L’autenticazione
della firma del querelante effettuata da un avvocato deve ritenersi valida solo
nel caso in cui questi sia stato nominato difensore della persona offesa, a
norma degli articoli 101, comma 1, e 96, comma 2, c.p.p.; ma la dichiarazione
di nomina non necessita di formule sacramentali e può essere ravvisata in altre
dichiarazioni rese nell’atto di querela, dalle quali potere ricavare la sua
volontà di essere assistita dal legale che ha autenticato la firma.
Lo
hanno stabilito le Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione, con la
sentenza n. 26549 dell’11 luglio 2006, precisando che sarà compito del giudice
del merito stabilire, di volta in volta, se le espressioni utilizzate dalla
persona offesa nell’atto di querela sono sufficienti a dimostrare la sua
volontà di nominare quale difensore di fiducia il legale che ha effettuato
l’autenticazione della sua sottoscrizione
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Sentenza 11 luglio 2006 - 28 luglio 2006, n. 26549
(Presidente N.
Marvulli, Relatore P. A. Sirena)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con
sentenza del 7 giugno 2001, il Tribunale di Roma dichiarò S. M. responsabile
del reato previsto dagli articoli 595 C.P., 13 e 21 della legge 8 febbraio
1948, numero 47, per avere redatto e pubblicato sul quotidiano "Il
Giornale" del 3 agosto 1998 un articolo intitolato "Collaboratori con
licenza di delinquere da Di Maggio a Contorno e Galasso: la protezione statale
comodo paravento per azioni illecite", il cui contenuto venne ritenuto
offensivo della reputazione della collaboratrice di giustizia F. G. e
dell’associazione "D.", presentata come un sex club gestito in
Trastevere dalla stessa F..
Con la stessa sentenza il Tribunale di Roma dichiarò, inoltre, C. M. V.
responsabile del delitto previsto dall’articolo 57 C.P. per avere, quale
direttore responsabile del quotidiano anzidetto, omesso il controllo necessario
al fine di impedire che, con l’articolo dello S., venisse offesa, anche
mediante fatti determinati, la reputazione della persona offesa.
I due imputati furono, perciò, condannati – previa concessione delle
circostanze attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate - alla
pena di lire 1.000.000 di multa ciascuno, e in solido al risarcimento dei
danni, da liquidarsi in separata sede, in favore della parte civile costituita.
Avverso tale decisione proposero impugnazione sia lo S. che il C., ma la Corte
di appello di Roma, con sentenza del 4 giugno 2004, confermò la decisione del
Tribunale.
Ha proposto ricorso per cassazione il difensore dei due imputati, deducendo:
a) violazione dell’articolo 606, comma 1, lettera c), c.p.p., per erronea
applicazione di norme processuali, con riferimento agli articoli 337, 129, 101,
96 dello stesso codice e 39 delle sue disposizioni di attuazione.
Il ricorrente sostiene che i giudici della Corte di appello di Roma avrebbero
errato ad attribuire validità ed efficacia alle querele in atti, fondando la
propria argomentazione sulla pretesa sussistenza e ammissibilità di una nomina
tacita del difensore delle persone offese in favore del professionista che ebbe
a sottoscrivere "per autentica" tali atti, successivamente dallo stesso
depositati.
Infatti, secondo la tesi difensiva, un avvocato può esercitare il potere di
autenticazione della sottoscrizione della persona offesa soltanto se ha
formalmente assunto la qualifica di difensore della stessa; e però, tale
qualifica conseguirebbe solo a seguito di nomina ai sensi del combinato
disposto degli articoli 101 e 96 c.p.p., e cioè con formale atto depositato
all’autorità procedente o contenuto nel corpo della querela.
b) Violazione dell’articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), c.p.p., per erronea
applicazione della legge penale con riferimento agli articoli 595, 51 C.P. e 21
della Costituzione, e per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in
ordine alla sussistenza del delitto di diffamazione.
Ad avviso del ricorrente, sarebbe erroneo l’assunto dei giudici della Corte
territoriale, secondo cui dovrebbe "convenirsi con il primo giudice
nell’escludere le condizioni per l’operatività dell’esimente del diritto di
cronaca o di critica, ostando in particolare il mancato rispetto del limite
della verità della notizia".
Tale tesi sarebbe errata perché, secondo la giurisprudenza di legittimità,
l’esercizio del diritto di critica incontra i limiti della rilevanza sociale
dell’argomento e della correttezza delle espressioni utilizzate, presupponendo
una preesistente notizia, della quale il giornalista sarebbe tenuto a
verificare solo il "nucleo fondamentale"; così che, sussistendo tale
nucleo (e cioè, nella fattispecie, l’impiego del sussidio statale da parte
della querelante per l’apertura di un locale, poi oggetto di una indagine per
sfruttamento della prostituzione), "eventuali inesattezze dei fatti
riferiti in un contesto di critica o di satira diventerebbero irrilevanti ove,
come in questo caso, non assumessero un particolare valore informativo".
Inoltre, sempre secondo il ricorrente, la sentenza impugnata sarebbe pure
contraddittoria nella parte in cui – dopo avere circoscritto le ragioni della
condanna nel mancato rispetto della verità della notizia – ha analizzato la
portata delle espressioni "pentita" e "sfacciata",
affermando che in ogni caso le stesse non sarebbero continenti rispetto al
concetto, sia pure critico, da esprimere; e sarebbe, altresì, manifestamente
illogica nella parte in cui ha dissertato sulle differenze tra i termini
"pentita" e "collaboratore di giustizia", quali recepiti
dall’uomo comune.
c) Violazione dell’articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), c.p.p. per erronea
applicazione della legge penale, con riferimento all’articolo 57 C.P., e per
mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell’omesso controllo.
Il ricorrente assume che la sentenza impugnata, oltre ad essere errata,
difetterebbe totalmente di motivazione in ordine alla responsabilità del C. per
il reato di cui all’articolo 57 C.P.
Secondo la tesi difensiva, infatti, la condanna del direttore responsabile di
un giornale, come delineata nell’impugnata decisione, deriverebbe
tautologicamente dall’enunciazione del capo di imputazione e finirebbe, quindi,
per essere automaticamente desunta dall’affermata colpevolezza dell’autore
della pubblicazione; mentre sarebbe indiscutibile la natura autonoma del reato
proprio previsto dall’articolo 57 C.P., il quale differisce dalla diffamazione
a mezzo stampa sia con riferimento alla condotta punibile che all’elemento
psicologico.
d) Violazione dell’articolo 606, comma 1, lettere b) ed e), c.p.p., per erronea
applicazione della legge penale con riferimento agli articoli 133, 595 e 57
C.P., e per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla
pena inflitta.
Infine, ad avviso del ricorrente, i giudici del merito avrebbero errato a
equiparare, ai fini del trattamento sanzionatorio, il fatto commesso da C. a
quello dello S.: e ciò in quanto l’autonoma fattispecie di responsabilità
colposa del direttore responsabile di un giornale presupporrebbe in ogni caso
una diminuzione di pena rispetto a quella applicata per il reato doloso di
diffamazione commesso dall’articolista.
Il ricorso venne assegnato alla quinta sezione penale di questa Corte, la quale
– con ordinanza del 13 gennaio 2006 – lo rimise alle Sezioni unite,
evidenziando un contrasto nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla
seguente questione: se l’autenticazione della firma del querelante effettuata
dal difensore debba ritenersi valida solo nel caso in cui il difensore sia
stato formalmente nominato a norma degli articoli 101, comma 1, e 96, comma 2,
c.p.p., ovvero se a tal fine sia sufficiente una nomina tacita.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.
Come tra breve verrà chiarito, i reati per cui è processo si sono prescritti:
ciò tuttavia non esime queste Sezioni unite dal prendere in esame il primo
motivo di ricorso, relativo alla validità delle querele proposte dalle persone
offese, dal momento che – secondo la costante giurisprudenza di legittimità -
il proscioglimento per mancanza di querela è più favorevole della declaratoria
di estinzione del reato per prescrizione (cfr.: Cass. pen., sez. IV, 28
novembre 1986, Eigenmann, RV 175626; Cass. pen., sez. IV, 1 aprile 1985, Censi,
RV 168768; Cass. pen., sez. IV, 15 dicembre 1981, Treossi, RV 152036).
2. Procedendo, dunque, all’analisi della prima censura difensiva - con cui il
ricorrente ha dedotto che le querele proposte dalle persone offese non
sarebbero valide per difetto di autenticazione delle firme dei querelanti - si
osserva che effettivamente in ordine a tale questione è insorto un contrasto
tra le decisioni delle diverse sezioni di questa Corte.
E infatti, alcune sentenze hanno stabilito che "in tema di querela, affinché
si configuri il potere eccezionale di autenticazione previsto in generale
dall’articolo 39 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura
penale, e in specie, dall’articolo 337, comma 1, c.p.p., è indispensabile la
premessa della qualifica di difensore di una parte individuata: tale qualità
peraltro non può discendere se non da una investitura, collegata ad adeguata
manifestazione di volontà rivestita degli apparenti requisiti formali, onde in
nessun caso è configurabile una prova presuntiva dell’incarico desunta da
determinati comportamenti" (Cass. pen., sez. VI, 3 ottobre 2003, P.G. in
proc. Mignogna, RV 227444: conformi: Cass. pen., sez. V, 21 maggio 1997, De
Paolis, RV 208245; Cass. pen., sez. V, 28 settembre 1998, Chiambretti, RV 211517).
Mentre in altre sentenze si è sostenuto che è valida la presentazione di una
querela autenticata da un avvocato, seppure questi non risulti in precedenza,
ovvero nel contesto dell’atto, nominato difensore di fiducia, a condizione che
sia possibile individuare una nomina tacita dello stesso da parte della persona
offesa.
Per il vero, all’interno di questo indirizzo giurisprudenziale si distinguono
distinti orientamenti: secondo il primo di essi, la nomina tacita può essere
desunta dalla semplice autenticazione della firma della persona lesa e
dall’attività contestuale alla sottoscrizione dell’atto di querela (cfr. Cass.
pen., sez. V, 23 febbraio 1993, PG in proc. Mancini e altro, RV 193686; Cass.
pen. sez. V, 9 marzo 1997, Pendinelli, RV 213124; Cass. pen., sez. IV, 23
aprile 2001, Isaia, RV 219213; Cass. pen., sez. V, 14 novembre 2000, Feroleto,
RV 219190); secondo altre decisioni, invece, la nomina tacita può essere
desunta anche da comportamenti successivi alla presentazione della querela, tra
i quali va ricompresa l’attività difensiva della parte svolta nel successivo
giudizio (cfr.: Cass. pen., sez. V, 22 ottobre 1997, P.C. in proc. Feltri e
altro, RV 208995; Cass. pen., sez. V, 21 aprile 1999, Sgarbi, RV 214648).
3. Al fine di risolvere il contrasto su riferito, sembra opportuno partire
dall’analisi delle norme giuridiche che regolamentano le formalità della
querela.
La prima disposizione di legge da prendere in esame è quella prevista
dall’articolo 337, comma 1, c.p.p., il quale stabilisce che "la
dichiarazione di querela è proposta, con le forme previste dall’articolo 333,
comma 2, alle autorità alle quali può essere presentata denuncia ovvero a un
agente consolare all’estero. Essa, con sottoscrizione autentica, può essere
anche recapitata da un incaricato o spedita per posta in piego
raccomandato".
Da tale norma si desume che la querela può anche essere "recapitata"
ovvero che può essere "spedita", a condizione però che l’atto rechi
la "sottoscrizione autentica" del querelante; tale espressione è
stata, peraltro, sempre intesa dalla giurisprudenza di legittimità come quella
di "sottoscrizione autenticata"; e tale interpretazione è stata
confermata dalla Corte costituzionale, la quale ha espressamente affermato che
"il recapito della querela mediante una persona incaricata o la spedizione
per posta della stessa, in piego raccomandato, rappresentano una novità del
codice di rito penale in vigore dal 1989. L’avere il legislatore previsto per
tali forme di ‘recapito’ la garanzia della reale volontà del querelante, sotto
forma di ‘sottoscrizione autenticata’ - come interpretata dalla Corte di
cassazione - non costituisce lesione del diritto di agire in giudizio ai sensi
dell’articolo 24, primo comma, né, a fortiori, del principio di obbligatorietà
dell’azione penale, contenuto nell’articolo 112 della Costituzione" (Corte
costituzionale, sentenza numero 287 del 1995).
Posto, dunque, che la querela può essere recapitata o spedita solo se la firma
del querelante è stata autenticata, viene in rilievo l’articolo 39 delle
disposizioni di attuazione del codice di procedura penale, il quale stabilisce
che "fermo quanto previsto da speciali disposizioni, l’autenticazione
della sottoscrizione di atti per i quali il codice prevede tale formalità può
essere effettuata, oltre che dal funzionario di cancelleria, dal notaio, dal
difensore, dal sindaco, da un funzionario delegato dal sindaco, dal segretario
comunale, dal giudice di pace, dal presidente del consiglio dell’ordine forense
o da un consigliere da lui delegato".
Dunque, la firma del querelante può essere autenticata anche dal suo difensore;
così che – ai fini della soluzione della questione in esame – è necessario
accertare anzitutto quando un avvocato acquista nel processo penale la
qualifica di difensore della persona offesa.
E’, peraltro, il codice di rito a regolare espressamente tale ipotesi
stabilendo, all’articolo 101, che "la persona offesa dal reato, per
l’esercizio dei diritti e delle facoltà ad essa attribuiti, può nominare un
difensore nelle forme previste dall’articolo 96 comma 2"; e quest’ultima
disposizione di legge a sua volta stabilisce che "la nomina è fatta con
dichiarazione resa all’autorità procedente ovvero consegnata alla stessa dal
difensore o trasmessa con raccomandata".
4. Ebbene, il primo indirizzo giurisprudenziale su riferito ritiene che la
norma da ultimo citata debba essere interpretata in senso strettamente
letterale; e partendo da tale premessa, giunge – come si è cennato - alla
conclusione che la nomina ha carattere formale e può essere solo espressa; e
che in nessun caso è configurabile una prova presuntiva dell’incarico
difensivo, desunta da comportamenti che le parti possono avere in concreto
tenuto.
Mentre il secondo indirizzo si rifà a quelle decisioni di questa Corte secondo
cui è possibile – con riferimento a tutte le parti private del processo - una
nomina tacita del difensore, ben potendo l’atto di nomina essere desunto per
facta concludentia (cfr.: Cass. pen., sez. I, 13 febbraio 2004, Castellana, RV
228563; Cass. pen., sez. IV, 27 aprile 1999, Tuliozzi e altri, RV 214594; Cass.
pen., sez. V, 6 aprile 1998, Cantatore, RV 211493; Cass. pen., sez. V, 17
maggio 1996, Lo Piano, RV 205919; Cass. pen., sez. III, 15 novembre 1995,
Masotti, RV 203937); e afferma che, in siffatte ipotesi, l’autenticazione della
firma del querelante è validamente compiuta dal legale scelto dalla parte, pur
se non è intervenuta una dichiarazione di nomina conforme ai requisiti
prescritti dai citati articoli 101 e 96 c.p.p.
5. Sennonché, ad avviso di queste Sezioni unite, entrambe le tesi su esposte
non sono condivisibili per le ragioni che saranno di seguito chiarite.
Come si è visto, l’articolo 96, comma 2, c.p.p., stabilisce che la nomina del
difensore di fiducia è "fatta con dichiarazione resa all’autorità
procedente ovvero consegnata alla stessa dal difensore o trasmessa con
raccomandata".
Dunque una "dichiarazione" della parte costituisce – per espresso
disposto legislativo – il requisito fondamentale per la validità della nomina
del difensore; e tale dichiarazione potrà anche essere orale se resa innanzi
all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, che ne cureranno la
verbalizzazione; ma deve, per ovvi motivi, essere effettuata per iscritto nelle
ipotesi in cui l’atto di nomina sia consegnato o spedito all’autorità che
procede.
Essa, però, non necessita di formule sacramentali come quelle richieste
dall’articolo 83 c.p.c. per la procura alle liti: e ciò in quanto la disciplina
prevista dall’articolo 96 c.p.p. si distingue da quella del codice di procedura
civile per una maggiore duttilità, conseguente alle differenze tra i due tipi
di processo: è quindi sufficiente – ai fini della validità della nomina del
difensore del querelante – che quest’ultimo abbia chiaramente manifestato, con
una sua dichiarazione, la volontà di essere assistito da un determinato
avvocato.
E sarà compito del giudice del merito stabilire, di volta in volta, se le
espressioni utilizzate dalla persona offesa nell’atto di querela sono
sufficienti a dimostrare la sua volontà di nominare quale difensore di fiducia
il legale che ha effettuato l’autenticazione della sua sottoscrizione:
ovviamente, di tale suo convincimento il giudice dovrà fornire adeguata
motivazione, esente da vizi logici.
6. Si deve però evidenziare che – secondo queste Sezioni unite - la nomina del
difensore non può essere desunta dalla sola circostanza che il legale abbia
autenticato la firma del querelante: tale semplice atto è, infatti, ambiguo e
quindi di per sé inidoneo a dimostrare che le persona offesa intendeva nominare
quale suo difensore di fiducia proprio l’avvocato che lo ha compiuto.
Occorre, dunque, che la parte lesa abbia reso nella querela altre
dichiarazioni, dalle quali potere ricavare la sua volontà di essere assistita
dal legale che ha autenticato la firma; né queste dichiarazioni possono essere
sostituite dai così detti "fatti concludenti" posteriori alla
presentazione della querela stessa, quali ad esempio la circostanza che
l’avvocato abbia effettivamente assunto il ruolo di difensore nel corso del
successivo giudizio.
E infatti, se al momento dell’autenticazione della firma del querelante mancava
la dichiarazione di nomina del difensore, la querela recapitata da un
incaricato o spedita per posta è invalida; e la successiva attività materiale
compiuta dalle parti non può in alcun caso avere un effetto di sanatoria o di
ratifica di quell’atto, né dell’attività di certificazione posta in essere da
chi era carente del relativo potere.
Quando invece nella querela sono contenute altre dichiarazioni della persona
offesa, dalle quali può ragionevolmente desumersi che quest’ultima intendeva
nominare quale difensore il legale che ha effettuato l’autenticazione della
firma, allora - per le ragioni prima esposte – tale autenticazione è
perfettamente valida; e conseguentemente anche la querela è idonea a dispiegare
tutti i suoi effetti.
7. Quanto sopra premesso, si osserva che i giudici della Corte territoriale
hanno evidenziato che la F. e Cennamo V., dopo avere sottoscritto le rispettive
dichiarazioni di querela, hanno chiesto all’avvocato Diomede Castaldo di
autenticare le loro firme e di recapitare i due atti negli uffici della Procura
della Repubblica presso il Tribunale di Roma; gli stessi giudici, inoltre,
hanno messo in rilievo che le due persone offese hanno, negli stessi atti di
querela, eletto domicilio presso lo studio del legale al quale avevano
conferito gli incarichi su indicati.
Ebbene l’elezione di domicilio presso lo studio dell’avvocato Castaldo
costituisce certamente una "dichiarazione", la cui portata – unita a
quella delle altre citate manifestazioni di volontà dei querelanti – è tale da
dimostrare chiaramente che costoro volevano essere difesi nel presente processo
proprio da quel legale; e costituisce, perciò, valida nomina del difensore di
fiducia, ai sensi degli articoli 101 e 96, comma 2, c.p.p.
L’autenticazione delle sottoscrizioni dei querelanti operata dal suddetto
avvocato, in base ai principi prima esposti, deve quindi ritenersi del tutto
legittima, con conseguente piena validità delle querele proposte dalla F. e dal
Cennamo.
Per questi motivi la censura di che trattasi non può trovare accoglimento.
Concludendo l’esame della doglianza, si deve enunciare il seguente principio di
diritto: "l’autenticazione della firma del querelante effettuata da un
avvocato deve ritenersi valida solo nel caso in cui questi sia stato nominato
difensore della persona offesa, a norma degli articoli 101, comma 1, e 96,
comma 2, c.p.p.; ma la dichiarazione di nomina non necessita di formule
sacramentali e può essere ravvisata in altre dichiarazioni rese dalle parti
nell’atto di querela, quali l’elezione di domicilio presso il difensore che ha
autenticato la sottoscrizione".
8. Risolta la questione oggetto del contrasto di giurisprudenza, si osserva che
i reati attribuiti ai due imputati sono estinti per prescrizione.
I reati di cui agli articoli 595 e 57 C.P. per cui è processo furono, infatti,
commessi il 3 agosto 1998; e poiché sono state concesse sia allo S. che al C.
le attenuanti generiche prevalenti sulle aggravanti contestate, la pena
applicabile nel caso concreto è inferiore ai cinque anni di reclusione (cfr.
Cass. pen., sez. V, 19 ottobre 1989, Restali, RV 183032; conforme: RV 168658);
perciò il termine massimo di prescrizione di sette anni e sei mesi, previsto
dagli articoli 157 e seguenti C.P. per i suddetti delitti, è ormai scaduto,
malgrado sia intervenuta una sospensione di quattro mesi, conseguente a una
richiesta di rinvio dell’udienza effettuata del difensore degli imputati.
9. A questo punto, si osserva che nei confronti sia dello S. che del C. era
stata pronunciata dai giudici del merito condanna al risarcimento dei danni in
favore della parte civile, F. G.: pertanto questa Corte, nel dichiarare i reati
estinti per prescrizione, deve – ai sensi dell’articolo 578 c.p.p. – comunque
decidere sugli altri motivi di ricorso, ai soli effetti delle statuizioni della
sentenza impugnata che regolano gli interessi civili.
A tal fine va rilevato che le censure riportate nel secondo motivo di
impugnazione, e relative all’affermazione della responsabilità penale dello S.,
sono infondate.
E’, infatti, pacifico che la valutazione del contenuto diffamatorio di un
documento rientra nel potere del giudice di merito ed è incensurabile in
cassazione, se congruamente motivata.
Ora, nella fattispecie, i giudici della Corte di appello e quelli del Tribunale
di Roma hanno concordemente evidenziato che non risultava rispettato,
nell’articolo scritto dallo S., il requisito della verità dei fatti, risultando
dalle dichiarazioni della F. che costei non aveva esercitato la prostituzione
né a Mazara del Vallo, né a Roma, e che non aveva assunto la qualità di
"pentita", dal momento che non era mai stata dedita ad attività criminali.
Gli stessi giudici hanno, poi, chiarito che gli imputati non hanno fornito
elementi a sostegno della veridicità delle asserzioni contenute nell’articolo,
anche con riferimento alla attività svolta a Trastevere dal club
"D.", di cui la F. era la fondatrice, non essendo stato accertato che
in quel luogo si esercitasse la prostituzione.
I giudici della Corte territoriale hanno, inoltre, preso in esame tutte le
censure difensive contenute nell’atto di impugnazione, confutandole e giungendo
alla conclusione che lo scritto dallo S. "espone la F. alla curiosità e al
dispregio dei lettori senza alcuna possibilità di applicazione delle norme
scriminanti in favore degli imputati".
E poiché non è dato ravvisare nelle su indicate argomentazioni alcuna manifesta
illogicità, ne deriva che la decisione impugnata regge alle doglianze
difensive, sia pure ai soli fini della conferma delle disposizioni che
concernono gli interessi civili.
10. Anche la censura di cui al terzo motivo di ricorso - relativa a una pretesa
mancanza di motivazione della sentenza di secondo grado in ordine
all’affermazione di responsabilità del C. per il reato punito dall’articolo 57
C.P. - è destituita di fondamento.
Con la suddetta doglianza il ricorrente ha, infatti, riproposto le stesse
critiche – tutto sommato ai limiti della genericità – che aveva formulato con
l’atto di appello, e alle quali i giudici del secondo grado avevano risposto
evidenziando che il C. aveva omesso di esercitare il controllo su un articolo
che, proprio per la sua forma e contenuto, non poteva sfuggire all’attenzione
del direttore responsabile.
Né, d’altro canto, il ricorrente ha indicato nei motivi di appello o nei motivi
di ricorso per quali ragioni dovrebbe, nella fattispecie, mancare
l’imputabilità psicologica del fatto; né ha mai eccepito che il reato era stato
da lui commesso per forza maggiore, caso fortuito, costringimento fisico,
errore invincibile o per altra causa atta ad eliminare la sua responsabilità
colposa per omesso impedimento dell’evento.
11. Infine, si osserva che l’ultimo motivo di ricorso, concernente la misura
della pena inflitta al C., è assorbito dalla dichiarazione di estinzione del
reato previsto dall’articolo 57 C.P.
12. Alla stregua delle superiori considerazioni la sentenza impugnata deve
essere annullata senza rinvio perché estinti i reati rispettivamente attribuiti
allo S. e al C. per intervenuta prescrizione; i ricorsi devono, invece, essere
rigettati agli effetti civili.
PER QUESTI MOTIVI
Annulla senza rinvio l’impugnata sentenza nei confronti di entrambi
gli imputati per essere estinti i reati per prescrizione. Rigetta i ricorsi
agli effetti civili.
Così
deciso in Roma il 11 luglio 2006.
Depositata
in Cancelleria il 28 luglio 2006.
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