La
sentenza in commento approfondisce consapevolmente un contrasto
giurisprudenziale intorno alla testimonianza del prossimo congiunto
dell’indagato (elencazione tassativa per la quale si rimanda all’articolo 307/4
c.p.), ribadendo al punibilità di un prossimo congiunto che, avvertito della
facoltà di astensione garantito dall’art 199 c.p.p., testimoni il falso,
contrapponendosi a quella linea interpretativa che recentemente sembrava avere
prevalso secondo la quale "l’obbligo legale di testimoniare o anche la
libera scelta di farlo nell’ipotesi in cui non si eserciti, ove prevista, la
facoltà di astenersi non incidono sulla operatività della esimente di cui al
primo comma dell’art. 384 C.P. che ha una sua autonomia e trova la sua
giustificazione con l’istituto alla conservazione della propria libertà e del
proprio onore (nemo tenetur se detegere) e con l’esigenza di tener conto, agli
stessi fini, dei vincoli di solidarietà familiare" (per tutte,
Cassazione penale , sez. VI, 04 ottobre 2001, n. 44761, Presidente Fulgenti). Secondo
tale interpretazione "la necessità di cui all’art. 384/1 C.P. non si
riferisce all’obbligo di rendere la testimonianza, bensì all’inevitabilità del
nocumento che, senza di essa, si sarebbe verificato. Il pericolo del detto
nocumento infatti, si concretizza solo allorché il soggetto sia obbligato
comunque a deporre (è il caso dell’imputata) o rinunci alla facoltà concessagli
di astenersi dal deporre; non sussistono in questi casi, in base al diritto
positivo, ragioni per rifiutare l’applicabilità della scriminante in esame. (…)
[N]on può fondatamente sostenersi che la norma di cui al primo comma dell’art.
384 C.P. ha il suo fulcro nel dovere di testimonianza, per inferirne che non è
applicabile a chi abbia deposto il falso dopo essere stato avvertito, a norma
dell’art. 199 C.P.P., della facoltà di astenersi dal rendere la testimonianza.
Tale tesi non ha alcun aggancio nel diritto positivo, riduce irragionevolmente
il campo di operatività della norma, non considera soprattutto che la esimente
in parola non è limitata alla falsa testimonianza, ma si estende ad altri
reati, quali la frode processuale o il favoreggiamento personale, nei quali -
evidentemente - la necessità non può essere collegata in alcun modo alla
violazione di un dovere." (sentenza 44761 cit.). Peraltro,
così interpretata la norma in parola – che invero ha suscitato ampia
discussione intorno alla sua natura giuridica, e potendosi convenire con chi
afferma che si tratti non di una ipotesi speciale dello stato di necessità di
cui all’art. 54 c.p., ma di una causa di esclusione della colpevolezza (essendo
integrato il fatto tipico nella sua oggettività ma dovendosi escludere
l’esigibiltà del comportamento conforme alla norma per l’istinto di
conservazione o nella tutela dei sentimenti familiari) – pareva dare la "licenza
di mentire" ai prossimi congiunti, che potevano costituire valido
elemento di prova a favore del congiunto salvo poi andare esenti da pena nel
caso in cui si fosse dimostrata la falsità della loro deposizione. Il
paradosso viene ora evitato con la correzione di rotta da parte della VI
sezione: il futuro saprà dirci se le ragioni ben evidenziate dalla sentenza in
commento abbiano posto fine alla diatriba. (Altalex, 2 ottobre 2006. Nota di Nicola Canestrini) SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE Presidente Sansone - Consigliere Romano Repubblica Italiana La Corte Suprema di Cassazione Con
sentenza 16 luglio 2004 la Corte di Appello di Trento, in parziale riforma
della sentenza 5/12/2002 del tribunale della stessa città, (con la quale XXX L.
era stata condannata per il reato di cui all’art. 372 c.p. ad anni 1 di
reclusione- le era contestato di aver affermato il falso come testimone, in
quanto aveva dichiarato, all’udienza 1/2/2001, dinanzi al Tribunale di Trento: "di essere stata lei a telefonare alla sorella XXX P.L. il giorno
30/4/1999; che la predetta telefonata aveva lo scopo di avvisare la sorella che
il notaio YYY attendeva che (la stessa) e gli altri due fratelli si recassero
da lui a sottoscrivere la cancellazione di due ipoteche già pagate in quanto
lei intendeva vendere e l’acquirente senza la cancellazione non avrebbe
acquistato; che, nella mattinata del 30/4/1999, ella si era incontrata con il
notaio YYY per trattare di queste questioni con il compratore e che al rientro
dallo studio del notaio aveva chiamato la sorella (suddetta); che ricordava il giorno esatto per averlo appreso dalla sua agenda del
1999", concedeva
all’imputata stessa la non menzione alla condanna. Avverso
detta sentenza la XXX ha proposto ricorso per Cassazione. Denunzia
erronea applicazione della legge penale. Deduce:
che erroneamente la Corte d’Appello di Trento non ha ritenuto sussistente
l’esimente di cui all’art. 384 c.p., considerando la necessità di salvare un
proprio congiunto dal nocumento che consegue ad una condanna, adeguatamente
salvaguardata dalla facoltà di astensione dalla deposizione; che
il prevalente orientamento della recente giurisprudenza di legittimità ritiene
applicabile tale esimente anche quando il prossimo congiunto dell’imputato
abbia operato la scelta di non avvalersi della facoltà di astenersi dal
testimoniare. Osserva
il Collegio che il ricorso è infondato. Al
riguardo correttamente la corte territoriale, si è espressa nel senso che
"… l’interesse del testimone, il quale è compreso dalla deposizione
testimoniale, ‘dalla necessità di salvare un prossimo congiunto dal nocumento’
che consegue ad una condanna, sia adeguatamente salvaguardato con la facoltà di
astensione dalla deposizione (cfr. Cass. Sez. VI, 16/11/2000). Il testimone è,
infatti, posto nella condizione di scegliere consapevolmente – in seguito
all’avvertimento del giudice – se sottoporsi alla testimonianza con conseguente
obbligo di dire la verità ovvero se esimersi dalla stessa; con tale scelta egli
è in grado di sottrarsi ‘all’inevitabilità del nocumento’ che potrebbe derivare
al prossimo congiunto dalla verità della sua deposizione". In
conformità dell’avviso della corte territoriale, questo Collegio non condivide
l’orientamento della sentenza della Sezione VI, 4/10/2001, che come si è detto,
estende l’applicabilità dell’esimente anche nei confronti di coloro che abbiano
operato la scelta di non avvalersi della facoltà di astenersi dal testimoniare,
ma ritiene di restare nel solco della prevalente giurisprudenza di legittimità
per ragioni che, come di seguito sarà detto, appaiono inconfutabili. La
pronunzia dinanzi menzionata si fonda preminentemente sull’assunto che la causa
di non punibilità di cui alla disposizione in parola "… presuppone una
situazione di necessità, nettamente distinta da quella prevista in via generale
dall’art. 54 c.p., poiché non richiede (come in quest’ultimo) che il pericolo
non sia stato causato dall’agente, nella quale il nocumento alla libertà e
all’onore è evitabile solo con la commissione di uno dei reati contro
l’amministrazione della giustizia", ma non coglie che tale netta
distinzione è, viceversa, smentita dal testo delle disposizioni. Orbene
questo Collegio ritiene che l’ipotesi in cui la situazione di necessità sia
stata volontariamente causata dal soggetto agente, esplicitamente esclusa (art.
54 c.p.) nello stato di necessità, nel cui disposto è detto che il pericolo di
un danno grave alla persona deve essere dall’agente "… non volontariamente
causato", non può avvalersi di un trattamento meno favorevole rispetto
all’esimente di cui all’art. 384 c.p., per incontrovertibili argomenti, attinti
all’interpretazione letterale della norma. Deve
considerarsi: in primo luogo il significato dell’espressione "non è
punibile chi ha commesso il fatto per esservi stato costretto dalla necessità
di salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile
nocumento nella libertà o nell’onore" che, cioè, indica chi è obbligato a
fare cose contrarie alla sua volontà e, comunque, non spontanee; che,
quando ciò avviene, sussiste una situazione in cui certamente non versa il
soggetto che ha scelto di non astenersi dal deporre, così determinando esso
stesso la situazione di necessità; in
secondo luogo l’aggettivo "inevitabile", inevitabilità che non sembra
più sussistere allorché l’agente avrebbe potuto evitare la situazione
necessitante avvalendosi della facoltà di non rispondere e così scongiurando il
nocumento derivante da una sua testimonianza veritiera; in
terzo luogo che l’ultima parte del comma 2 dell’art. 384 col dire "… la
punibilità è esclusa se il fatto è commesso da chi per legge non avrebbe dovuto
essere richiesto a rifornire informazioni ai fini dell’indagine o assunto come
testimone (…) avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal
rendere informazioni, testimonianza …", procura un ulteriore argomento
favorevole alla tesi propugnata, in quanto riguardo a costoro non dovrebbe
escludersi la punibilità nel caso in cui il soggetto sia stato avvertito della
facoltà di astenersi e vi abbia rinunciato. Alla
reiezione del ricorso segue la condanna della ricorrente al pagamento delle
spese processuali. P.Q.M. LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il
ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il
20 giugno 2006. Depositato in Cancelleria
il 2 agosto 2006. |
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