
Corte di Appello di Genova, ritenendo che la disposizione della legge di
conversione avesse comportato l’obbligatorietà del giudizio di prevalenza
dell’aggravante della finalità di terrorismo sulle circostanze attenuanti
comuni concorrenti, sollevò la questione di legittimità costituzionale per
violazione del principio di uguaglianza. Ebbene, la Corte Costituzionale, con
la sentenza suddetta, negò il fondamento della interpretazione fornita dal
giudice a quo, sostenendo che l’obbligatorietà in quei casi del giudizio
di comparazione ex art. 69 c.p. non si poteva desumere né dalla
disposizione normativa interessata né dal sistema. La
Corte, riguardo al secondo aspetto, osservava che “nell’art. 69 cod. pen.,
infatti, l’obbligatorietà del giudizio di bilanciamento ha una sua razionalità
nell’essenza stessa di quella valutazione, che è giudizio di valore globale del
fatto e non numerico delle circostanze contrapposte e concorrenti(…), ed “il
giudice, perciò, è libero di valutare il fatto in tutta la sua ampiezza
circostanziale, sia eliminando dagli effetti sanzionatori tutte le circostanze
(equivalenza), sia tenendo conto di quelle che aggravano la quantitas
delicti, oppure soltanto di quelle che la diminuiscono. Ma, una volta rotto
questo perfetto equilibrio valutativo, che implica un globale giudizio sia sul
fatto di reato che sulla personalità del suo autore, e privato il giudice (…)
del potere di esprimere, ai fini della pena, un giudizio omogeneo e complessivo
su tutta la vicenda soggettiva ed oggettiva dell’illecito, tenere ferma
tuttavia unilateralmente quell’obbligatorietà, che trovava giustificazione
nella corrispettiva omogeneità dei criteri valutativi, determinerebbe
effettivamente una situazione del tutto irrazionale”. Tali
considerazioni possono valere anche in ordine alla nuova disposizione di cui
all’art. 69, comma 4, c.p.: anche in tal caso, infatti, la previsione del
divieto di prevalenza di ogni attenuante (comune o ad efficacia speciale) su
una o più delle aggravanti “protette” determina la rottura dell’equilibrio
valutativo su cui si fonda, nel sistema, il bilanciamento, di modo che non può
più sostenersi la obbligatorietà di quest’ultimo giudizio.
Anzi, il sostenerne l’obbligatorietà significherebbe esporre la disposizione novellata
al sospetto (più che fondato) di irragionevolezza. Rimane
allora da verificare se la obbligatorietà del bilanciamento nei casi di
concorso tra le aggravanti “protette” ed una o più attenuanti discenda dalla
particolare formulazione dell’ultimo comma dell’art. 69 c.p. Anzi
tutto, per quanto riguarda il dato letterale, possono essere richiamate le
considerazioni formulate dalla Corte Costituzionale con riferimento al regime
normativo previsto per l’aggravante della finalità di terrorismo, posto che il
legislatore del 2005, al pari di quello del 1980, ha utilizzato una “formula
negativa così obliqua” che mal si concilia con la tesi secondo cui lo stesso
avrebbe voluto escludere in via assoluta l’applicazione delle diminuzioni di
pena conseguenti alle attenuanti concorrenti con una delle aggravanti
“blindate”. In questo caso, infatti, la logica avrebbe suggerito l’uso di una
formula più diretta ed in positivo, del tipo “in caso di concorso delle
aggravanti di cui agli artt. 99, comma 4, 111 e 112, comma primo, n. 4) c.p.
con una o più circostanze attenuanti il giudice non può mai applicare le
diminuzioni di pena conseguenti al riconoscimento di queste ultime”. Il
legislatore non ha utilizzato una tale formula diretta per la ragione evidente
che non era questo lo scopo che si prefiggeva, in quanto il suo vero proposito
era quello di rendere obbligatoria l’applicazione di quelle specifiche
aggravanti, ma non anche di impedire l’applicazione di una o più circostanze
attenuanti. Martedì, 12 Settembre 2006
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