foto UPI
Il Fatto
F.C., 33 anni
milanese, è al volante della sua Ibiza, su cui viaggia anche il suo cane. La
sua auto è lanciata in velocità – forse nemmeno eccessiva – sulla carreggiata
sbagliata: va a nord percorrendo quella sud. È possibile che l’uomo fosse sotto
l’effetto di sostanze psicoattive – alcol – o stupefacenti: di sicuro non era
in sé, altrimenti non avrebbe percorso tutta quella strada contromano. La
stampa riferisce che abbia percorso 40 chilometri, ma il dato dovrà essere
verificato. L’impatto è avvenuto più o meno al 40esimo chilometro da Torino, e
forse i reporter possono aver equivocato. Secondo altre voci, invece, l’Ibiza
sarebbe entrata in autostrada dal casello di Santhià (Vercelli), che dista 13
chilometri dall’interconnessione con la A5, proprio a due passi da Ivrea. I
tabulati di 113 e 112, presi d’assalto dagli automobilisti terrorizzati che
incrociavano il folle, aiuteranno gli investigatori ad accertare il
particolare. Si badi bene: non è un particolare da poco, perché 15 chilometri o
40, un itinerario rispetto all’altro, cambiano totalmente le cose. Comunque
dove l’autostrada diventa curvilinea, dove cioè chi gli andava incontro non
l’ha visto arrivare, l’Ibiza è divenuta il proiettile di un cecchino, finito
sulla Zafira di una famiglia cinese. 3 morti, una ferita grave. Il 33enne ed il
suo cane ne escono vivi. Le immagini del TG2 hanno mostrato alcune immagini
della sciagura, ed una sequenza si è soffermata sul contachilometri della
Ibiza, fermo a 120 orari. Non è una prova che la velocità fosse quella, ma il
tracciato non avrebbe consentito molto di più, e inoltre una persona in stato
di ebrietà o comunque fuori di sé non avrebbe potuto mantenere velocità molto
più alte. Perché queste tragedie si ripetono? Perché non si riesce ad
intervenire con maggiore prontezza? Siamo, lo abbiamo detto più volte, in una
border-line. La “soluzione”. La proposta dell’Asaps. Di sicuro dovremmo poter
disporre di radio infotraffic in chiave locale, magari con sedi presso le sale
radio di società concessionarie o dei COA (che in Piemonte purtroppo non
esiste), in grado di informare subito, in tempo reale, del pericolo. Non
dimentichiamo poi, che molti strumenti sono già disponibili, ma semplicemente
non sfruttati: pensiamo ai grandissimi tabelloni per messaggio variabile, sui
quali campeggiano tante belle scritte educative, spesso sostituite da notizie
di code o incidenti, ma che raramente vengono impiegati per informare
attivamente l’utenza. Negli Stati Uniti e in Canada, i tabelloni vengono invece
usati anche per questo scopo, tanto che i cosiddetti “Amber-Alerts” sono una
consuetudine. Una curiosità: il nome di questi allarmi, “Amber” appunto, deriva
dal tristissimo caso di Amber Hagerman, una bambina che alla fine del secolo
scorso fu rapita e poi fu trovata uccisa. Si calcola che solo negli USA, gli
alerts autostradali abbiano consentito il ritrovamento di circa 200 minori
scomparsi. Questo significa che il sistema funziona. Se durante il viaggio
vedessimo sui tabelloni luci accese e la notizia che qualcuno ci sta venendo
incontro, potremmo scegliere di accostare in corsia di emergenza e fermarci
fino a cessato allarme. Il progetto potrebbe essere integrato da uno studio
mirato, che individui i punti neri di questo fenomeno, quelli cioè nei quali
venga dimostrata una particolare recidiva. Il problema è che da un punto di
vista statistico, abbiamo pochissimi elementi sui quali lavorare:
genericamente, in Italia, i contromano non vengono contabilizzati per ambiente,
ma solo per circostanze, come per esempio incidenti ad incroci. In questo
computo, nel 2004 (ultimi dati disponibili Istat) si sono verificati
complessivamente 6.733 incidenti dovuti al contromano, di cui 1.809 in strade
extraurbane e 4.924 su strade urbane; nel 2003 i sinistri complessivi erano
stati 6.957, di cui 1.879 su strade extraurbane e 5.078 su strade urbane.
Attenzione: non si tratta di un impegno da poco, ma chiunque lavori in
autostrada o sulla grande viabilità, sa benissimo che il contromano si ripete
con frequenza giornaliera. È semplicemente la gravità delle sue conseguenze a
portarlo sui titoli di testa di un tiggì o sulla cronaca nera dei giornali.
Dobbiamo pensare che alla viabilità extraurbana come ad un immenso corridoio, nel quale dobbiamo pensare a sentieri di
evacuazione e ad uscite di emergenza, esattamente come nei locali pubblici,
dove tali percorsi sono accuratamente indicati e segnalati. Lo abbiamo già
fatto nei tunnel, dopo le tragedie del Bianco, del Gottardo o del Frejus:
dunque non stiamo proponendo fantascienza. Una volta avvertiti del pericolo,
gli utenti rallenterebbero e non dovrebbero far altro che trovarsi un posto
sicuro. Uno di questi potrebbe essere semplicemente la sosta, anche in corsia
di sorpasso, ma in prossimità di un luogo preventivamente individuato al quale
si arrivi dopo un preventivo rallentamento, anche questo indotto o con
personale tecnico o di polizia, o indotto tramite segnaletica variabile. La
morfologia frastagliata del nostro territorio, in questo ci aiuta, e certi
luoghi potrebbero essere scelti nelle variazioni altimetriche o in concomitanza
di curve autostradali importanti, le quali avrebbero comunque fatto rallentare
il traffico e chi gli va incontro. Dove il tracciato sia invece assolutamente
rettilineo, ovviamente, sarebbe la segnaletica variabile a dover incidere
sull’andamento del traffico. In tutti i casi, dopo l’Amber Alert, si deve
creare una zona fredda (bianca), dove l’utente comprende che di lì a poco dovrà
rallentare, una zona tiepida (gialla), dove la velocità sarà progressivamente
rallentata, ed una zona calda (rossa), dove arriverà al semaforo e dove
scenderà dall’auto per mettersi al riparo. Si tratta di un impegno ciclopico,
ce ne rendiamo conto, ma l’eradicazione del fenomeno è fuori discussione:
nessuno può impedire fisicamente, a priori, ad un ubriaco di mettersi alla
guida o ad un folle di mettere in atto il proposito suicida. La creazione di
queste aree – che dovrebbero essere predisposte a cadenze chilometriche
regolari – tornerebbe poi comunque utile in caso di incidente o di coda, con
minori rischi per il personale tecnico o di polizia, e di conseguenza per
l’utente in generale, cosicché ogni coda sarebbe segnalata con grande efficacia
e solo i folli, ma alla follia non v’è rimedio, non alzerebbero
il piede dal gas. Ma altre soluzioni? Continuiamo a
pensare ai dissuasori sugli svincoli, a spire annegate nell’asfalto che
azionino segnali luminosi e sonori, vere e proprie barriere in area di
servizio, che si attivano al passaggio di un veicolo contromano. Ai classici
rimedi, che però nessuno applica. Pensiamo insomma ad un investimento, che
assottigli il margine di rischio: d’altra parte, è impossibile pretendere che
una pattuglia possa coprire decine di chilometri e scongiurare la minaccia (ce
ne vorrebbero molte di più, ma non arrivano…). Una volta che la miccia è
accesa, e lo sappiamo in tempo reale grazie ai telefonini, bisogna solo
mettersi al riparo.
* Sovrintendente della Polizia Stradale Consigliere Nazionale Asaps |
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