Nessuno può
seriamente pensare di abolire per decreto gli incidenti stradali, ma la
preoccupante espansione del fenomeno deve farci riflettere e auspicare
che finalmente, già dal 2001, molte misure vengano adottate ad iniziare
dalle modifiche del C.d.S.; alla legge sul riordino delle discoteche,
all’educazione stradale nelle scuole, al ripianamento dell’organico della
Polstrada.
Oggi è infuocato il dibattito sui temi importanti e drammatici come la
droga, che vede divisi proibizionisti e antiproibizionisti, anche se il
prevalere di una fazione sull’altra non sradicherà sicuramente il problema,
sulla prostituzione, fra fautori delle case chiuse e contrari (dovremo
definirli casinisti e anticasinisti?), ma anche in questo caso il fenomeno
continuerà a vivere, potrà solo essere circoscritto, controllato. Il crimine
esiste ed esisterà perché è una scorciatoia verso la conquista di un momentaneo
benessere per pochi a scapito di altri (tanti).
Il dramma degli incidenti stradali deve trovare a sua volta più convinte
forme di contenimento anche perché ha peraltro il limite di non portare
benefici o benessere a nessuno.
Però perché le cronache si occupino in maniera approfondita di questo
aspetto, alimentando un dibattito forte col grande coinvolgimento dell’opinione
pubblica, servono ingredienti particolari, come nel caso che raccontiamo,
che vede coinvolto un extracomunitario albanese, Bita Panajot, che si
dà alla fuga dopo aver ucciso a Roma un ragazzo italiano, Alessandro,
di nove anni che girava tranquillo in bicicletta. Episodio gravissimo,
dai contorni sconcertanti ma molto frequente e in molti altri casi passato
inosservato.
IL FATTO
Il 22 agosto 1999 è una domenica come tutte le altre per la famiglia
Conti. Papà e mamma di una famiglia italiana, un piccolo di 9 anni
che nel giorno di festa scorrazza nelle stradine del quartiere romano
di Torre Angela. Ma il destino è in agguato. Una Bmw di grossa
cilindrata sbuca come un missile, sgommando, e travolge Alessandro insieme
a un amichetto. Lo stridio delle gomme copre le urla dei passanti e dei
genitori, il rombo del motore dell’auto in fuga sconvolge la scena dell’incidente.
Inutili i soccorsi: il cuore di Alessandro, poche ore dopo, si ferma per
sempre. La vicenda scuote una nazione intera: per un incidente stradale
si mobilitano le unità investigative che serrano una morsa attorno
all’investitore. Quattro giorni più tardi le manette dei carabinieri
si stringono ai polsi del pirata. Si chiama Bita Panajot, 25 anni, immigrato
albanese. Resta in carcere fino al 9 maggio 2000, dopo che in settembre
era stato condannato a 5 anni di reclusione e dopo che in appello la pena
era stata ridotta a 2 anni e sospesa con la condizionale. Domenica 3 dicembre
2000 Panajot viene sottoposto a controllo da una volante mentre era alla
guida di un’alfa 33 e accompagnato in questura per accertamenti, al termine
dei quali gli viene revocato il permesso di soggiorno, ottenuto illegalmente
con un matrimonio contratto il 30 luglio 2000 con una donna italiana che
con ogni probabilità Bita ha visto una volta sola, il giorno del
“sì”, davanti ad un sindaco qualunque. Bita, come quasi
tutti gli albanesi che controlliamo alla guida di un veicolo, esibisce
una patente nazionale albanese e un permesso di guida internazionale,
che la Prefettura di Roma decide di ritirare perché l’albanese
utilizzava l’auto per “accompagnare le prostitute al lavoro”,
segno questo che con ogni probabilità le autorità inquirenti
procederanno nei suoi confronti anche a livello penale. A seguito di una
perquisizione poi, eseguita nel domicilio dell’albanese da parte della
Polizia di Stato, viene rinvenuta una terza patente, anch’essa albanese,
e anch’essa probabilmente falsa. Sequestrata immediatamente, sarà
sottoposta ai rilievi del gabinetto regionale della Scientifica e all’esame
dell’Interpol. Come in gran parte dei casi il verdetto sarà: “contraffatta”.
Che il “povero Bita” sia un esperto della contraffazione, è
un fatto già assodato, visto che anche i Carabinieri del comando
di Caserta, in novembre, gli hanno sequestrato una Volkswagen Passat con
telaio contraffatto e un’altra patente internazionale, anch’essa falsa.
Certo, il “povero Bita” è balzato agli onori della cronaca
per un omicidio colposo con tanto di omissione di soccorso e latitanza,
e il suo perpetrare reati, così comune per tanti extracomunitari
(senza voler con questo etichettare gli uomini ad una terminologia così
abusata), diviene un’aggravante insopportabile per quella giuria in questo
caso così intransigente, costituita dal popolo italiano.
RIFLESSIONI
Ma dove sono gli abusi e le prevaricazioni a carico di un uomo che,
introdottosi illegalmente in Italia con un finto matrimonio per ottenere
un permesso di soggiorno, dopo aver ucciso un bambino e fuggito, dopo
essere stato catturato e condannato si fa beffe dell’Italia intera manipolando
auto riciclate, documenti contraffatti e favorendo la prostituzione?
E’ un effetto della campagna elettorale? Doveva servire la morte di
Alessandro per scoprire che non ci sono solo gli scafisti, ma che in
realtà ci sono anche uomini che arrivano in Italia per delinquere,
per sfruttare e uccidere, senza riferirsi a quello che resta comunque,
tra tutte le sue aggravanti, un omicidio colposo? Alcuni degli albanesi
a cui la Polizia ha tolto la patente, perché falsa, hanno confidato
che in Albania è la polizia stessa, per intascare le somme necessarie
al rilascio dei documenti, a rilasciare in alcuni casi patenti e carte
di circolazione nazionali e internazionali false (per non parlare delle
carte verdi) allo scopo di intascarne i proventi. In altri casi poi
alcuni comprano le patenti taroccate in Italia, appena sbarcati, allo
scopo di presentarsi poi presso gli uffici della Motorizzazione e ottenere
la conversione. A questo punto il gioco è fatto: da una patente
albanese comprata tutto sommato a poco prezzo si ricava un documento
italiano originale e, a quel punto, non revocabile certo per falsità.
Si capisce che il giro di miliardi diventa importante. Eppure il giochino
non sembra tanto noto a tutti, e tutt’oggi vediamo tante facce sconvolte
a sentire queste cose. Il fatto è che molti albanesi, come molti
italiani e utenti della strada in generale, per carità, non sanno
nemmeno che cosa sia il Codice della Strada, che diventa una delle tante
leggi da violare, in barba a chi invece le rispetta. A volte una botta
e poi via, altre volte ci scappa il morto. Alessandro voleva solo farsi
un giro in bicicletta, mentre Bita, che di Alessandro se ne frega perché
di atti di dolore non ne ha mostrati, continua a delinquere fregandosene
di tutto e di tutti, forse solo un po’ infastidito dai riflettori che
su di lui si accendono sempre, mentre per la totalità degli altri
delinquenti nemmeno una riga sul giornale. Bisogna anche dire però
che in genere ciò che è successo a Bita, alludendo in
questo all’itero giudiziario che lo ha visto protagonista, è
diverso da ciò che succede se per esempio, ad investire un bambino
e scappare, fosse stato un italiano in regola. In genere la magistratura
condanna questo tipo di imputati, se vengono riconosciuti colpevoli,
a 8 mesi. In alcuni casi ad un anno, “ma solo se il giudice è
severo”, come ha fatto prontamente notare l’avvocato Cosimo Basso,
legale del Panajot. Cosa possiamo rispondere a questa affermazione?
Che non ce ne frega niente, e che Bita meritava ben altra condanna.
E non perché è un albanese, alla fine clandestino, pregiudicato,
in grado di cambiare una patente al giorno, ma perché ha ucciso
Alessandro ed è fuggito. Non si è costituito, ma è
stato catturato. Non ha cambiato la sua condotta nella società,
ma ha cercato (invano) di cambiare il suo aspetto fisico per non essere
preso, continuando ad essere elemento pericoloso per tutti.
I CONTROLLI
La strada ci insegna purtroppo che non esiste una categoria predefinita
di persone a cui possiamo attribuire reati inerenti la circolazione
stradale. Sappiamo però che alcune sembrano maggiormente presenti
nelle esperienze operative degli operatori di polizia: chi sono? Ovvio
che una persona che entra in Italia con una patente falsa lo fa per
circolare liberamente su strada, confidando nel fatto che pochi sapranno
riconoscere la contraffazione e soprattutto che se la caverà
a buon mercato. Statisticamente improbabile, anche nel caso in cui venga
fermato, potrà sperare nell’“imperizia” dell’accertatore
(anche se sarebbe più proprio definirla ignoranza, vista la totale
mancanza di fotocopie comparative leggibili circolanti nei posti di
polizia o lo scarso aggiornamento professionale, lasciando tutto alla
buona volontà dei singoli). Nel malaugurato caso in cui venga
comunque scoperto potrà comunque contare sulle depenalizzazioni
ormai in vigore previste per l’articolo 116 del Codice della Strada
e dell’italica lungaggine delle vie giudiziarie, finendo poi con il
patteggiare o col fornire giustificazioni ritenute alla fine valide
dal giudice.
LE
OMISSIONI DI SOCCORSO IN NUMERI
Quando avviene un incidente stradale, in Italia (ma riteniamo di poter
dire in ogni paese civile), il comportamento delle parti è regolato
dall’art. 189 del Codice della Strada, il quale recita testualmente:
“L’utente della strada, in caso di incidente comunque ricollegabile
al suo comportamento, ha l’obbligo di fermarsi e prestare l’assistenza
occorrente a coloro che, eventualmente, abbiano subito danno alla persona
[...]. Non esiste un dato certo, in Italia, di quanti siano gli utenti
della strada che scappano. Certo, l’episodio che ha visto soggetto attivo
del reato Bita Panajot è stato sicuramente “falsato”
in sede di indagine e di giudizio dall’onda emotiva popolare che l’evento
ha causato, ma è anche vero che una persona che uccide, scappa,
modifica il suo aspetto per non farsi riconoscere, quando viene catturata
merita (e questo lo diciamo senza essere investiti a nostra volta dall’onda
emotiva) il massimo della punizione. Al punto che pur essendo un reato
di carattere colposo, la successiva condotta del reo lo ha trasformato,
di fatto, al giudizio del popolo, in un vero e proprio delitto doloso
e come tale la gente vorrebbe fosse punito. Senza farci prendere dalla
rabbia abbiamo cercato, frugato, scandagliato negli archivi, e alla
fine abbiamo scoperto che l’Istat è riuscita a fare statistica
attorno a questo atteggiamento illecito solo grazie ai dati della Polizia
Stradale, mentre sfuggono completamente i parametri relativi agli accertamenti
ed alle contestazioni dell’art. 189 del Codice della Strada (che ha
ovviamente i suoi riferimenti nell’art. 593 del Codice Penale quando
vi sia la concomitanza di lesioni o morte) effettuati dalle Polizie
Municipali e dall’Arma dei Carabinieri. Il dato è comunque raccapricciante,
ed è “spia” di un humus omertoso molto più vasto
di quanto si creda in realtà. La sola Polizia Stradale, nel corso
del 1999, ha contestato ben 2493 violazioni all’articolo 189, relative
alla fuga dello scenario del sinistro di una delle parti. 1766 di queste
violazioni sono riferibili a conducenti di autovetture, 396 a conducenti
di autocarri, 23 di autobus, 18 di motociclisti e 56 di ciclomotori.
Se si applica un’aliquota simile, in forma ipotetica, alla Polizia Municipale
ed ai Carabinieri, che operano spesso in terreno urbano o comunque su
reti ordinarie, ove la Stradale si vede sempre meno, si può
ragionevolmente affermare che in Italia si verificano in media 10mila
fughe a seguito di sinistro, comportamento questo che in molti casi
può divenire omissione di soccorso. Diciamo 10mila perché
altre fonti non in analisi in questo contesto confermano il sempre crescente
impegno della Polizia Municipale, mentre un’aliquota uguale di altri
10mila casi è stata assegnata ai fatti non accertati dagli organi
preposti o da responsabili mai rintracciati.
ANALISI
DEL FENOMENO “FUGA”
Servirebbe forse l’impegno di un collegio di psichiatri, psicologi,
sociologi e criminologi per analizzare compiutamente un fenomeno criminale
come l’omissione di soccorso alla quale non fa seguito l’autodenuncia
del responsabile alle autorità. Da poliziotti, quali siamo, possiamo
ipotizzare, senza andare per una volta a scandagliare la vita dei colpevoli.
Non trattiamo di serial killer, ma di persone che conseguono una patente
di guida e che, una volta consumata l’omissione di soccorso, perdono
a nostro avviso tutti i requisiti psicofisici, e anche morali, per mantenerla.
In molti casi assistiamo a delle crisi di coscienza del reo, il quale
dopo aver cagionato lesioni o morte alla guida di un veicolo, si presentano
spontaneamente. Potremmo definire tutto sommato “comprensibile”
questo tipo di atteggiamento, ma facciamo bene attenzione a non farci
sempre ingannare. In molti casi infatti avviene l’autodenuncia solo
dopo aver conferito con un avvocato o dopo aver smaltito gli effetti
di una sbronza, di uno spinello, di una tirata di coca o di un acido.
Può capitare però (purtroppo non è possibile disporre
di statistiche precise all’atto della stesura di questa riflessione,
visto che i dati Istat non prendono in esame le varie ipotesi dell’art.
189 del Codice della Strada) che il pirata della strada non voglia farsi
beccare per altri motivi: abbiamo assistito a padri irati davanti alla
carcassa distrutta della propria auto “impropriamente” presa
in prestito da aitanti figli emuli di Schumacher, a improbabili e goffi
tentativi di autodifesa al “farla franca” da parte di conducenti
in possesso di assicurazioni false o di auto rubate (spesso proprio
in sede di giudizio). Genericamente le ragioni sono riconducibili a
tre tipi di comportamento:
1) paura dell’accaduto e terrore di aver cagionato lesioni o morte;
2) fuga in quanto autore di un disegno criminoso (criminali in viaggio,
trafficanti di droga o armi o, come spesso accade, utilizzatori di assicurazioni
false) che verrebbe scoperto a causa di “questo imprevisto”;
2) rifiuto di accettare di essere sottoposto a ritiro di patente e palese
intenzione di sottrarsi alle proprie responsabilità.
A questi casi si devono aggiungere quelli, sempre più numerosi,
di extracomunitari irregolari che temono l’espulsione, o regolarizzati
che temono la revoca del permesso di soggiorno.
Comunque vada, qualunque sia la ragione, Alessandro è morto in
mezzo ad una strada in una domenica di agosto, falciato da un uomo
che non si è fermato a guardare, nel timore di essere giudicato
e di poter essere espulso, senza sapere forse che in Italia non ti espellono
mai. Pensare di debellare un fenomeno come questo, viste le proporzioni
che ha assunto, è forse utopistico. Ma a questo punto riteniamo
innanzitutto un’attività di monitoraggio estesa a tutti, per
verificarne l’effettiva consistenza. E poi intensificare (sic!) i controlli
su strada, cercando di contrastare il più possibile il traffico
di documenti falsi, di assicurazioni contraffatte (i cui utilizzatori
davanti a un episodio di tale gravità fuggono). Farebbe bene,
il legislatore, a prendere bene in considerazione che i più deboli
sono spesso gli unici a pagare gli errori di chi, a volte, scappa pure:
in Italia, nel 1999 sono morti, in seguito a incidenti stradali, 836
pedoni, mentre 16.386 sono rimasti feriti; 398 è il numero dei
ciclisti deceduti, mentre 9.745 è il numero di quelli feriti.
Nel panorama dei 48cc invece la conta delle vittime presenta 657 nomi,
mentre i feriti sono stati 54.748, numero in perfetta proporzione con
i 468 motociclisti uccisi e con 17.122 feriti. L’analisi statistica
tocca perfino i motociclisti con il passeggero che fanno aumentare il
bollettino della strage a 597 morti e 22.722 feriti. Queste sono le
cosiddette "utenze deboli", per le quali è più facile
trovarsi in circostanze omissive (a qualsiasi titolo). Più genericamente,
le definiremmo “utenze morte”, anche perché i “Bita”
sono tanti!
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