Destituito dalla divisa, l’hanno messo a forza in una stanza del
carcere di Forlì, una fortezza medievale attorno alla quale i forlivesi passano
un sacco di volte ogni giorno, per andare a lavorare, tornare a casa, fare la
spesa o uscire fuori porta. L’hanno chiuso dentro ed hanno buttato la chiave, per 737 giorni di
fila: la prima condanna per l’omicidio colposo di Giovanni Pascale, un giovane
di 33 anni che scappò misteriosamente all’alt di Ivan durante un servizio di
pattuglia, è cambiata nei gradi di giudizio fino a quando il martelletto di un
giudice della Corte di Cassazione non ha sancito la fine di tutto. Omicidio
volontario, quasi 10 anni di galera. Da scontare in carcere, è ovvio. Stoicamente Ivan non chiede la reclusione in un carcere militare, ma
preferisce una casa circondariale comune, per stare vicino ai suoi. Quando la Polizia Penitenziaria chiude la sua cella a Forlì, Natale,
poliziotto in pensione, “apre” la storia di Ivan al Paese intero. Nasce un sito internet, si scrive un libro, si raccolgono fondi per
tappare il buco dei danni pagati dal ministero alla famiglia di Pascale. Danni
che il ministero rivuole indietro, inesorabilmente, con gli interessi che
crescono. Per chi è in divisa, sbagliare
non è proprio un lusso da potersi permettere. Nel frattempo serial killer in permesso premio uccidono ancora,
criminali che hanno fatto la storia di questo Paese nel suo dopoguerra
pretendono di uscire, vogliono la grazia, ottengono l’attenzione dei media… Anche Ivan la chiede, ma nessuno gliela concede. La sensazione è che
nessuno voglia curarsi più di lui. Molti rispondono che in fondo se l’è
meritato, di stare in carcere, senza nemmeno cercare di capire. Per altri le agende sono già troppo piene, e “la piccola storia” che
vede il Nostro protagonista, tale rimane. La nostra opinione è che possa trattarsi di un errore giudiziario, un
equivoco che lo stesso Ivan (e probabilmente qualcun altro che non si è mai
assunto le proprie responsabilità) ha purtroppo contribuito a creare ed al
quale non è stato più possibile riparare. La Romagna di quei giorni, la Rimini in cui Ivan lavorava, sentiva
ancora la puzza di polvere da sparo dei colpi sparati dalla Uno Bianca. L’idea
che la polizia fosse marcia – diciamolo senza paura – sembrava diffusa. C’erano, nelle “divise”, tensioni, paure, frustrazioni. In fondo
quelli della Uno Bianca erano stati presi proprio da due poliziotti, ma nessuno
pareva ricordarselo. L’aria da film noir, da giallo alla Maurizio Merli, è rimasta pesante,
senza che nessuno sia riuscito a smuoverla, a lungo. Ci voleva l’odiato indulto – sì “odiato”, avete capito bene – per
aprire la stanza di Ivan e farlo finalmente uscire, almeno di giorno, per
andare a lavorare fuori dal carcere. Esce insieme a tanti delinquenti veri, entrati dopo ed usciti comunque
prima di lui, e che appena fuori hanno ricominciato spesso a fare quello che
facevano. La conferma, secondo noi, che la causa di estinzione della pena
prevista dall’articolo 174 del Codice penale, tutto è fuorché quel
provvedimento generale di clemenza ispirato, così si dice, a ragioni di
opportunità politica e pacificazione sociale. Oggi è degenerato in un’insensata e periodica prassi di sfoltimento
delle carceri. La vita di Ivan resterà segnata come una maledizione: le dieci di sera
arrivano presto, e con le pubblicità non si fa nemmeno in tempo a finire un film in prima serata. Ma è un passo avanti grandissimo, in attesa del martelletto di un
altro giudice. Di una revisione del processo, magari, della grazia. A Ivan che esce vogliamo dire che abbiamo capito cos’è successo. Non
ci siamo fatti fregare da chi ci ha dato dei demagoghi o ci ha chiamato
“giacobini”, perché impegnati a chiedere Giustizia in un modo quando si parlava
di Angelo Izzo, o in un altro quando si è parlato di lui. Abbiamo saputo distinguere le storie. Sappiamo bene la differenza tra
un omicida ed un assassino. Sappiamo per certo che Ivan, una volta fuori, lavorerà per ricostruire
la sua vita, per rimettere insieme i cocci di un’esistenza distrutta da una
frazione di secondo: tanto impiega un percussore a infilare l’innesco, a
provocare la combustione della carica di lancio di un proiettile piccolissimo,
che a quella distanza il più delle volte si perde. Aspetterà in silenzio il suo futuro, lo vivrà giorno per giorno. La
notte no, dovrà ancora una volta trascorrerla avvolto nelle coperte della
fortezza di Forlì, solo coi suoi pensieri, a ripensare alla mattina del 24
febbraio 1997. Sperando nella libertà, quella vera, quella definitiva. Quella che
aprirà per sempre la porta della stanza del figlio di Natale. (ASAPS) |
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