Sabato 23 Novembre 2024
area riservata
ASAPS.it su
Corte di Cassazione 20/09/2006

da Altalex - Autenticazione della firma del querelante valida solo con la nomina del difensore

Cassazione, SS.UU. penali, sentenza 11 luglio 2006 n° 26549

 L’autenticazione della firma del querelante effettuata da un avvocato deve ritenersi valida solo nel caso in cui questi sia stato nominato difensore della persona offesa, a norma degli articoli 101, comma 1, e 96, comma 2, c.p.p.; ma la dichiarazione di nomina non necessita di formule sacramentali e può essere ravvisata in altre dichiarazioni rese nell’atto di querela, dalle quali potere ricavare la sua volontà di essere assistita dal legale che ha autenticato la firma.

Lo hanno stabilito le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 26549 dell’11 luglio 2006, precisando che sarà compito del giudice del merito stabilire, di volta in volta, se le espressioni utilizzate dalla persona offesa nell’atto di querela sono sufficienti a dimostrare la sua volontà di nominare quale difensore di fiducia il legale che ha effettuato l’autenticazione della sua sottoscrizione


SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Sentenza 11 luglio 2006 - 28 luglio 2006, n. 26549


(Presidente N. Marvulli, Relatore P. A. Sirena)

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza del 7 giugno 2001, il Tribunale di Roma dichiarò S. M. responsabile del reato previsto dagli articoli 595 C.P., 13 e 21 della legge 8 febbraio 1948, numero 47, per avere redatto e pubblicato sul quotidiano "Il Giornale" del 3 agosto 1998 un articolo intitolato "Collaboratori con licenza di delinquere da Di Maggio a Contorno e Galasso: la protezione statale comodo paravento per azioni illecite", il cui contenuto venne ritenuto offensivo della reputazione della collaboratrice di giustizia F. G. e dell’associazione "D.", presentata come un sex club gestito in Trastevere dalla stessa F..

Con la stessa sentenza il Tribunale di Roma dichiarò, inoltre, C. M. V. responsabile del delitto previsto dall’articolo 57 C.P. per avere, quale direttore responsabile del quotidiano anzidetto, omesso il controllo necessario al fine di impedire che, con l’articolo dello S., venisse offesa, anche mediante fatti determinati, la reputazione della persona offesa.

I due imputati furono, perciò, condannati – previa concessione delle circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate - alla pena di lire 1.000.000 di multa ciascuno, e in solido al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore della parte civile costituita.

Avverso tale decisione proposero impugnazione sia lo S. che il C., ma la Corte di appello di Roma, con sentenza del 4 giugno 2004, confermò la decisione del Tribunale.

Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dei due imputati, deducendo:

a) violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera c), c.p.p., per erronea applicazione di norme processuali, con riferimento agli articoli 337, 129, 101, 96 dello stesso codice e 39 delle sue disposizioni di attuazione.

Il ricorrente sostiene che i giudici della Corte di appello di Roma avrebbero errato ad attribuire validità ed efficacia alle querele in atti, fondando la propria argomentazione sulla pretesa sussistenza e ammissibilità di una nomina tacita del difensore delle persone offese in favore del professionista che ebbe a sottoscrivere "per autentica" tali atti, successivamente dallo stesso depositati.

Infatti, secondo la tesi difensiva, un avvocato può esercitare il potere di autenticazione della sottoscrizione della persona offesa soltanto se ha formalmente assunto la qualifica di difensore della stessa; e però, tale qualifica conseguirebbe solo a seguito di nomina ai sensi del combinato disposto degli articoli 101 e 96 c.p.p., e cioè con formale atto depositato all’autorità procedente o contenuto nel corpo della querela.

b) Violazione dell’articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), c.p.p., per erronea applicazione della legge penale con riferimento agli articoli 595, 51 C.P. e 21 della Costituzione, e per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla sussistenza del delitto di diffamazione.

Ad avviso del ricorrente, sarebbe erroneo l’assunto dei giudici della Corte territoriale, secondo cui dovrebbe "convenirsi con il primo giudice nell’escludere le condizioni per l’operatività dell’esimente del diritto di cronaca o di critica, ostando in particolare il mancato rispetto del limite della verità della notizia".

Tale tesi sarebbe errata perché, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’esercizio del diritto di critica incontra i limiti della rilevanza sociale dell’argomento e della correttezza delle espressioni utilizzate, presupponendo una preesistente notizia, della quale il giornalista sarebbe tenuto a verificare solo il "nucleo fondamentale"; così che, sussistendo tale nucleo (e cioè, nella fattispecie, l’impiego del sussidio statale da parte della querelante per l’apertura di un locale, poi oggetto di una indagine per sfruttamento della prostituzione), "eventuali inesattezze dei fatti riferiti in un contesto di critica o di satira diventerebbero irrilevanti ove, come in questo caso, non assumessero un particolare valore informativo".

Inoltre, sempre secondo il ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe pure contraddittoria nella parte in cui – dopo avere circoscritto le ragioni della condanna nel mancato rispetto della verità della notizia – ha analizzato la portata delle espressioni "pentita" e "sfacciata", affermando che in ogni caso le stesse non sarebbero continenti rispetto al concetto, sia pure critico, da esprimere; e sarebbe, altresì, manifestamente illogica nella parte in cui ha dissertato sulle differenze tra i termini "pentita" e "collaboratore di giustizia", quali recepiti dall’uomo comune.

c) Violazione dell’articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), c.p.p. per erronea applicazione della legge penale, con riferimento all’articolo 57 C.P., e per mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell’omesso controllo.

Il ricorrente assume che la sentenza impugnata, oltre ad essere errata, difetterebbe totalmente di motivazione in ordine alla responsabilità del C. per il reato di cui all’articolo 57 C.P.

Secondo la tesi difensiva, infatti, la condanna del direttore responsabile di un giornale, come delineata nell’impugnata decisione, deriverebbe tautologicamente dall’enunciazione del capo di imputazione e finirebbe, quindi, per essere automaticamente desunta dall’affermata colpevolezza dell’autore della pubblicazione; mentre sarebbe indiscutibile la natura autonoma del reato proprio previsto dall’articolo 57 C.P., il quale differisce dalla diffamazione a mezzo stampa sia con riferimento alla condotta punibile che all’elemento psicologico.

d) Violazione dell’articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), c.p.p., per erronea applicazione della legge penale con riferimento agli articoli 133, 595 e 57 C.P., e per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla pena inflitta.

Infine, ad avviso del ricorrente, i giudici del merito avrebbero errato a equiparare, ai fini del trattamento sanzionatorio, il fatto commesso da C. a quello dello S.: e ciò in quanto l’autonoma fattispecie di responsabilità colposa del direttore responsabile di un giornale presupporrebbe in ogni caso una diminuzione di pena rispetto a quella applicata per il reato doloso di diffamazione commesso dall’articolista.

Il ricorso venne assegnato alla quinta sezione penale di questa Corte, la quale – con ordinanza del 13 gennaio 2006 – lo rimise alle Sezioni unite, evidenziando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla seguente questione: se l’autenticazione della firma del querelante effettuata dal difensore debba ritenersi valida solo nel caso in cui il difensore sia stato formalmente nominato a norma degli articoli 101, comma 1, e 96, comma 2, c.p.p., ovvero se a tal fine sia sufficiente una nomina tacita.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Come tra breve verrà chiarito, i reati per cui è processo si sono prescritti: ciò tuttavia non esime queste Sezioni unite dal prendere in esame il primo motivo di ricorso, relativo alla validità delle querele proposte dalle persone offese, dal momento che – secondo la costante giurisprudenza di legittimità - il proscioglimento per mancanza di querela è più favorevole della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione (cfr.: Cass. pen., sez. IV, 28 novembre 1986, Eigenmann, RV 175626; Cass. pen., sez. IV, 1 aprile 1985, Censi, RV 168768; Cass. pen., sez. IV, 15 dicembre 1981, Treossi, RV 152036).

2. Procedendo, dunque, all’analisi della prima censura difensiva - con cui il ricorrente ha dedotto che le querele proposte dalle persone offese non sarebbero valide per difetto di autenticazione delle firme dei querelanti - si osserva che effettivamente in ordine a tale questione è insorto un contrasto tra le decisioni delle diverse sezioni di questa Corte.

E infatti, alcune sentenze hanno stabilito che "in tema di querela, affinché si configuri il potere eccezionale di autenticazione previsto in generale dall’articolo 39 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, e in specie, dall’articolo 337, comma 1, c.p.p., è indispensabile la premessa della qualifica di difensore di una parte individuata: tale qualità peraltro non può discendere se non da una investitura, collegata ad adeguata manifestazione di volontà rivestita degli apparenti requisiti formali, onde in nessun caso è configurabile una prova presuntiva dell’incarico desunta da determinati comportamenti" (Cass. pen., sez. VI, 3 ottobre 2003, P.G. in proc. Mignogna, RV 227444: conformi: Cass. pen., sez. V, 21 maggio 1997, De Paolis, RV 208245; Cass. pen., sez. V, 28 settembre 1998, Chiambretti, RV 211517).

Mentre in altre sentenze si è sostenuto che è valida la presentazione di una querela autenticata da un avvocato, seppure questi non risulti in precedenza, ovvero nel contesto dell’atto, nominato difensore di fiducia, a condizione che sia possibile individuare una nomina tacita dello stesso da parte della persona offesa.

Per il vero, all’interno di questo indirizzo giurisprudenziale si distinguono distinti orientamenti: secondo il primo di essi, la nomina tacita può essere desunta dalla semplice autenticazione della firma della persona lesa e dall’attività contestuale alla sottoscrizione dell’atto di querela (cfr. Cass. pen., sez. V, 23 febbraio 1993, PG in proc. Mancini e altro, RV 193686; Cass. pen. sez. V, 9 marzo 1997, Pendinelli, RV 213124; Cass. pen., sez. IV, 23 aprile 2001, Isaia, RV 219213; Cass. pen., sez. V, 14 novembre 2000, Feroleto, RV 219190); secondo altre decisioni, invece, la nomina tacita può essere desunta anche da comportamenti successivi alla presentazione della querela, tra i quali va ricompresa l’attività difensiva della parte svolta nel successivo giudizio (cfr.: Cass. pen., sez. V, 22 ottobre 1997, P.C. in proc. Feltri e altro, RV 208995; Cass. pen., sez. V, 21 aprile 1999, Sgarbi, RV 214648).

3. Al fine di risolvere il contrasto su riferito, sembra opportuno partire dall’analisi delle norme giuridiche che regolamentano le formalità della querela.

La prima disposizione di legge da prendere in esame è quella prevista dall’articolo 337, comma 1, c.p.p., il quale stabilisce che "la dichiarazione di querela è proposta, con le forme previste dall’articolo 333, comma 2, alle autorità alle quali può essere presentata denuncia ovvero a un agente consolare all’estero. Essa, con sottoscrizione autentica, può essere anche recapitata da un incaricato o spedita per posta in piego raccomandato".

Da tale norma si desume che la querela può anche essere "recapitata" ovvero che può essere "spedita", a condizione però che l’atto rechi la "sottoscrizione autentica" del querelante; tale espressione è stata, peraltro, sempre intesa dalla giurisprudenza di legittimità come quella di "sottoscrizione autenticata"; e tale interpretazione è stata confermata dalla Corte costituzionale, la quale ha espressamente affermato che "il recapito della querela mediante una persona incaricata o la spedizione per posta della stessa, in piego raccomandato, rappresentano una novità del codice di rito penale in vigore dal 1989. L’avere il legislatore previsto per tali forme di ‘recapito’ la garanzia della reale volontà del querelante, sotto forma di ‘sottoscrizione autenticata’ - come interpretata dalla Corte di cassazione - non costituisce lesione del diritto di agire in giudizio ai sensi dell’articolo 24, primo comma, né, a fortiori, del principio di obbligatorietà dell’azione penale, contenuto nell’articolo 112 della Costituzione" (Corte costituzionale, sentenza numero 287 del 1995).

Posto, dunque, che la querela può essere recapitata o spedita solo se la firma del querelante è stata autenticata, viene in rilievo l’articolo 39 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, il quale stabilisce che "fermo quanto previsto da speciali disposizioni, l’autenticazione della sottoscrizione di atti per i quali il codice prevede tale formalità può essere effettuata, oltre che dal funzionario di cancelleria, dal notaio, dal difensore, dal sindaco, da un funzionario delegato dal sindaco, dal segretario comunale, dal giudice di pace, dal presidente del consiglio dell’ordine forense o da un consigliere da lui delegato".

Dunque, la firma del querelante può essere autenticata anche dal suo difensore; così che – ai fini della soluzione della questione in esame – è necessario accertare anzitutto quando un avvocato acquista nel processo penale la qualifica di difensore della persona offesa.

E’, peraltro, il codice di rito a regolare espressamente tale ipotesi stabilendo, all’articolo 101, che "la persona offesa dal reato, per l’esercizio dei diritti e delle facoltà ad essa attribuiti, può nominare un difensore nelle forme previste dall’articolo 96 comma 2"; e quest’ultima disposizione di legge a sua volta stabilisce che "la nomina è fatta con dichiarazione resa all’autorità procedente ovvero consegnata alla stessa dal difensore o trasmessa con raccomandata".

4. Ebbene, il primo indirizzo giurisprudenziale su riferito ritiene che la norma da ultimo citata debba essere interpretata in senso strettamente letterale; e partendo da tale premessa, giunge – come si è cennato - alla conclusione che la nomina ha carattere formale e può essere solo espressa; e che in nessun caso è configurabile una prova presuntiva dell’incarico difensivo, desunta da comportamenti che le parti possono avere in concreto tenuto.

Mentre il secondo indirizzo si rifà a quelle decisioni di questa Corte secondo cui è possibile – con riferimento a tutte le parti private del processo - una nomina tacita del difensore, ben potendo l’atto di nomina essere desunto per facta concludentia (cfr.: Cass. pen., sez. I, 13 febbraio 2004, Castellana, RV 228563; Cass. pen., sez. IV, 27 aprile 1999, Tuliozzi e altri, RV 214594; Cass. pen., sez. V, 6 aprile 1998, Cantatore, RV 211493; Cass. pen., sez. V, 17 maggio 1996, Lo Piano, RV 205919; Cass. pen., sez. III, 15 novembre 1995, Masotti, RV 203937); e afferma che, in siffatte ipotesi, l’autenticazione della firma del querelante è validamente compiuta dal legale scelto dalla parte, pur se non è intervenuta una dichiarazione di nomina conforme ai requisiti prescritti dai citati articoli 101 e 96 c.p.p.

5. Sennonché, ad avviso di queste Sezioni unite, entrambe le tesi su esposte non sono condivisibili per le ragioni che saranno di seguito chiarite.

Come si è visto, l’articolo 96, comma 2, c.p.p., stabilisce che la nomina del difensore di fiducia è "fatta con dichiarazione resa all’autorità procedente ovvero consegnata alla stessa dal difensore o trasmessa con raccomandata".

Dunque una "dichiarazione" della parte costituisce – per espresso disposto legislativo – il requisito fondamentale per la validità della nomina del difensore; e tale dichiarazione potrà anche essere orale se resa innanzi all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, che ne cureranno la verbalizzazione; ma deve, per ovvi motivi, essere effettuata per iscritto nelle ipotesi in cui l’atto di nomina sia consegnato o spedito all’autorità che procede.

Essa, però, non necessita di formule sacramentali come quelle richieste dall’articolo 83 c.p.c. per la procura alle liti: e ciò in quanto la disciplina prevista dall’articolo 96 c.p.p. si distingue da quella del codice di procedura civile per una maggiore duttilità, conseguente alle differenze tra i due tipi di processo: è quindi sufficiente – ai fini della validità della nomina del difensore del querelante – che quest’ultimo abbia chiaramente manifestato, con una sua dichiarazione, la volontà di essere assistito da un determinato avvocato.

E sarà compito del giudice del merito stabilire, di volta in volta, se le espressioni utilizzate dalla persona offesa nell’atto di querela sono sufficienti a dimostrare la sua volontà di nominare quale difensore di fiducia il legale che ha effettuato l’autenticazione della sua sottoscrizione: ovviamente, di tale suo convincimento il giudice dovrà fornire adeguata motivazione, esente da vizi logici.

6. Si deve però evidenziare che – secondo queste Sezioni unite - la nomina del difensore non può essere desunta dalla sola circostanza che il legale abbia autenticato la firma del querelante: tale semplice atto è, infatti, ambiguo e quindi di per sé inidoneo a dimostrare che le persona offesa intendeva nominare quale suo difensore di fiducia proprio l’avvocato che lo ha compiuto.

Occorre, dunque, che la parte lesa abbia reso nella querela altre dichiarazioni, dalle quali potere ricavare la sua volontà di essere assistita dal legale che ha autenticato la firma; né queste dichiarazioni possono essere sostituite dai così detti "fatti concludenti" posteriori alla presentazione della querela stessa, quali ad esempio la circostanza che l’avvocato abbia effettivamente assunto il ruolo di difensore nel corso del successivo giudizio.

E infatti, se al momento dell’autenticazione della firma del querelante mancava la dichiarazione di nomina del difensore, la querela recapitata da un incaricato o spedita per posta è invalida; e la successiva attività materiale compiuta dalle parti non può in alcun caso avere un effetto di sanatoria o di ratifica di quell’atto, né dell’attività di certificazione posta in essere da chi era carente del relativo potere.

Quando invece nella querela sono contenute altre dichiarazioni della persona offesa, dalle quali può ragionevolmente desumersi che quest’ultima intendeva nominare quale difensore il legale che ha effettuato l’autenticazione della firma, allora - per le ragioni prima esposte – tale autenticazione è perfettamente valida; e conseguentemente anche la querela è idonea a dispiegare tutti i suoi effetti.

7. Quanto sopra premesso, si osserva che i giudici della Corte territoriale hanno evidenziato che la F. e Cennamo V., dopo avere sottoscritto le rispettive dichiarazioni di querela, hanno chiesto all’avvocato Diomede Castaldo di autenticare le loro firme e di recapitare i due atti negli uffici della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma; gli stessi giudici, inoltre, hanno messo in rilievo che le due persone offese hanno, negli stessi atti di querela, eletto domicilio presso lo studio del legale al quale avevano conferito gli incarichi su indicati.

Ebbene l’elezione di domicilio presso lo studio dell’avvocato Castaldo costituisce certamente una "dichiarazione", la cui portata – unita a quella delle altre citate manifestazioni di volontà dei querelanti – è tale da dimostrare chiaramente che costoro volevano essere difesi nel presente processo proprio da quel legale; e costituisce, perciò, valida nomina del difensore di fiducia, ai sensi degli articoli 101 e 96, comma 2, c.p.p.

L’autenticazione delle sottoscrizioni dei querelanti operata dal suddetto avvocato, in base ai principi prima esposti, deve quindi ritenersi del tutto legittima, con conseguente piena validità delle querele proposte dalla F. e dal Cennamo.

Per questi motivi la censura di che trattasi non può trovare accoglimento.

Concludendo l’esame della doglianza, si deve enunciare il seguente principio di diritto: "l’autenticazione della firma del querelante effettuata da un avvocato deve ritenersi valida solo nel caso in cui questi sia stato nominato difensore della persona offesa, a norma degli articoli 101, comma 1, e 96, comma 2, c.p.p.; ma la dichiarazione di nomina non necessita di formule sacramentali e può essere ravvisata in altre dichiarazioni rese dalle parti nell’atto di querela, quali l’elezione di domicilio presso il difensore che ha autenticato la sottoscrizione".

8. Risolta la questione oggetto del contrasto di giurisprudenza, si osserva che i reati attribuiti ai due imputati sono estinti per prescrizione.

I reati di cui agli articoli 595 e 57 C.P. per cui è processo furono, infatti, commessi il 3 agosto 1998; e poiché sono state concesse sia allo S. che al C. le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate, la pena applicabile nel caso concreto è inferiore ai cinque anni di reclusione (cfr. Cass. pen., sez. V, 19 ottobre 1989, Restali, RV 183032; conforme: RV 168658); perciò il termine massimo di prescrizione di sette anni e sei mesi, previsto dagli articoli 157 e seguenti C.P. per i suddetti delitti, è ormai scaduto, malgrado sia intervenuta una sospensione di quattro mesi, conseguente a una richiesta di rinvio dell’udienza effettuata del difensore degli imputati.

9. A questo punto, si osserva che nei confronti sia dello S. che del C. era stata pronunciata dai giudici del merito condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile, F. G.: pertanto questa Corte, nel dichiarare i reati estinti per prescrizione, deve – ai sensi dell’articolo 578 c.p.p. – comunque decidere sugli altri motivi di ricorso, ai soli effetti delle statuizioni della sentenza impugnata che regolano gli interessi civili.

A tal fine va rilevato che le censure riportate nel secondo motivo di impugnazione, e relative all’affermazione della responsabilità penale dello S., sono infondate.

E’, infatti, pacifico che la valutazione del contenuto diffamatorio di un documento rientra nel potere del giudice di merito ed è incensurabile in cassazione, se congruamente motivata.

Ora, nella fattispecie, i giudici della Corte di appello e quelli del Tribunale di Roma hanno concordemente evidenziato che non risultava rispettato, nell’articolo scritto dallo S., il requisito della verità dei fatti, risultando dalle dichiarazioni della F. che costei non aveva esercitato la prostituzione né a Mazara del Vallo, né a Roma, e che non aveva assunto la qualità di "pentita", dal momento che non era mai stata dedita ad attività criminali.

Gli stessi giudici hanno, poi, chiarito che gli imputati non hanno fornito elementi a sostegno della veridicità delle asserzioni contenute nell’articolo, anche con riferimento alla attività svolta a Trastevere dal club "D.", di cui la F. era la fondatrice, non essendo stato accertato che in quel luogo si esercitasse la prostituzione.

I giudici della Corte territoriale hanno, inoltre, preso in esame tutte le censure difensive contenute nell’atto di impugnazione, confutandole e giungendo alla conclusione che lo scritto dallo S. "espone la F. alla curiosità e al dispregio dei lettori senza alcuna possibilità di applicazione delle norme scriminanti in favore degli imputati".

E poiché non è dato ravvisare nelle su indicate argomentazioni alcuna manifesta illogicità, ne deriva che la decisione impugnata regge alle doglianze difensive, sia pure ai soli fini della conferma delle disposizioni che concernono gli interessi civili.

10. Anche la censura di cui al terzo motivo di ricorso - relativa a una pretesa mancanza di motivazione della sentenza di secondo grado in ordine all’affermazione di responsabilità del C. per il reato punito dall’articolo 57 C.P. - è destituita di fondamento.

Con la suddetta doglianza il ricorrente ha, infatti, riproposto le stesse critiche – tutto sommato ai limiti della genericità – che aveva formulato con l’atto di appello, e alle quali i giudici del secondo grado avevano risposto evidenziando che il C. aveva omesso di esercitare il controllo su un articolo che, proprio per la sua forma e contenuto, non poteva sfuggire all’attenzione del direttore responsabile.

Né, d’altro canto, il ricorrente ha indicato nei motivi di appello o nei motivi di ricorso per quali ragioni dovrebbe, nella fattispecie, mancare l’imputabilità psicologica del fatto; né ha mai eccepito che il reato era stato da lui commesso per forza maggiore, caso fortuito, costringimento fisico, errore invincibile o per altra causa atta ad eliminare la sua responsabilità colposa per omesso impedimento dell’evento.

11. Infine, si osserva che l’ultimo motivo di ricorso, concernente la misura della pena inflitta al C., è assorbito dalla dichiarazione di estinzione del reato previsto dall’articolo 57 C.P.

12. Alla stregua delle superiori considerazioni la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché estinti i reati rispettivamente attribuiti allo S. e al C. per intervenuta prescrizione; i ricorsi devono, invece, essere rigettati agli effetti civili.

PER QUESTI MOTIVI

Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza nei confronti di entrambi gli imputati per essere estinti i reati per prescrizione. Rigetta i ricorsi agli effetti civili.

Così deciso in Roma il 11 luglio 2006.

Depositata in Cancelleria il 28 luglio 2006. 

 


© asaps.it
Mercoledì, 20 Settembre 2006
stampa
Condividi


Area Riservata


Attenzione!
Stai per cancellarti dalla newsletter. Vuoi proseguire?

Iscriviti alla Newsletter
SOCIAL NETWORK