Quando il titolare
di un’emittente radiofonica o televisiva è tenuto a munirsi della licenza di
pubblica sicurezza, richiesta dal testo unico per l’apertura di agenzie di
affari?
Con la sentenza n. 18619 del 28 agosto 2006 la Cassazione precisa che l’obbligo
scatta non quando il titolare dell’emittente si limiti a diffondere messaggi
pubblicitari su richiesta di soggetti che all’emittente direttamente si
rivolgono, ma unicamente quando si presti a fungere da intermediario tra
l’offerente del bene o del servizio ed i singoli ascoltatori o spettatori
interessati.
Tale ipotesi si verifica, oltre che nel caso delle aste televisive – oggi
espressamente vietate dall’art. 18, quinto comma, d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114
–, anche in quello in cui agli ascoltatori o presentatori venga proposto di
prendere direttamente contatto con gli uffici dell’emittente al fine di
concludere contratti di acquisto dei beni o servizi reclamizzati.
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE I CIVILE
Sentenza del 28 agosto 2006, n.
18619
(Presidente G. Cappuccio,
Relatore V. Napoleoni)
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ordinanza-ingiunzione del 22 ottobre 1998 il
Prefetto della Provincia di Terni ingiungeva alla Sig.ra L. L. - nella sua
qualità di presidente e legale rappresentante della Società cooperativa a
responsabilità limitata GRS., gestore dell’omonima emittente radiofonica - il
pagamento della somma di lire 1.000.000, a titolo di sanzione per la violazione
dell’art. 115 del r.d. 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di
pubblica sicurezza), in relazione all’art. 205 del r.d. 6 maggio 1940, n. 635
(Regolamento per l’esecuzione del testo unico delle leggi di pubblica
sicurezza) — violazione sanzionata dall’art. 17-bis, primo comma, t.u.l.p.s. —
per avere esercitato una agenzia di affari finalizzata alla vendita diretta di
spazi pubblicitari, da mandare in onda sulla predetta emittente radiofonica,
senza la prescritta licenza di pubblica sicurezza.
Avverso l’ordinanza-ingiunzione la L. proponeva opposizione al Tribunale di
Terni, lamentando l’errata applicazione dei citati artt. 115 t.u.l.p.s. e 205
reg. t.u.l.p.s., posto che, alla luce di tali disposizioni, per agenzie di
affari debbono intendersi unicamente quelle imprese che si offrono come
intermediarie nell’assunzione o nella trattazione di affari altrui: ipotesi,
questa, non ravvisabile nella specie, giacché la Società cooperativa GRS. si
limitava a concludere contratti con i soggetti che ad essa direttamente si
rivolgevano per la radiodiffusione di messaggi pubblicitari, senza svolgere
alcuna attività di intermediazione nella trattazione di affari altrui.
L’opposizione veniva rigettata dal Tribunale con sentenza del 12 febbraio 2001.
In adesione ad un orientamento già espresso dalle Sezioni penali di questa Corte,
il Tribunale riteneva che l’informazione pubblicitaria — avendo lo scopo,
remunerato, di stimolare il commercio, col porre in relazione l’acquirente del
bene o del servizio con il venditore - integri quell’intermediazione che
latamente è prevista dalla norma in discussione. Ai fini dell’insorgenza
dell’obbligo di munirsi di licenza, da essa stabilito, sarebbero sufficienti
un’organizzazione, un’offerta di servizi ed il contatto con il pubblico:
rimanendo eccettuato soltanto il caso — non ricorrente nell’ipotesi di specie
— in cui l’attività in questione sia svolta su richiesta di appositi uffici
pubblicitari, trattandosi allora di attività esecutiva di altra (in tesi)
debitamente autorizzata.
Per la cassazione della sentenza propone ricorso la L. sulla base di un unico
motivo.
L’intimato Ufficio territoriale del Governo di Terni non ha svolto attività
difensiva.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. — Con l’unico motivo la ricorrente denuncia violazione
e falsa applicazione degli artt. 115 e 205 t.u.l.p.s. - recte: dell’art. 115
t.u.l.p.s. e dell’art. 205 reg. t.u.l.p.s. — in relazione all’art. 360, n. 3,
cod. proc. civ., censurando che la sentenza impugnata, nel respingere
l’opposizione col richiamo ad un risalente indirizzo giurisprudenziale — da
ritenere peraltro minoritario - abbia omesso di considerare l’espressa definizione
del concetto di «agenzia di affari» che, ai fini dell’applicazione dell’art.
115 t.u.l.p.s., è offerta dall’art. 205 del regolamento: definizione a fronte
della quale sotto la predetta denominazione «si comprendono le imprese,
comunque organizzate, che si offrono come intermediarie nell’assunzione o
trattazione di affari altrui, prestando la propria opera a chiunque ne faccia
richiesta».
La nozione di «agenzia di affari» — ancorché non coincidente con quella di cui
all’art. 1742 cod. civ., e di essa più ampia - troverebbe comunque il suo
tratto qualificante nello svolgimento di un’attività di intermediazione per la
trattazione di affari altrui: attività riscontrabile, bensì, in rapporto alle
agenzie di pubblicità, che svolgono una funzione di intermediazione fra i
committenti (inserzionisti) e l’emittente radiotelevisiva che diffonde i
messaggi pubblicitari, ma non quando — come nell’ipotesi in esame — l’emittente
raccolga direttamente le commissioni, limitandosi a rendere, a pagamento, un
servizio consistente nella diffusione di un messaggio pubblicitario rivolto
alla generalità indistinta degli ascoltatori della radio o degli spettatori
della televisione.
2. — Il ricorso è fondato.
Ancorché, infatti, la soluzione interpretativa posta a base
dell’ordinanza-ingiunzione opposta risponda ad un indirizzo accolto, in tempi
non recenti, dalle Sezioni penali di questa Corte con riguardo alla pubblicità
a mezzo stampa (e segnatamente ai giornali murali a copie plurime: cfr. Cass.
pen., 6 dicembre 1963, Mariti, citata nella sentenza impugnata) , convergenti
argomenti di ordine letterale, teleologico e sistematico inducono a ritenere
maggiormente corretta l’opposta soluzione, a fronte della quale l’attività
consistente nella mera diffusione, verso corrispettivo, di messaggi
promozionali di prodotti o servizi, con qualunque strumento attuata (stampa,
radio, televisione, mezzi telematici, ecc.), da parte di soggetto che
acquisisce direttamente le commissioni dagli inserzionisti interessati, esula
dalla sfera applicativa dell’art. 115 t.u.l.p.s.
Quest’ultima disposizione - originariamente assistita dal presidio penalistico
di cui all’abrogato art. 665 cod. pen., ed attualmente da quello sanzionatorio
amministrativo di cui all’art. li-bis, primo comma, t.u.l.p.s. (aggiunto
dall’art. 3 del d.lgs. 13 luglio 1994, n. 480) — stabilisce, invero, che «non
possono aprirsi o condursi agenzie di affari, quali che siano l’oggetto e la
durata, anche sotto forma di agenzie di vendita, di esposizioni, mostre o fiere
campionarie e simili, senza licenza del questore».
La nozione di «agenzia di affari» - dai contorni, di per sé, scarsamente
definiti — viene chiarita dall’art. 205 reg. t.u.l.p.s., il quale prevede che
«sotto la denominazione di "agenzie pubbliche o uffici pubblici di
affari"», usata nell’art. 115 t.u.l.p.s., «si comprendono le imprese,
comunque organizzate, che si offrono come intermediarie nell’assunzione o
trattazione di affari altrui, prestando la propria opera a chiunque ne faccia richiesta».
Soggiunge, altresì, la norma che «ricadono sotto il disposto del citato
articolo i commissionari, i mandatari, i piazzisti, i sensali, i ricercatori
di merci, di clienti o di affari per esercizi o agenzie autorizzati; le agenzie
per abbonamenti ai giornali; le agenzie teatrali; le agenzie di viaggi, di
pubblici incanti; gli uffici di pubblicità e simili».
Alla stregua di tale definizione, se per un verso è evidente come la nozione di
«agenzia di affari», di cui all’ art. 115 t.u.l.p.s., non coincida con quella
del contratto di agenzia, di cui all’art. 1742 cod. civ., che ha un contenuto
specifico e più limitato (Cass. pen., 29 dicembre 1988, n. 12899; Cass. pen.,
16 marzo 1973, n. 2189); resta fermo, però, che condicio sine qua non affinché
scatti l’obbligo della licenza è che venga creata un’organizzazione, anche solo
elementare, finalizzata allo svolgimento, in modo continuativo e professionale
(Cass. pen., 10 luglio 1979, n. 6416), nonché a scopo di lucro, di un’attività
intermediaria per la trattazione di affari altrui (tra le altre, Cass. pen., 22
maggio 1992, n. 6201; Cass. pen., 8 febbraio 1977, n. 2289).
In base, peraltro, al comune significato dell’espressione, compie un’attività
di intermediazione per la trattazione di affari altrui chi pone in essere, o
comunque agevola, trattative finalizzate alla conclusione di detti affari
(Cass. pen., 29 dicembre 1988, n. 12899), ponendo direttamente o indirettamente
in contatto fra loro due o più soggetti determinati. Non così chi si limita a
lanciare, verso remunerazione, messaggi promozionali in incertam personam,
indirizzati, cioè, ad una collettività ampia ed indeterminata di potenziali
fruitori, i quali, se lo riterranno, si procacceranno poi i prodotti o i
servizi reclamizzati attraverso gli ordinari canali: rendendo, in tal modo, un
mero servizio di supporto all’iniziativa economica del committente.
La conclusione è corroborata dalla disamina delle fattispecie che, con
elencazione a carattere esemplificativo, il secondo comma dell’art. 205 reg.
t.u.l.p.s. dichiara ricomprese nella nozione in esame. Alla luce, infatti, di
un criterio ermeneutico di corrente adozione, allorquando il legislatore fa
seguire alla enunciazione di un concetto generale (nel caso che interessa,
quello di «imprese ... che si offrono come intermediarie nell’assunzione o
trattazione di affari altrui») un elenco di ipotesi specifiche ad esso
riconducibili, la valenza del genus va ricostruita — in rapporto ai suoi
possibili margini di indeterminatezza — sulla scorta delle caratteristiche
proprie delle singole species.
Ciò posto, è palese come tutte le figure elencate
dal citato art. 205, secondo comma, reg. t.u.l.p.s. -fatta eccezione per
l’ultima — si caratterizzino in modo assolutamente inequivoco per il fatto che
l’attività sottoposta a licenza è finalizzata a porre in collegamento soggetti
determinati. Se ciò è di immediata evidenza per «i commissionari, i mandatari,
i piazzisti, i sensali, i ricercatori di merci, di clienti o di affari per
esercizi od agenzie autorizzati»; la conclusione non può essere diversa per le
«agenzie per abbonamenti ai giornali», le quali intermediano fra l’abbonato e
l’editore del giornale; né per le «agenzie teatrali», che egualmente
intermediano fra attori ed impresari; né, ancora, per le «agenzie di viaggi»,
che si interpongono fra il viaggiatore, da un lato, e le compagnie di viaggi,
i vettori o gli albergatori, dall’altro; né, infine, per le «agenzie di
pubblici incanti», che intermediano fra il soggetto che intende porre in
vendita determinati beni e coloro che, partecipando ad un’asta, sono interessati
ad acquistarli.
Residua la fattispecie, che più da vicino evoca la tematica oggi in esame,
degli «uffici di pubblicità». Ha, al riguardo, la valenza astrattamente propria
dell’enunciazione di genere e l’esigenza di omogeneità con tutte le altre
ipotesi di specie convergono nel suggerire una lettura restrittiva della
formula, a fronte della quale gli uffici cui la norma intende fare riferimento
sono quelli che raccolgono contratti pubblicitari, intermediando fra gli
inserzionisti e l’editore del giornale (o il titolare dell’emittente
radiofonica o televisiva) , e non già le strutture organizzate che si limitano
alla diffusione dei messaggi.
Sul piano dell’interpretazione teleologica, poi -premesso che le disposizioni
limitative della libertà di iniziativa economica debbono essere interpretate in
senso tendenzialmente restrittivo — va rilevato come la ratio
dell’assoggettamento ad autorizzazione di polizia dell’apertura di «agenzie di
affari» si radichi in esigenze di tutela dell’ordine pubblico e di prevenzione
dei reati, connesse ai pericoli insiti nell’esercizio incontrollato
dell’attività di intermediazione intesa nei sensi dianzi indicati, la quale può
prestarsi a frodi in danno del singolo contraente o di entrambi, ovvero
rappresentare strumento di realizzazione di altri illeciti (quale, ad esempio,
la ricettazione) . La mera diffusione di messaggi pubblicitari pone, per
converso, esigenze di tutela di diverso ordine, cui presiedono, in particolare,
le disposizioni del d.lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 sulla repressione della
pubblicità ingannevole, affidata all’autorità garante della concorrenza e del
mercato.
In tale prospettiva, il titolare di un’emittente radiofonica o televisiva può
considerarsi tenuto a munirsi di licenza, ai sensi dell’art. 115 t.u.l.p.s., solo
quando si presti a fungere effettivamente da intermediario tra l’offerente del
bene o del servizio e i singoli spettatori interessati. E così, oltre che nel
caso delle aste televisive, nelle quali gli spettatori vengono invitati ad
effettuare offerte al rialzo per l’acquisto della merce esposta col mezzo
televisivo (Cass. pen., 8 ottobre 1985, n. 2298) - aste oggi peraltro
espressamente vietate dall’art. 18, comma 5, del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 -
anche in quello in cui agli spettatori dell’emittente televisiva o agli ascoltatori
di quella radiofonica venga proposto di prendere direttamente contatto con gli
uffici dell’emittente al fine di concludere contratti di acquisto dei beni o
servizi reclamizzati.
Al riguardo, va peraltro osservato che il legislatore , con l’ art. 18, comma
6, del d.lgs. n. 114 del 1998, ha ritenuto di dover stabilire in modo espresso
l’obbligo di munirsi della licenza di cui ali’art. 115 t.u.l.p.s. nei confronti
di chi effettua «vendite tramite televisione per conto terzi»: fornendo, così,
un ulteriore argomento di ordine sistematico a supporto della conclusione
dianzi esposta.
Si aggiunga, ancora, che adottando la conclusione contraria non si potrebbe
escludere - come invece si assume nella sentenza impugnata - che l’emittente
che diffonde messaggi pubblicitari sia tenuta a munirsi di licenza anche nel
caso in cui le commissioni degli inserzionisti vengano raccolte, ab externo,
da una agenzia di pubblicità, sul rilievo che, in tal caso, l’attività
dell’emittente sarebbe meramente «esecutiva» di un’attività autorizzata. E ciò
in quanto l’obbligo di munirsi di un’autorizzazione di polizia, ove questa sia
richiesta in ragione delle caratteristiche oggettive dell’attività che si
intende svolgere, non viene meno per il fatto che tale attività sia esercitata
su richiesta di altro soggetto munito a sua volta di autorizzazione (quando
tra i contraenti vi sia una «catena» di intermediari, ciascuno deve essere
invero munito di autorizzazione) . Onde nell’ipotesi considerata dovrebbe
pervenirsi alla conclusione, poco plausibile, della necessità di una doppia
autorizzazione, tanto in capo all’agenzia pubblicitaria che all’emittente che
diffonde i messaggi.
3. — In accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va pertanto cassata.
Non essendo necessari nuovi accertamenti — risultando la vicenda pacifica nei
suoi elementi fattuali — questa Corte può pronunciare nel merito, accogliendo
l’opposizione proposta dalla L. avverso l’ordinanza-ingiunzione, con
conseguente annullamento della stessa.
L’esistenza, in ambito penale, di un pregresso indirizzo giurisprudenziale
favorevole alla tesi dell’Amministrazione e la novità, per converso, della questione
in sede civile fanno apparire equa l’integrale compensazione tra le parti delle
spese di giudizio.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la
sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’opposizione proposta da
L. L. avverso l’ordinanza-ingiunzione del Prefetto della Provincia di Terni del
22 ottobre 1998, annullando il provvedimento opposto. Compensa integralmente
fra le parti le spese processuali.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 2 marzo 2006.
Il Consigliere estensore.
II Presidente.
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