E’
notte inoltrata e, su una strada statale di provincia, in un’automobile
di media cilindrata Matteo, Emiliano, Cristina, Federica e Veronica
tornano alle loro case dopo una serata passata in discoteca. Ridono,
scherzano, cantano. È normale alla loro età, anche
se forse qualcuno di loro ha bevuto un po’ troppo e, tra questi,
proprio Matteo che sta guidando. La strada non è ben illuminata
e, dopo una delle tante curve, vediamo improvvisamente riflesse
negli occhi dei cinque ragazzi le luci di un camion che sembra essere
comparso dal nulla. Matteo prova ad evitarlo e facendolo sterza
bruscamente a destra. Ma la strada è stretta e l’auto
finisce nella ripida scarpata. Mentre seguiamo la scena dell’auto
che precipita sempre più giù, udiamo le urla disperate
dei ragazzi, vediamo il panico nei loro occhi che non capiscono
cosa sta succedendo, le loro braccia che tentano di aggrapparsi
a qualcosa per non essere violentemente sballottati nell’auto
che ancora non si ferma. Finalmente, la corsa ha termine, l’auto
si è fermata sul fondo del dirupo. I ragazzi, sconvolti e
forse feriti, ma vivi, sono immobilizzati dalla paura. Ci tranquillizziamo,
pensando che ce l’abbiano fatta, anche se il nostro cuore ancora
batte veloce per la forte emozione provata. Improvvisamente però,
quando ancora i ragazzi non sono usciti dall’auto, un violento
scoppio ci scuote. L’auto è di colpo esplosa, con i
ragazzi ancora al suo interno! La sensazione che ora proviamo è
di terrore, disperazione, disgusto… Il luogo da cui abbiamo
assistito a tutto ciò non è la strada, ma la comoda
poltrona di casa nostra. E, tuttavia, non stiamo vedendo un film.
Si tratta invece di una pubblicità sociale per la prevenzione
degli incidenti stradali. Infatti, alla fine della scena appena
descritta, una voce fuori campo raccomanda ai giovani di prestare
attenzione alla guida e, soprattutto, di non guidare dopo aver bevuto.
Si tratta, più specificamente, di ciò che gli anglosassoni
chiamano “fear appeal” (letteralmente “appello alla
paura”), termine utilizzato proprio per indicare quei messaggi
che fanno uso dell’intimidazione per cambiare gli atteggiamenti
ed i comportamenti di soggetti a rischio.
Ovviamente,
lo spot appena descritto è un caso estremo di pubblicità
intimidatoria e, per lo più, un tale esempio di comunicazione
sociale non viene utilizzata, almeno nel nostro paese, a parte pochi
casi risalenti a diversi anni fa. Tuttavia, e non solo in Italia,
sono molte le campagne di prevenzione sulla sicurezza stradale che
hanno fatto uso, per i diversi supporti comunicativi quali poster,
dépliant, messaggi televisivi e radiofonici, di immagini
con descrizioni vivide delle conseguenze di un incidente stradale
e quindi scene con veicoli distrutti, persone più o meno
gravemente ferite, quando non addirittura già decedute. Ancora
più spesso poi, altri messaggi fanno un uso della paura maggiormente
sofisticato e meno diretto, rifacendosi ad altre scene o parole
rispetto a quelle relative al contesto vero e proprio dell’incidente
stradale. Sono messaggi che rimandano comunque alla morte o ad altri
pericoli conseguenti all’infortunio su strada: l’immagine
di una lapide in un cimitero, il corpo di un giovane sul lettino
dell’obitorio, la sedia a rotelle che ricorda la possibilità
di rimanere per sempre disabili. Oppure, ancora più indirettamente,
i segni di una brusca frenata sull’asfalto, o l’immagine
di un bicchiere di vino che va ad infrangersi, metafora dell’incidente
stradale causato dalla guida in stato di ebbrezza. In effetti, quando
si parla di messaggio intimidatorio, o fear appeal, si intende una
tipologia di comunicazioni in realtà molto differenti tra
di loro, in cui intento è però in ogni caso quello
di suscitare timore, paura o addirittura terrore nel destinatario
ed è pertanto basato essenzialmente sul tentativo di far
percepire al soggetto un senso di vulnerabilità, per indurlo
a modificare i comportamenti considerati sbagliati da chi ha commissionato
la campagna di comunicazione.
Se la questione del determinare cosa sia un fear appeal può
essere di una certa complessità, ancor più difficile
è invece stabilire se tali tipi di messaggi siano o meno
efficaci nel determinare i cambiamenti auspicati. La ricerca sull’efficacia
dei fear appeals, che conta ormai più di mezzo secolo (a
partire dal primo studio di Janis e Feshnbach del 1953), non ha
infatti portato finora a risultati concordanti, che possano giustificare
o meno l’utilizzo di tale tipo di comunicazione nella prevenzione
non solo degli incidenti, ma anche di altri tipi di pericolo (es.
AIDS, fumo, ecc.).
I principali risultati della ricerca in questo campo derivano dagli
studi sperimentali di laboratorio e dall’elaborazione di teorie
cognitive, entrambi portati avanti, nella maggior parte dei casi,
nell’ambito della psicologia sociale. Alcuni degli studi sperimentali,
ad esempio, hanno dimostrato una correlazione positiva tra la paura
suscitata e l’efficacia persuasiva del messaggio. Secondo tale
correlazione, maggiore è il livello di intimidazione indotto
nel messaggio, maggiore sarebbe il cambiamento comportamentale e
di atteggiamento provocato nei soggetti destinatari dello stesso
(Insko, Arkoff & Insko, 1965, Stainback & Rogers, 1983),
nei termini di intenzioni ad adottare comportamenti più sicuri
alla guida. Collegata a tale ipotesi è l’idea che i
messaggi scarsamente intimidatori siano poco efficaci, in quanto
i destinatari percepirebbero gli scenari e le conseguenze mostrate
loro come poco importanti, scarsamente significative e quindi da
non prendere in considerazione (Janis e Leventhal, 1968; Bennet
1996).
Sul fronte opposto, altri studi hanno invece provato che minore
è il livello di paura del messaggio, maggiore è la
possibilità che esso provochi un cambiamento nel senso desiderato,
considerando che invece un alto livello di paura può causare,
paradossalmente, un cosiddetto “effetto boomerang”, provocando
nei soggetti destinatari una reazione di evitamento del messaggio.
Posti di fronte ad un messaggio intimidatorio, saremmo pertanto
talmente sconvolti e disgustati da non voler più proseguire
la sua visione, ci alzeremmo dalla poltrona o cambieremmo canale.
Un livello troppo elevato di paura, inoltre, se probabilmente può
convincere i destinatari che le scene mostrate sono realistiche,
potrebbe tuttavia portare gli stessi soggetti a non credere che
un incidente stradale simile possa accadere proprio a loro. Ancora,
i destinatari di un messaggio altamente intimidatorio possono perdere
la concentrazione relativamente ai contenuti del messaggio stesso,
a causa delle forti immagini che in genere sono presenti in questo
tipo di comunicazione (Bennet, 1996). Infine, questi messaggi possono
non essere molto efficaci proprio per quei soggetti più a
rischio di incidente stradale, come i giovani, a causa della loro
abituale esposizione ad immagini di tale tipo anche in altri contesti
(film, videogiochi, ecc.), che li renderebbero in qualche modo assuefatti
a tali modalità comunicative. Anche in conseguenza dei risultati
sopraccitati, una terza serie di studi ha invece dimostrato che,
sia un livello troppo basso che uno troppo alto di paura implicita
in una comunicazione persuasoria possono dimostrarsi inefficaci,
mentre un livello medio sarebbe l’ideale per determinare il
cambiamento atteso (Janis, 1967). Fino ad un certo punto, il livello
di paura non sarebbe tale da poter provocare nel soggetto il risveglio
dell’attenzione. Oltre un certo livello, invece, potrebbe causare
il già citato effetto boomerang, o altri effetti collaterali.
Studi più recenti, infine, suggeriscono che probabilmente,
al di là di un unico effetto atteso per questo tipo di messaggi,
a secondo del livello di paura contenuto in essi, esistono piuttosto
diverse situazioni in cui questi messaggi possono funzionare o meno,
e ciò è dovuto alle numerose variabili intervenienti
considerate di volta in volta, relative sia all’emittente del
messaggio, sia al destinatario, sia al messaggio stesso, sia all’argomento
preso in considerazione. In effetti, uno dei principali motivi di
questi risultati contraddittori è che negli esperimenti effettuati
le strategie relative ai messaggi utilizzati negli studi non sono
state controllate (Beck e Frankel, 1981) e diversi tipi di informazioni
sono state utilizzate per manipolare differenti gradi di paura.
Oppure, soggetti con caratteristiche demografiche anche molto diverse
sono stati utilizzati negli esperimenti (Quinn, Meenaghan e Brannick,
1992).
Un altro limite degli studi sperimentali deriva dal contesto di
visione delle immagini a cui vengono sottoposti i soggetti sperimentali;
nell’esperimento, infatti, i soggetti sono generalmente molto
attenti a ciò che stanno vedendo, mentre nella realtà
la televisione, un dépliant o un manifesto per strada possono
essere guardati con poca attenzione. Pertanto, a tutt’oggi
non si può dire, in senso assoluto, che i messaggi che facciano
ricorso all’intimidazione abbiano o meno effetto. Il problema
è assai più complesso, e i risultati degli studi finora
condotti fanno invece considerare in maniera più specifica
le variabili che intervengono nel processo di persuasione, per cui
i fear appeal potrebbero avere un determinato effetto per alcuni
gruppi e non per altri, o in alcune altre situazioni piuttosto che
in altre. Una delle variabili da prendere in considerazione è
sicuramente l’argomento affrontato nei fear appeal. Molti degli
studi condotti finora, infatti, hanno preso in considerazione le
più diverse tematiche di prevenzione, dai tumori provocati
dal fumo di sigaretta alle malattie sessualmente trasmesse, dalle
vaccinazioni agli incidenti stradali. Spesso, i risultati derivati
da tali studi sono stati confrontati considerando allo stesso modo
gli argomenti affrontati, mentre ci sembra di cruciale importanza
che la ricerca sui fear appeal continui specializzandosi in maniera
più precisa sui diversi ambiti in cui i messaggi intimidatori
vengono utilizzati.
Inoltre,
un altro limite deriva dal fatto che, nello studiare gli effetti
dei messaggi intimidatori, così come nel valutare le campagne
di prevenzione, quelli che si prendono in considerazione sono gli
effetti a breve termine dei media. Nella teoria e nella ricerca
sulle comunicazioni di massa, invece, il concetto di influenza a
breve termine è stato superato già da parecchi anni,
per far posto alla considerazione di effetti cumulativi a lungo
termine, che sembrano essere quelli più importanti. Tuttavia,
spesso la sperimentazione, nonché le valutazioni delle iniziative
di prevenzione, operano in un ambito temporale ristretto perché
è molto difficile misurare gli effetti dei media a lungo
termine. Si tratta infatti di effetti cumulati (e quindi non facilmente
isolabili) che derivano dall’esposizione dei soggetti a ripetuti
messaggi e testi mediali provenienti da differenti fonti e di diversi
generi.
Sarebbe certo opportuno che studi analoghi vengano svolti anche
nel nostro Paese, in quanto – e la cosa è di per sé
evidente – i risultati ottenuti sono fortemente dipendenti
anche dagli aspetti etnico-culturali. Decidere per un approccio
di comunicazione piuttosto che per un altro potrebbe essere ulteriormente
supportato da conoscenze specifiche sulla nostra realtà sociale
e culturale. Chiaramente, una conoscenza di questo tipo a supporto
delle azioni che verrebbero promosse, aumenterebbe verosimilmente
la loro probabilità di successo, o quanto meno, darebbero
un’indicazione sui possibili sviluppi da seguire. Infine, vorremmo
sottolineare – nonostante le difficoltà in merito segnalate
- la necessità di affiancare alle prove di laboratorio anche
studi longitudinali per quantificare gli effetti di tali messaggi
sulle performance stradali, i tassi di incidenti e le violazioni
registrate. Non conosciamo infatti ancora sufficientemente quando
questi effetti si manifestano, quanto durano e se abbiano o meno
delle ripercussioni nella vita di tutti i giorni, proprio perché
la vita di tutti i giorni, sia sulla strada che davanti ad uno schermo,
è molto più complessa rispetto a quello che può
essere messo in luce in un laboratorio.
*Reparto
Ambiente e Traumi
Dipartimento di Ambiente e connessa Prevenzione Primaria
Istituto Superiore di Sanità, Roma
Nota
a piè di pagina: Il presente lavoro è stato realizzato
nell’ambito del progetto DATIS2, coordinato dall’Istituto
Superiore di Sanità e finanziato dal Ministero delle Infrastrutture
e dei Trasporti..
|