La pronunzia del Supremo Collegio (nonchè
la decisione
del Tribunale di Bologna, Sezione Riesame nella parte che ne recepisce i
principi prodromici), che in questa sede si esamina, affronta il problema della
qualificazione giuridica delle videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi,
operate in ambito domiciliare ed in luoghi privati e riservati, ma non
domiciliari. I giudici di legittimità, in
primo luogo, ribadiscono quale denominatore comune ad entrambe le ipotesi prese
in esame quello della indefettibile necessità di un preliminare provvedimento
autorizzativo ad hoc da parte del giudice. In assenza dello stesso (od in
presenza di carenza di motivazione delle specifiche ragioni che ne
giustifichino l’adozione) si verte in ambito di inutilizzabilità delle
risultanze fattuali derivate dall’esecuzione del mezzo di prova. E’, infatti, evidente che la
rilevante insidiosità del mezzo di ricerca della prova in questione rispetto
alla sfera di libertà e riservatezza delle comunicazioni comporta la necessità
di un controllo penetrante circa l’esistenza delle esigenze investigative e la
finalizzazione delle intercettazioni al relativo soddisfacimento. La motivaizone, quindi, assolve
ad una funzione che non è quella di asseverazione di una ipotesi di accusa, che
potrebeb esserte ancora teorica. Sul punto la Sezione II della
corte di Cassazione, con la pronuncia 1 Marzo 2005, n. 10881, Gatto e altri,
Guida al Diritto, 2005, 17, 82, ha affermato che la motivazione del decreto
non deve esprimere una valutazione sulla fondatezza dell’accusa, ma solo un
vaglio di effettiva serietà del progetto investigativo, conseguendone che la
principale funzione di garanzia della motivazione del decreto risiede
nell’individuazione della specifica vicenda criminosa cui l’autorizzazione si
riferisce, in modo da prevenire il rischio di autorizzazione in bianco. Per meglio inquadrare nei suoi
tratti generali il tema, va detto che l’inutilizzabilità configura una sanzione
processuale che si distingue in : 1.<<patologica>> ipotesi
estrema e residuale, ravvisabile solo con riguardo a quegli atti la cui
assunzione sia avvenuta in modo contrastante con i principi fondamentali
dell’ordinamento o tale da pregiudicare in modo grave ed insuperabile il
diritto di difesa dell’imputato (Cfr. Cass. pen. Sez. III, 24 Gennaio 2006, n.
6757, Gatti, Arch. Nuova Proc. Pen., 2006, 3, 298)1,
la utilizzazione di tali atti probatori, assunti contra legem, è vietata in
modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del
procedimento. Secondo Cass. Sez. IV (3 marzo
2006, n. 7664) “Nel descritto fenomeno rientrano tanto le prove oggettivamente
vietate quanto le prove comunque formate o acquisite in violazione - o con modalità
lesive - dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione e,
perciò, assoluti e irrinunciabili, a prescindere dall’esistenza di un espresso
o tacito divieto al loro impiego nel procedimento contenuto nella legge
processuale.....In questi casi la disciplina normativa costruisce il divieto di
utilizzazione della prova in termini di operatività assoluta.”2 ; 2.<<fisiologica>>cioè
quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù
dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte secundum legem, ma
diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’articolo
526 c.p.p., con i correlati divieti di lettura di cui all’articolo 514 c.p.p..
In tale situazione l’eventuale il vizio dell’atto probatorio è vanificato dalal
scelta del rito a prova contratta, in virtù del quale acquisiscono a dignità di
prova quegli atti d’indagine compiuti senza le forme del contraddittorio
dibattimentale. 3. <<relativa>>
concernente atti all’origine conformi allo stereotipo normativo, ma afflitti da
un vizio sopravvenuto come ad esempio quella prevista dall’art. 350 c.p.p.,
comma 7 c.p.p. per le dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria
dall’indagato(Cfr. Trib. Camerino, 13 Dicembre 2005, Arch. Nuova Proc. Pen.,
2006, 2, 202) o quella di cui all’articolo 360 c.p.p., comma 5, per
l’accertamento tecnico non ripetibile eseguito dal Pubblico Ministero in
difetto delle condizioni indicate. Si tratta di sanzioni processuali
che attengono precipuamente alla fase dibattimentale. Esaurita tale premessa, si deve
valutare la fondatezza delle ragioni che inducono a scelte differenti, in
relazione a comportamenti non comunicativi, a seconda che si verta in ambito
domestico o meramente privato.
DEFINIZIONE DI COMPORTAMENTI
NON COMUNICATIVI
La definizione di comportamenti
non comunicativi è desumibile in parallelo, considerando in via preliminare ciò
che la giurisprudenza definisce come comunicazione. La nota sentenza Greco (Cass.
pen. Sez. VI, 10 Novembre 1997, n. 4397, in Cass. Pen., 1999, 1188 nota di
CAMON, Dir. Pen. e Processo, 1998, 10, 1265, Studium juris, 1998, 542) affermò,
infatti, che “la nozione di comunicazione consiste nello scambio di messaggi
fra più soggetti, in qualsiasi modo realizzati (ad esempio, tramite colloquio
orale o anche gestuale)….” e che “l’attività di intercettazione è
appunto diretta a captare tali messaggi,”. Nel corpo della medesima
pronunzia il Supremo Collegio sostenne, poi, che attività del tutto differente
dall’usuale azione intercettativa sopra descritta, è quella di “captare
immagini relative alla mera presenza di cose o persone o ai loro movimenti, non
funzionali alla captazione di messaggi”. All’evidenza emerse, quindi che,
nella prima fattispecie, lo scopo era quello di percepire sul piano uditivo ed
interpretativo conversazioni, onde inferire da esse contenuti illeciti (già di
per sé prove di reato oppure prodromiche a successivi ulteriori condotte
criminose anche di terzi), mentre nella seconda ipotesi l’attività di indagine,
prettamente visiva, era finalizzata a provare la presenza di uno o più soggetti
in un luogo, in un preciso momento (circostanza che può fungere da elementi di
conferma di altri e diversi elementi di prova). La ratio dei due mezzi di prova,
profondamente diversa, in quanto essi possono apparire solo all’apparenza
similari fra loro, ha condizionato e non poco la collocazione degli stessi
nella sistematica del codice di rito. L’approdo giurisprudenziale sul
punto, infatti, è stato quello di ritenere che “Le riprese videofilmate
costituiscono prove documentali non disciplinate dalla legge, previste
dall’art. 189 c.p.p. e pertanto non possono considerarsi assimilabili al
"genus" delle intercettazioni di comunicazioni e conversazioni. Ne
discende che ad esse non si applica la disciplina prevista dagli artt. 266
c.p.p. e segg., fermo restando il limite della tutela della libertà domiciliare
di cui all’art. 14 Cost., che va valutato di volta in volta” [Cfr. Cass.
pen. Sez. V, 7 Maggio 2004, n. 24715 (rv. 228732) Massa e altri Arch. Nuova
Proc. Pen., 2005, 526CED Cassazione, 2004Riv. Pen., 2005, 637]. Conformemente si è espressa la
Sez. VI, con la decisione 21 Gennaio 2004 (rv. 229003) Flori, CED Cassazione,
2004 Arch. Nuova Proc. Pen., 2005, 525, sostenendo che “Le riprese
videofilmate costituiscono, ai sensi dell’art. 189 c.p.p. prove documentali non
disciplinate dalla legge, come tali non soggette alle disposizioni che regolano
l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni e, dunque, quando non
sussistano limiti connessi all’inviolabilità del domicilio, possono essere
liberamente disposte ed effettuate. Ne consegue che non è configurabile alcuna
sanzione di inutilizzabilità quando dette riprese siano state realizzate a
seguito di informazioni fornite da anonimi”.
LE VIDEOREGISTRAZIONI QUALI
PROVE ATIPICHE EX ART. 189 C.P.P. ED I LIMITI ALL’UTILIZZABILITA’ DEI RISULTATI
DI TALE ATTIVITA’ DI INDAGINE
Il principio, così espresso, in
sede di legittimità, e trasfuso nelle massime che precedono ha sancito,
inoltre, con nettezza ed univocità il carattere di prova atipica propria della
ripresa filmata. La ulteriore conseguenza che è,
così, derivata si pone nel senso che il mezzo di prova in questione, per il
fine che persegue e per la sua natura tecnica, rientrando esclusivamente nella
previsione dell’art. 189 c.p.p.3,
rimane assolutamente ultroneo alla disciplina concernente le intercettazioni
sia telefoniche, che ambientali. In relazione agli esiti che
derivano dall’attivazione del mezzo di ricerca della prova si deve osservare
che essi rientrano nel novero delle prove documentali indicate nell’art. 234
co. 1 c.p.p. . Ma vi è di più. Il mancato inserimento delle
riprese video filmate nella metodica delle intercettazioni di conversazioni fa
sì che il limite in base al quale debba essere valutata l’utilizzabilità del
mezzo di prova e degli elementi che in forza dello stesso sono stati raccolti
sia quello dell’art. 144
della Costituzione [Cfr. Sez. IV, 18 Giugno 2003, n. 44484 (rv. 226407),
Kazazi, Riv. Pen., 2004, 912, Arch. Nuova Proc. Pen., 2004, 589]. Viene, così, introdotta
un’ulteriore tematica concernente l’effettivo ambito di valida utilizzazione della
videoripresa a fini processuali e probatori. Essa si sostanzia di un doppio
binario, puramente apparente, perché se: da un lato, infatti, va distinta
l’ipotesi di comportamenti non comunicativi percepiti in ambito domiciliare e
dall’altro, ci si deve soffermare sul caso in cui la videoregistrazione avvenga
in un luogo che pur utilizzato per attività riservate e private, non rientra
nel concetto di domicilio, si può tranquillamente constatare che le due
ipotesi non presentano, in realtà, sul piano dei presupposti giustificativi e
dei requisiti specifici del decreto autorizzativo, che entrambi postulano,
modifiche apprezzabili. Essi, infatti, vengono in gioco,
laddove sostengono un regime processuale che si differisce, invece,
radicalmente da quello concernente video riprese effettuate in luoghi pubblici.
LA DEFINIZIONE DI DOMICILIO ED
I LUOGHI IN ESSA RICOMPRESI
Ad ogni buon conto, di
particolare rilievo appare il fine di giungere a formulare una corretta
definizione del concetto di domicilio. In ordine a tale nozione sono
stati versati fiumi di inchiostro, sino a che la Corte Costituzionale, con
l’ordinanza 24 Aprile 2002 n. 135, non ha posto alcuni limiti precisi alla
materia. Il giudice delle leggi ha avuto
modo di affermare la compatibilità della videoregistrazione (nonostante per la
capacità dimostrativa fortemente intrusiva, carica di effetti lesivi per il
diritto alla riservatezza personale e delle comunicazioni, specie nei casi di
invasione del domicilio) precisando che “le tipologie di «limitazione» del
diritto alla inviolabilità del domicilio, come indicate dal comma 2 dell’art.
14 della Carta, non rappresentano una lista chiusa, cristallizzata sulla base
delle forme di investigazione conosciute all’epoca della Costituente, e dunque
non configurano una tolleranza per le sole forme palesi di intrusione
dell’Autorità, che solo l’evoluzione tecnologica successiva ha reso oggetto di
specifica attenzione da parte dell’ordinamento; si tratta semplicemente, per il
legislatore, di regolare il fenomeno attraverso adeguati istituti e
procedimenti di garanzia”5
(Corte cost., 24 aprile 2002, n. 135, con nota di L. Carli, Videoregistrazione
di immagini e tipizzazione di prove atipiche; sulla pronuncia anche R.
Bricchetti, Spetta al legislatore regolamentare le riprese di tipo non
comunicativo, in Guida dir., 2002, 20, 73). Sta, comunque, di fatto che in
giurisprudenza sono stati considerati luoghi destinati a privata dimora anche
quegli spazi, quali i cortili e i giardini, che costituiscono parte integrante
dell’abitazione, della quale sono destinati al servizio o al migliore godimento
(Cfr. Trib. Genova, 7 Novembre 2005, M.R., Massima redazionale, 2005) Ed ancora la Sez. I Civ., [24
Marzo 2005, n. 6361 (rv. 580829), Mass. Giur. It., 2005, CED Cassazione, 2005]
ha ritenuto che il parametro atto ad identificare la nozione di "privata
dimora" coincida con la nozione rilevante agli effetti del reato di
violazione di domicilio ( art. 614 c.p.), e dunque comprende non soltanto la
casa di abitazione, ma anche qualsiasi luogo destinato permanentemente o
transitoriamente all’esplicazione della vita privata o di attività lavorativa,
e, quindi, qualunque luogo, anche se - appunto - diverso dalla casa di
abitazione, in cui la persona si soffermi per compiere, pur se in modo
contingente e provvisorio, atti della sua vita privata riconducibili al lavoro,
al commercio, allo studio, allo svago. Si tratta di una costruzione
dommatica contestata in dottrina da Bertossi6,
la quale afferma che la nozione di domicilio accolta dal legislatore
costituente è diversa e più ampia di quella accolta dal codice penale, posto
che la tutela costituzionale si riferisce non solo alle private dimore e ai
luoghi che, pur non costituendo dimora, consentono una sia pur temporanea ed
esclusiva disponibilità dello spazio ma anche dei luoghi nei quali è
temporaneamente garantita un’area di intimità e di riservatezza. Tale tesi è ritenuta dall’Autore,
che richiama la pronunzia n. 29169/03 della Sez. III della Corte di Cassazione,
l’unica compatibile con l’art. 8 Convenzione europea dei diritti umani, la quale
sancisce il diritto di ogni persona al «rispetto della sua vita privata»,
facendo divieto di ogni «interferenza di una autorità pubblica nell’esercizio
di questo diritto a meno che l’ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca
una misura (...) necessaria (...) per la prevenzione dei reati (...)» Dalle guarentigie che derivano
dal concetto in esame sono state, invece, escluse le strutture carcerarie,
essendo ritenuta ammissibile e legittima l’intercettazione delle conversazioni
dei detenuti anche se non sussiste il fondato timore che all’interno della
cella si stia svolgendo attività criminosa [Cfr. Cass. pen. Sez. VI, 23
Febbraio 2004, n. 36273 (rv. 229808), Agate, Arch. Nuova Proc. Pen., 2005, 717,
CED Cassazione, 2004]. La Suprema Corte, infatti, pur
richiamando la regola generale in base alla quale l’art. 13 D.L. n. 152 del
1991, ha previsto che qualora il procedimento abbia ad oggetto reati di
criminalità organizzata, l’intercettazione nei luoghi indicati dall’art. 614
c.p. sia consentita anche se non vi è motivo di ritenere che ivi si stia
svolgendo attività criminosa, in pari tempo ha recisamente escluso “che
l’ambiente carcerario, sia esso la cella o la sala colloqui dell’istituto di
detenzione, rientri nel concetto di privata dimora nel possesso e nella
disponibilità dei detenuti, in quanto è pur sempre un luogo sottoposto ad un
diretto controllo dell’Amministrazione penitenziaria che su di esso esercita la
vigilanza ed a cui soltanto compete lo ius excludendi". Con ciò è stata confermata una visione
giurisprudenziale costante (Cfr. Cass., Sez. VI, 9 giugno 2003, Betta, in Mass.
Uff., 226333; Sez. VI, 5 novembre 1999, Bembi, in Giust. Pen., 2000, III, 670;
Sez. II, 20 novembre 1997, Marras, in Cass. Pen., 1999, 1518 e Sez. I, 3 marzo
1997, Telese, in Giust. Pen., 1998, III, 178), ripresa recentemente anche sotto
il profilo dottrinale sia da Aprile-Spiezia, Le intercettazioni telefoniche e
ambientali, Innovazioni tecnologiche e nuove questioni giuridiche, Milano,
2004, 66 e segg. che da Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra
Costituzione e legge ordinaria, Milano, 2002, 16 e segg. . Una definizione, comunque,
appagante del concetto di privata dimora, viene fornita da Sini7,
che afferma che si deve intendere come tale, rifacendosi alla posizione della
giurisprudenza di legittimità8 “quello
adibito all’esercizio di attività che ognuno ha il diritto di svolgere
liberamente e legittimamente senza turbativa da parte di estranei; deve cioè
trattarsi di luoghi che assolvano attualmente e concretamente la funzione di
proteggere la vita privata di coloro che li posseggono, i quali sono titolari
dello ius excludendi alios al fine di tutelare il diritto alla riservatezza
nello svolgimento delle manifestazioni della vita privata della persona che
l’art. 14 Cost. garantisce, proclamando l’inviolabilità del domicilio”.
I RISULTATI INVESTIGATIVI
PROCESSUALMENTE UTILIZZABILI ED IL DOVERE DI MOTIVAZIONE
Ciò posto, si deve osservare che
conclusione consequenziale è quella cui è pervenuta la Sez. IV della Corte di
Cassazione, con la sentenza 16 Marzo 2000, n. 7063, Viskovic e Viskovic e
altri, (in Dir. Pen. e Processo, 2001, 1, 87 nota di FILIPPI), laddove ha
sostenuto che i risultati delle riprese visive in ambienti tutelati dall’art.
14 Cost., [ergo private dimore] sono utilizzabili nel processo se rispettano il
livello minimo di garanzie previste da questa disposizione, cioè se la
limitazione del diritto alla riservatezza sia disposta con atto motivato
dell’autorità giudiziaria, e, quindi, anche con provvedimento motivato del p.m.
. Tale orientamento si pone in
linea armonica con quella parte della dottrina (peraltro assolutamente
condivisibile) che pur mantenendo vigile ed inalterato il ricordato principio
dell’atipicità, assimila, sotto il profilo sistematico, la videoripresa (o
videoregistrazione), alla disciplina delle ispezioni. Carli, in un proprio commento
alla sentenza 135/02 della Consulta (in Dir. Pen. e Processo, 2003, 1, 37)
sostiene la ontologica riconducibilità della videoregistrazione alla tipologia
dell’ispezione e fa conseguire a tale premessa la considerazione che, “anche
nei casi di assoluta urgenza, secondo quanto si ricava dall’art. 244 comma 1
c.p.p. in combinato disposto con i commi 5 e 6 dell’art. 364, la
videoregistrazione, proprio in quanto assimilabile ad un’ispezione, debba
essere sempre preceduta da un decreto ad hoc dell’autorità giudiziaria. La
quale è tenuta peraltro, in ossequio al capoverso dell’art. 13 Cost., a
fornirne in proposito specifica motivazione in fatto e diritto.” Nel dovere di motivare la scelta
di operare tramite un mezzo di ricerca della prova dotato di particolare ed
indubbia invasività, quindi, riposa il carattere comune sia alla
videoregistrazione operata in un luogo rientrante nell’alveo del privato
domicilio, che a quella svolta in siti che, comunque, siano destinati ad
attività di natura privata (come nello specifico i privè di un circolo). E’ questo, pertanto, il
denominatore comune che differenzia le fattispecie testè rammentate rispetto
alla categoria generale della videoripresa in locali pubblici. La Corte, inoltre, con la
sentenza che si commenta, esclude, pertanto, tassativamente la possibilità di
un utilizzo improprio del carattere di atipicità della prova, nel senso che
siffatto concetto, sinonimo del potere riconosciuto al giudice dal nuovo sistema
processuale, di assumere prove non disciplinate dalla legge, purchè ne
verifichi l’ammissibilità e l’affidabilità (Cfr. Cass. pen. Sez. III, 22
Gennaio 1997, n. 2065, Winkler, Cass. Pen., 1998, 2384, Giust. Pen., 1998, III,
121) non può significare deroga ai limiti costituzionalmente sanciti a tutela
del domicilio e dei luoghi ad essi consimilari. È, pertanto, necessario invece,
che, per dirla con il Carli, che “sia in ogni caso rispettato, con la
«libertà morale» del cittadino, il principio costituzionale dell’indicata
doppia riserva, di legge e di giurisdizione. Ossia, che la legge disciplini e
preveda in via generale il «mezzo di ricerca della prova» e l’autorità
giudiziaria possa pronunciarsi nel concreto sulla sua corretta attuazione”. La classificazione della prova
come atipica, quindi, attiene solo alla possibilità che nel novero degli
elementi, che le parti possono addurre, nell’esercizio della dialettica propria
del contraddittorio su cui si regge il processo penale, si possa fare
riferimento a dati privi del connotato della predeterminazione legislativa in
ossequio ai principi della non tassatività dei mezzi di prova e del libero
convincimento. (Cfr. Cass. pen. Sez. V, 7 Dicembre 2004, n. 5672, Scoppa, Guida
al Diritto, 2005, 11, 97). L’autonomia della categoria
probatoria in oggetto, conseguenza dell’assenza di una previsione codicistica
di tassatività delle prova e dei relativi mezzi di raccolta, non sfugge, né può
sfuggire, quindi, soprattutto alla sottoposizione al principio generale dell’onere
di motivazione, a pena di inutilizzabilità. La ragione di tale manifesta
preoccupazione appare lampante, in quanto non sarebbe per nulla tollerabile, in
fatto ed in diritto, una situazione di impossibilità all’esercizio di un valido
e penetrante controllo, da parte di un giudice realmente terzo, in ordine
all’impulso che abbia indotto a dare corso a simile attività investigativa. La prevenzione di qualsivoglia
forma di abuso in materia è, pertanto, doverosa ed è fine rispetto al quale non
è ammessa abdicazione di alcun genere. In proposito, quindi, va
sottolineato come la pronunzia del Tribunale di Bologna, che a completamento
della sentenza del Supremo Collegio, si allega, ponga l’accento sulla necessità
di fornire una motivazione ad hoc nel caso si verta in ambito di pluralità di
mezzi di raccolta della prova, in relazione ad ognuno di essi, attesa
l’individualità e l’autonomia ravvisabile in simile ipotesi. Vale a dire che se, al contempo,
si intende dare corso ad intercettazioni telefoniche o ambientali e corroborare
le stesse con riprese video, non è configurabile la possibilità di una
motivazione tout- court che giustifichi l’attività nel suo complesso, facendo
rientrare la videoripresa nell’ampio genus della previsione intercettativa. Senza, infatti, reiterare la già
ricordata, quanto evidente distinzione ontologica ed eziologica che si
riscontra fra intercettazione e video ripresa di condotte non comunicative, non
è revocabile in dubbio che proprio tale differenza esclude ogni possibile
ricorso ad una motivazione globalizzante e priva di caratteri individualizzanti
lo specifico atto ed ogni possibile confusione qualificativa tra i due
strumenti di acquisizione probatoria. Si impone, pertanto – e sul punto
il Tribunale appare condivisibilmente categorico – un riferimento esplicito
alla necessità ed indifferibilità della captazione delle immagini, con
particolare riferimento ai comportamenti intersoggettivi all’interno dei luoghi
privati oggetto dell’investigazione, siano essi concretanti il vero e proprio
domicilio, sia essi assurgano solamente a luoghi di carattere privato.
(Nota di Carlo Alberto
Zaina)
Tribunale
di Bologna Sez. Riesame ud. 18 Settembre 2006
Va invero accolta l’eccezione di
inutilizzabilità delle video-riprese all’interno dei privè del locale il
Capriccio, posto che, indipendentemente dal fatto che atteggiamenti a sfondo
sessuale possano o meno integrare comportamenti comunicativi – ciò in funzione
dell’inclusione tra le prove tipiche o tra quelle atipiche dei risultati delle
captazioni in luoghi, quali i privè, che, pur destinati ad attività riservate,
non sono inquadrabili nell’ambito del domicilio privato, come da sentenza delle
S.U. Della Corte di Cassazione n. 26795/06 del 28.7.2006 – è dato rilevare, nel
decreto autorizzativo del G.I.P. procedente datato 22.11.2005, la totale
mancanza di motivazione delle ragioni giustificanti le riprese visive; ancorché
il G.I.P. abbia, nella parte dispositiva del decreto, autorizzato “le
operazioni di intercettazione in conformità alla richiesta” del P.M., egli ha
esclusivamente fatto riferimento, nella parte motiva, alle intercettazioni
delle conversazioni tra presenti, sancendone la necessità ai fini probatori per
la prosecuzione delle indagini e per l’accertamento di ulteriori comportamenti
illeciti; il richiamo per relationem alla richiesta del P.M., contenuto nella
parte introduttiva del decreto autorizzativo, non soddisfa l’onere
motivazionale, posto anche in detta richiesta, pur conclusasi con l’istanza di
autorizzazione ad intercettazioni audio-visive, nulla si dice in ordine alla
necessità ed indifferibilità della captazione delle immagini, con particolare
riferimento ai comportamenti intersoggettivi all’interno dei privè; il P.M. ha
infatti fatto riferimento solo all’indispensabilità di “intercettazione delle
conversazioni/comunicazioni telefoniche che interverranno sulle utenze di cui
infra e delle comunicazioni tra presenti (cd ambientali) da eseguirsi nei
luoghi appresso indicati” - la corposa richiesta di ben 9 pagine non assolve
alcun onere motivazionale in ordine alle necessità probatorie delle
video-riprese, essendo in essa contenuto solo il resoconto delle indagini nel
frattempo espletate;
le video-registrazioni effettuate
nel presente procedimento all’interno dei privè-video-registrazioni che
costituiscono prova atipica ai sensi dell’art. 189 cpp e che devono essere
autorizzate con congrua motivazione (cfr Cass. Pen. S.U. Sent. 26795/06 del
28.7.2006) – non possono quindi essere utilizzate per valutare gli indizi a
carico degli indagati; non ugualmente si conclude per le audio registrazioni
delle conversazioni tra presenti, pienamente utilizzabili, posto che di esse è
stata esplicitata la necessità probatoria e la loro indifferibilità con
motivazione congrua ed esauriente.
1 Per gli effetti dell’inutilizzabilità cfr. Cass. pen.
Sez. II, 12-01-2006, n. 2817 (rv. 232868), Princi, CED Cassazione, 2006 “L’inutilizzabilità
delle intercettazioni eseguite fuori dai casi consentiti o nell’inosservanza
delle disposizioni stabilite dagli artt. 267 e 268, commi primo e terzo, cod.
proc. pen. attiene non soltanto al contenuto delle conversazioni ma anche ad
ogni altro dato da esse desumibile, come le generalità dei soggetti coinvolti
nella captazione, dal momento che si tratta di dato informativo non desunto da
altri accertamenti ma proprio e soltanto dai risultati delle intercettazioni”. 2 Prosegue la sentenza richiamando “ Cass. S.U. 13
luglio 1998, Gallieri e Cass. S.U. 23 febbraio 2000, D’Amuri, in tema di
tabulati telefonici; Cass. S.U. 25 marzo 1998, D’Abramo e Cass. S.U. 25 marzo
1998, Savino, sulle modalità di documentazione dell’interrogatorio di persona
in stato di detenzione; Cass. S.U. 20 novembre 1996, Glicora e Cass. S.U. 27
marzo 1996, Monteleone, sulle conseguenze della mancata allegazione al giudice
per le indagini preliminari o al tribunale della libertà dei decreti
autorizzativi di intercettazioni telefoniche, ai fini della sussistenza dei
gravi indizi di colpevolezza”. 3 ART. 189 C.P.P. PROVE NON DISCIPLINATE DALLA LEGGE 1 .
QUANDO È RICHIESTA UNA PROVA NON DISCIPLINATA DALLA LEGGE, IL GIUDICE PUÒ
ASSUMERLA SE ESSA RISULTA IDONEA AD ASSICURARE L’ACCERTAMENTO DEI FATTI E NON
PREGIUDICA LA LIBERTÀ MORALE DELLA PERSONA. IL GIUDICE PROVVEDE ALL’AMMISSIONE,
SENTITE LE PARTI SULLE MODALITÀ DI ASSUNZIONE DELLA PROVA. 4 Art. 14 Costituzione. Il
domicilio è inviolabile. Non
vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e
modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della
libertà personale. Gli
accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a
fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali. 5 OSSERVATORIO DEI CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI Leo
Guglielmo art. 234 c.p.p.. art. 266,Dir. Pen. e Processo, 2003, 11, 1347 6 INTERCETTAZIONI AMBIENTALI E TUTELA DELLA LIBERTÀ
DOMICILIARE Bertossi Cinzia Cass. pen. Sez. III, 11-06-2003, n. 29169, Dir.
Pen. e Processo, 2004, 7, 869 7 Nota sulla questione di legittimità costituzionale
dell’art. 266, 2° comma, c. p. p., nella parte in cui consente
l’intercettazione delle comunicazioni dei detenuti in carcere, anche in assenza
del fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo attività criminosa,
Cass. pen. Sez. VI, 23-02-2004, n. 36273, Giur. It., 2005, 10, Diritto e
Procedura Penale. 8 Cass., Sez. II, 20 novembre 1997, Marras, cit.; nonché
Id., Sez. I, 22 gennaio 1996, Porcaro, ivi, 1997, 1082; Id., Sez. I, 20
dicembre 1991, Marsella, ivi, 1995, 989.
SUPREMA CORTE DI
CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI
Sentenza 28 marzo
2006 - 28 luglio 2006, n. 26795
(Presidente N.
Marvulli, Relatore G. Lattanzi)
RITENUTO IN FATTO
1. A. P. ha proposto ricorso per
cassazione contro l’ordinanza del 18 marzo 2005 con la quale il Tribunale di
Perugia ha confermato la misura della custodia in carcere disposta nei
confronti del ricorrente dal giudice per le indagini preliminari dello stesso
tribunale.
La misura era stata applicata per il reato di associazione per delinquere
finalizzata alla commissione di delitti in materia di prostituzione e per
numerosi delitti scopo, previsti dall’art. 3, n. 3, 4, 6, 8, l. 20 febbraio
1958, n. 75 e aggravati ai sensi del successivo art. 4, n. 7, della stessa
legge. In particolare a P. era stato contestato di essersi associato con altri
per far svolgere in un locale pubblico di Bastia Umbra, denominato "Bora
Bora", la prostituzione da parte numerose ragazze, presenti come ballerine
di lap dance, di averle in più occasioni reclutate e di avere poi favorito e
sfruttato la loro prostituzione.
Come risulta dall’ordinanza impugnata, il 25 giugno 2004 i carabinieri della
stazione di Bastia Umbra avevano effettuato un sopralluogo, all’interno del
locale "Bora Bora" ove era in corso uno spettacolo di lap dance. Al
piano terra del locale c’era una pista, adibita a palcoscenico, circondata dai
posti a sedere riservati al pubblico; al piano superiore, costituito da un
soppalco collegato con la sala per mezzo di una scala, erano stati ricavati dei
camerini, denominati "privés", separati dal corridoio mediante
pesanti tende, e arredati con un divanetto, con un tavolino e con sedie.
Al momento dell’accesso «era in corso uno spettacolo di lap dance ove
l’artista, completamente nuda, con musica di sottofondo, ballava strofinando i
propri organi sessuali contro un palo metallico posto verticalmente sulla
pista». Nei privés i carabinieri avevano sorpreso due coppie: gli uomini, «con
i pantaloni indosso, ... erano seduti sul divanetto» e le donne, nude, «erano
sedute, a gambe divaricate, sul bacino dell’uomo» e strofinavano «il pube
contro gli organi sessuali» di questo.
Dalle dichiarazioni dei clienti e del personale dipendente era emerso che per
appartarsi nei privés per dieci minuti con la ragazza prescelta occorreva
pagare alla cassiera cinquanta euro. Gli addetti al locale controllavano che il
cliente nel privé rispettasse le regole, e in particolare quella di non
spogliarsi; al termine dei dieci minuti aprivano la tenda per mettere fine alle
effusioni, che potevano però continuare se il cliente pagava immediatamente
altri cinquanta euro.
In seguito all’informativa dei carabinieri il p. m. aveva chiesto al g.i.p.
l’autorizzazione a effettuare alcune intercettazioni telefoniche e a disporre
"operazioni di ripresa visiva" all’interno del "Bora Bora".
Le richieste erano state accolte e le videoriprese erano state autorizzate con
un modulo, prestampato, che faceva riferimento a «intercettazioni di
conversazioni telefoniche tra presenti».
Le videoriprese erano state eseguite con apparecchi di captazione e
trasmissione a distanza, ovvero con un sistema di microtelecamere posizionate
sul soffitto del locale, in modo da riprendere ad ampio raggio ciò che avveniva
al suo interno, anche nei privés, che erano privi del soffitto.
Per quanto in particolare concerne la posizione di P., l’ordinanza applicativa
della misura cautelare aveva, tra l’altro, posto in risalto il carattere
gravemente indiziante delle intercettazioni telefoniche, dalle quali emergeva
come questi – formalmente assunto per fare il direttore di sala – avesse il
compito di reclutare e indirizzare le ragazze nel locale, ben consapevole dell’attività
alla quale esse erano destinate.
In seguito alla richiesta di riesame, il Tribunale di Perugia, come si è detto
inizialmente, ha confermato il provvedimento cautelare, avendo ritenuto privi
di fondamento i motivi di impugnazione, relativi alla inutilizzabilità dei
risultati delle intercettazioni telefoniche, per mancanza di motivazione dei
decreti autorizzativi, e alla inutilizzabilità delle riprese visive eseguite
all’interno dei privés.
Il 25 marzo 2005 il g.i.p. ha sostituito la misura della custodia in carcere
con quella degli arresti domiciliari e successivamente, il 4 maggio 2005, l’ha
sostituita con quella del divieto di dimora nel territorio della Regione
Umbria.
A sostegno del ricorso P. ha enunciato tre motivi:
con i primi due ha dedotto l’inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni
disposte, anche in fase di proroga, per «totale assenza di motivazione» dei
decreti autorizzativi: il g.i.p. avrebbe motivato i decreti solo per
relationem, richiamando – attraverso un mero rinvio recettizio – la richiesta
del p.m. e le informative della polizia giudiziaria (di cui la prima priva
della indicazione della data), senza dare conto dell’autonoma valutazione
effettuata sul contenuto degli atti recepiti;
con il terzo motivo ha sostenuto l’inutilizzabilità delle riprese visive in
quanto effettuate contra legem, in mancanza di una specifica disciplina
normativa della materia, che, considerata la riserva di legge contenuta negli
articoli 13 e 14 Cost., sarebbe stata necessaria per consentire all’autorità
giudiziaria di disporre l’intrusione nella sfera domiciliare; il ricorrente ha
aggiunto che se si volessero giustificare le riprese visive in ambito
domiciliare applicando l’art. 189 c.p.p. sulle prove atipiche si porrebbe
«comunque il problema del pregiudizio arrecato alla libertà morale» e «della
difficoltosa riconduzione allo schema che impone una anticipata valutazione del
potenziale pregiudizio rispetto alla "assunzione" della prova».
2. La terza sezione di questa Corte, con ordinanza del 18 ottobre 2005, dopo
avere espresso l’opinione che i primi due motivi, relativi alle intercettazioni
telefoniche, fossero privi di fondamento, ha rimesso il ricorso alle Sezioni
unite rilevando, con riferimento al terzo motivo, che nella giurisprudenza esiste
un contrasto sulla "legalità", e correlativamente sulla
utilizzabilità, della prova acquisita attraverso la captazione di immagini in
luoghi di privata dimora.
Nell’ordinanza la terza sezione ha ricordato i principi fissati in materia
dalla sentenza della Corte costituzionale n. 125 del 2002: la necessità, ai
fini del superamento della garanzia della inviolabilità del domicilio, non solo
di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, ma anche di una
compiuta disciplina legislativa delle ipotesi e delle modalità di limitazione
della garanzia costituzionale; la riconducibilità della sola captazione visiva
di comportamenti di tipo comunicativo in luoghi di privata dimora alla
disciplina delle intercettazioni di comunicazioni fra presenti, restando però
impregiudicata la questione di costituzionalità delle ipotesi di
videoregistrazione di immagini che non abbiano tale carattere; la necessità di
una regolamentazione legislativa, in conformità dell’art. 14 Cost. nel caso di
intrusione del domicilio con riprese visive non finalizzate alla
intercettazione di comunicazioni .
Secondo l’ordinanza di rimessione, mentre questi principi avrebbero trovato
puntuale applicazione in talune sentenze della S.C. ( Sez. VI, 10 novembre
1997, n. 4397, Greco, rv. 210063, secondo cui non è consentita in luoghi di
privata dimora la captazione di immagini relative alla mera presenza di cose o
persone o ai loro movimenti, non funzionali alla captazione di messaggi; Sez.
I, 29 gennaio 2003, n. 16965, Augugliaro, rv. 224240 e Sez. IV, 19 gennaio
2005, n. 11181, Besnik, rv. 231047, secondo cui i risultati delle
videoregistrazioni effettuate con una videocamera all’interno di una abitazione
privata sono utilizzabili solo se le videoregistrazioni sono dirette a captare
forme di comunicazione gestuale), in altre sarebbe stato accolto un diverso
orientamento, al quale avrebbe dato adesione l’ordinanza impugnata, secondo cui
le riprese video andrebbero considerate come «prove documentali non
disciplinate dalla legge», previste dall’art. 189 c.p.p., e sottratte pertanto
al genus delle intercettazioni di comunicazioni o di conversazioni, con il
limite del rispetto della libertà morale della persona, sancito in via generale
dall’art. 14 Cost., la cui valutazione sarebbe rimessa di volta in volta al
giudice (Sez. IV, 18 giugno 2003, n. 44484, Kazazi, rv. 226407; Sez. V, 25
marzo 1997, n. 1477, Lomuscio, rv.208137; Sez. V, 7 maggio 2004, n. 24715,
Massa, rv. 228732).
Pur dichiarando di aderire all’indirizzo secondo cui anche le prove "atipiche"
o i mezzi di ricerca della prova o i mezzi di indagine non disciplinati dalla
legge non possono essere utilizzati se le modalità di acquisizione sono in
contrasto con norme di legge, dal momento che una diversa soluzione farebbe
della prova atipica uno strumento per rendere utilizzabili prove
illegittimamente acquisite, il Collegio ha considerato necessario un intervento
delle Sezioni unite per ricomporre il quadro interpretativo di una materia
assai delicata per gli evidenti risvolti di natura costituzionale.
Secondo la sezione rimettente, ai fini della decisione occorre affrontare la
seguente questione: «se le riprese video filmate in luogo di privata dimora
siano consentite ove si fuoriesca dall’ipotesi della videoregistrazione di
comportamenti di tipo comunicativo e se esse siano da ricomprendere nella
disciplina della intercettazione delle comunicazioni e debbano, quindi, essere
autorizzate ai sensi dell’art. 266 e seg. c.p.p. o rappresentino, invece, prove
documentali non disciplinate dalla legge a norma dell’art. 189 c.p.p.»
Considerato in diritto
1. Come risulta dalla precedente
esposizione, dopo la pronuncia dell’ordinanza di riesame la misura della
custodia in carcere, applicata al ricorrente, è stata sostituita prima con
quella degli arresti domiciliari e poi con quella del divieto di dimora, perciò
occorre chiedersi se permanga l’interesse al ricorso.
La risposta deve essere affermativa. Certo, in seguito alla sostituzione della
originaria misura cautelare la condizione del ricorrente è radicalmente
cambiata, ma in mancanza di un suo riconoscimento in tal senso non può dirsi
che sia venuto meno l’interesse al ricorso, sia perché i gravi indizi di
colpevolezza posti dal g.i.p. e dal tribunale del riesame a fondamento
dell’originaria misura della custodia in carcere condizionano anche
l’applicazione del divieto di dimora, sia perché, secondo la giurisprudenza di
queste Sezioni unite, anche nel caso limite della revoca della misura cautelare
permane l’interesse al ricorso, dato che l’applicazione della misura potrebbe
«costituire per l’interessato, ai sensi dell’art. 314, comma 2, c.p.p.,
presupposto del diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita
ingiustamente, essendo stato il provvedimento coercitivo emesso o mantenuto
senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273
e 280 c.p.p.» (Sez. un. 13 luglio 1998, Gallieri, rv 211194; analogamente, in
precedenza, Sez. un., 12 ottobre 1993, Durante, rv. 195355; Sez. un., 12
ottobre 1993, Corso, rv. 195357).
Come ha già osservato la terza sezione nell’ordinanza di rimessione i primi due
motivi di ricorso, relativi alle intercettazioni telefoniche, sono privi di
fondamento.
Secondo il ricorrente l’ordinanza impugnata ha errato nel negare che i decreti
autorizzativi delle intercettazioni fossero privi di motivazione,
considerandoli adeguatamente giustificati in virtù del rinvio fatto dal g.i.p.
alla richiesta del p.m. e alle note della polizia giudiziaria che
l’accompagnavano. In particolare sarebbe inconsistente il rinvio operato nel
primo decreto autorizzativo «con la nuda locuzione "nota CC Bastia
Umbra" senza neppure data o altro elemento identificativo».
Al contrario di quanto ha sostenuto il ricorrente deve ritenersi che
l’ordinanza impugnata abbia fatto corretta applicazione dei principi affermati
dalle Sezioni unite. Queste infatti hanno riconosciuto che il decreto
autorizzativo delle intercettazioni può essere motivato anche con un rinvio
alla richiesta del p.m. e agli atti della polizia giudiziaria, purché «si possa
dedurre l’iter cognitivo e valutativo seguito dal giudice e se ne possano
conoscere i risultati, che debbono essere conformi alle prescrizioni della
legge» (Sez. un., 21 giugno 2000, Primavera; ved. anche Sez. un., 26 novembre 2003,
Gatto). E questo approdo ben può essere raggiunto anche con un modulo a stampa
integrato con le parole idonee e realizzare il collegamento con gli atti
richiamati, specie quando essi, come è accaduto nel caso in esame, siano di per
sé eloquenti. Né una volta allegata al provvedimento autorizzativo la nota dei
carabinieri la motivazione per relationem poteva ritenersi carente, come ha
prospettato il ricorrente, solo perché non ne erano stati specificati i dati
identificativi, infatti l’allegazione fisica dell’atto aveva determinato
un’integrazione materiale (e non solo ideale) del decreto, di modo che i dati
identificativi della nota di polizia giudiziaria risultavano senza incertezza
dalla lettura integrale del provvedimento.
2. Il terzo motivo riguarda le riprese visive nei privés e l’esistenza di un
contrasto giurisprudenziale ha indotto la terza sezione a rimetterne l’esame
alle Sezioni unite.
La materia delle riprese visive e delle prove che ne scaturiscono non è
regolata specificamente dalla legge ed è stata più volte rappresentata
l’esigenza di un intervento regolatore del legislatore, anche rispetto alle
riprese che non avvengono in ambito domiciliare e non incontrano perciò i
limiti posti dall’art. 14 Cost. Si tratta di un mezzo di prova al quale non si
può rinunciare, per il fortissimo contenuto informativo che possiede e che,
assai più di quanto possano esserlo altri mezzi, lo fa portatore di certezze
processuali, come ha riconosciuto in modo significativo lo stesso legislatore
quando nell’art. 8 comma 1 ter l. n. 401 del 1989 e succ. modif., per i reati
commessi in occasione di manifestazioni sportive, ha stabilito che «si
considera in stato di flagranza colui il quale, sulla base di documentazione
video fotografica o di altri elementi oggettivi dai quali emerga
inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore».
In mancanza di regole probatorie specifiche la giurisprudenza e la dottrina
hanno fatto riferimento alle disposizioni riguardanti altre prove e ai principi
processuali per trarre indicazioni sulla disciplina applicabile alle riprese
visive e sulla utilizzabilità dei risultati ottenuti. Sono emerse opinioni non
univoche, non solo sulla questione più complessa, relativa alle riprese visive
in ambito domiciliare, ma anche più in generale sulle caratteristiche del mezzo
di prova e sulle norme alle quali deve essere ricondotto.
Il tema da affrontare propone dunque due questioni, quella relativa alle
riprese visive in genere, e quella, più specifica, relativa alle riprese visive
in ambito domiciliare, rispetto alle quali la mancanza di una regolamentazione
normativa aggiunge ai dubbi sulla natura e la formazione della prova altri e
ben più consistenti dubbi sulla loro legittimità, data la doppia riserva di
legge che l’art. 14, comma 2, Cost. ha posto a tutela del domicilio.
3. La giurisprudenza di legittimità ritiene pacificamente utilizzabili come
prova le immagini tratte da riprese visive in luoghi pubblici, tanto se
avvenute al di fuori del procedimento (nella maggior parte dei casi si tratta
di videoregistrazioni effettuate con impianti di videosorveglianza, installati
in esercizi pubblici), quanto se avvenute nell’ambito delle indagini di polizia
giudiziaria.
Secondo un orientamento giurisprudenziale le videoriprese vanno incluse nella
categoria dei «documenti», dato che l’art. 234 c.p.p., innovando rispetto
all’abrogato codice, di rito comprende in tale categoria le rappresentazioni di
«fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia
o qualsiasi altro mezzo». Come espressione di questo orientamento, con
riferimento ad attività extraprocessuali, si possono ricordare Sez. V, 18
ottobre 1993, n. 10309, Fumero, rv. 195556 (relativa a una videoregistrazione
effettuata con un apparecchio installato in un negozio), Sez. III, 15 giugno
1999, n. 11116, Finocchiaro, rv. 214457 (relativa a riprese aeree) e Sez. V, 20
ottobre 2004, n. 46307, Held ed altri, rv. 230394 (relativa a riprese tramite
telecamere a circuito chiuso).
Varie decisioni hanno fatto riferimento all’art. 234 c.p.p. anche per
riconoscere il valore probatorio di riprese effettuate dalla polizia
giudiziaria nel corso delle indagini preliminari: in questo senso si sono
pronunciate Sez. IV, 13 dicembre 1995, n. 1344, Petrangeli, rv. 204048, Sez. V,
25 marzo 1997, n. 1477, Lomuscio, rv. 208137 e Sez. VI, 10 dicembre 1997, n.
4997, Pani, rv. 210579.
Secondo un diverso orientamento, le riprese visive effettuate in luoghi
pubblici devono invece essere inquadrate nell’ambito delle prove atipiche,
previste dall’art. 189 c.p.p., tanto se avvenute al di fuori del procedimento
(Sez. V, 26 ottobre 2001, n. 43491, Tarantino, rv. 220261, con riferimento a
riprese effettuate da una videocamera collocata all’esterno di una banca),
quanto se avvenute nell’ambito delle indagini. In particolare, con riferimento
a questa ipotesi, si è detto che astrattamente il risultato delle riprese
visive costituisce una prova documentale ex art. 234, comma 1, c.p.p., e come
tale può essere utilizzato a fini probatori, sebbene il codice di rito non ne
disciplini le modalità di acquisizione e le regole di utilizzazione. Ciò,
verosimilmente, in quanto il legislatore ha avuto di mira esclusivamente il
documento cinematografico "precostituito" e non il frutto di una
ripresa visiva costituente mezzo di ricerca della prova. In questa prospettiva
le riprese visive rappresenterebbero piuttosto una prova "atipica"
(art. 189 c.p.p.), da acquisire con modalità che non si pongano in conflitto
con norme di legge, e qualora venissero effettuate (per fini di interesse
pubblico quali quelli delle prevenzione e repressione dei reati) in un luogo
pubblico o aperto al pubblico non incontrerebbero alcun limite, perché la
natura del luogo in cui si svolge la condotta implicherebbe una implicita
rinunzia alla riservatezza (Sez. IV, 16 marzo 2000, n. 7063, Viskovic, rv.
217688). Anche secondo Sez. VI, 21 gennaio 2004, n. 7691, Flori, rv. 229003 e
Sez. IV, 18 marzo 2004, n. 37561, Galluzzi, rv. 229137, le riprese visive
effettuate dalla polizia giudiziaria in luoghi pubblici o aperti al pubblico
sono un mezzo atipico di ricerca della prova e non necessitano della preventiva
autorizzazione dell’autorità giudiziaria, in quanto le garanzie previste
dall’art. 14 Cost. si applicano solo per le captazioni visive che riguardano
luoghi di privata dimora. Nello stesso senso si è espressa, da ultimo, Sez. V,
7 maggio 2004, n. 24715, Massa, rv. 228732, con riferimento a riprese
effettuate dalla polizia giudiziaria tramite telecamere installate in un garage
condominiale aperto al transito di un numero indeterminato di persone.
Ipotesi più specifica è quella dell’attività captativa di immagini nell’ambito
delle operazioni di osservazione e pedinamento da parte della polizia
giudiziaria, delle quali sono state ritenute acquisibili agli atti del
dibattimento le relazioni di servizio attestative e documentative (mediante
fotografie e filmati) delle attività svolte (Sez. II, 26 marzo 1997, n. 4095,
Baldini, rv. 207827) o nell’ambito di una perquisizione locale, in quanto la
esecuzione di quest’ultima comprende per definizione l’attività di ispezione e
di documentazione, e la fotografia, mezzo tecnico idoneo a "fissare ed a
prolungare la visione", altro non è che una modalità in cui può
atteggiarsi la doverosa descrizione (Sez. II, 22 maggio 1997, n. 3513,
Acampora, rv. 208076).
4. Non sempre è chiara nella giurisprudenza la distinzione concettuale tra la
prova documentale dell’art. 234 c.p.p. e la prova atipica dell’art. 189 c.p.p.,
e talvolta si ha l’impressione che le immagini videoriprese siano considerate
al tempo stesso documenti e prove atipiche, cioè documenti formati attraverso
una prova atipica. In realtà le due norme non sono complementari ma individuano
forme probatorie alternative; come ha chiarito la Relazione al Progetto
preliminare del vigente codice di rito, la distinzione tra documenti e atti del
procedimento è netta perché «le norme sui documenti sono state concepite e
formulate con esclusivo riferimento ai documenti formati fuori del processo nel
quale si chiede o si dispone che essi facciano ingresso» (Gazzetta ufficiale,
supplemento n. 2 del 24 ottobre 1988, p. 67). Del resto questa distinzione
trova riscontro anche nella giurisprudenza più avvertita della Corte di
cassazione, la quale ha avuto occasione di precisare che «ai fini
dell’ammissione delle prove documentali sono necessarie due condizioni: a) che
il documento risulti materialmente formato fuori, ma non necessariamente prima,
del procedimento; b) che lo stesso oggetto della documentazione extraprocessuale
appartenga al contesto del fatto oggetto di conoscenza giudiziale e non al
contesto del procedimento» (Sez. V, 13 aprile 1999, n. 6887, Gianferrari, rv.
213606; Sez. V, 16 marzo 1999, n. 5337, Di Marco, rv. 213183).
Ciò significa che solo le videoregistrazioni effettuate fuori dal procedimento
possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare quindi una
prova documentale (si pensi ad esempio, oltre che ai casi citati, alle
videoregistrazioni di violenze negli stadi), mentre le altre, effettuate nel
corso delle indagini, costituiscono, secondo il codice, la documentazione
dell’attività investigativa, e non documenti. Esse perciò sono suscettibili di
utilizzazione processuale solo se sono riconducibili a un’altra categoria
probatoria, che la giurisprudenza per le riprese in luoghi pubblici, aperti o
esposti al pubblico ha individuato in quella delle c.d. prove atipiche,
previste dall’art. 189 c.p.p.
Si è obiettato che l’art. 189 c.p.p. prevede un contraddittorio tra le parti
davanti al giudice «sulle modalità di assunzione della prova», mentre le
riprese visive, come atti di indagine, avvengono senza alcun preventivo
contraddittorio. Facendo riferimento a categorie tradizionali può però
rilevarsi che l’obiezione non distingue il mezzo di ricerca della prova,
costituito dalla ripresa visiva, dalla videoregistrazione, cioè dal supporto
sul quale sono fissate le immagini riprese, fonte di prova, e dal mezzo di
prova, che è lo strumento attraverso il quale si acquisisce nel processo il
contenuto rappresentativo del supporto, vale a dire quello che sarà l’elemento
di prova. Il contraddittorio previsto dall’art. 189 c.p.p. non riguarda la
ricerca della prova ma la sua assunzione e interviene dunque, come risulta
chiaramente dalla disposizione, quando il giudice è chiamato a decidere
sull’ammissione della prova.
L’esecuzione delle riprese visive lascia impregiudicata la questione sulla
ammissibilità della prova che ne deriva (sulla quale dovrà pronunciarsi il
giudice quando sarà richiesto della sua assunzione nel dibattimento) e sulla
determinazione dello strumento (perizia o mera riproduzione) che dovrà essere
utilizzato per conoscere e visionare le immagini acquisite.
E’ stata anche posta e dibattuta la questione sulla possibilità di inserire le
videoregistrazioni nel fascicolo per il dibattimento, a norma dell’art. 431,
comma 1, lett. b) c.p.p., considerandole alla stregua di verbali di atti non
ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria (in questo senso Sez. I, 8
ottobre 1997, n. 10145, Mangiolfi, rv. 208736, con riferimento a fotografie di
un blocco stradale), e si è detto che mentre nessuna difficoltà si frappone
all’introduzione nel fascicolo per il dibattimento del verbale della polizia
giudiziaria descrittivo delle attività compiute per effettuare la videoripresa,
alla stessa conclusione non potrebbe pervenirsi per il supporto contenente le
immagini riprese, che l’art. 431 c.p.p. non prevede, verosimilmente perché il
legislatore sarebbe stato «attento soprattutto alle tradizionali forme di documentazione
scritta».
La conclusione negativa non convince dal momento che l’art. 134, comma 4,
c.p.p. nel disciplinare la documentazione degli atti riconosce che al verbale
«può essere aggiunta la riproduzione audiovisiva se assolutamente indispensabile».
In questo caso la riproduzione audiovisiva diventa un elemento integrativo del
verbale, che deve accompagnarlo e che quindi, unitamente al verbale, è
destinato a far parte del fascicolo per il dibattimento. Ciò però non significa
che l’inserimento nel fascicolo per il dibattimento possa avere l’effetto di
attribuire alla videoregistrazione valore probatorio senza il preventivo vaglio
di ammissibilità da parte del giudice, dopo aver sentito le parti a norma
dell’art. 189 c.p.p.
5. Di meno agevole soluzione è la questione sulla legittimità delle
videoriprese in ambito domiciliare e conseguentemente sulla loro utilizzabilità
probatoria.
Sulla questione è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza del 24
aprile 2002, n. 135. La questione era stata sollevata nel corso di un’udienza
preliminare rispetto a riprese visive effettuate in base a un provvedimento del
pubblico ministero. Il giudice aveva dubitato della legittimità costituzionale
degli artt. 189 e 266-271 c.p.p. e, segnatamente, dell’art. 266, comma 2,
c.p.p., nella parte in cui «non estendono la disciplina delle intercettazioni
delle comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’art. 614 c. p. alle
riprese visive o videoregistrazioni effettuate nei medesimi luoghi». La
questione mirava perciò a ottenere una pronuncia additiva che allineasse la
disciplina processuale delle riprese visive in luoghi di privata dimora a
quella delle intercettazioni di comunicazioni fra presenti nei medesimi luoghi,
e la decisione della Corte è stata negativa.
La Corte ha ritenuto che le riprese visive in ambienti domiciliari non siano
precluse in modo assoluto dall’art. 14 Cost. e che il riferimento fatto dal
legislatore costituente solo alle ispezioni, alle perquisizioni e ai sequestri
«non è necessariamente espressivo dell’intento di "tipizzare" le
limitazioni permesse, escludendo a contrario quelle non espressamente
contemplate; poiché esso ben può trovare spiegazione nella circostanza che gli
atti elencati esaurivano le forme di limitazione dell’inviolabilità del
domicilio storicamente radicate e positivamente disciplinate all’epoca di
redazione della Carta, non potendo evidentemente il Costituente tener conto di
forme di intrusione divenute attuali solo per effetto dei progressi tecnici
successivi».
Esclusa pertanto l’esistenza nella Carta costituzionale di un divieto assoluto
della forma di intrusione domiciliare in questione, la Corte ha affermato che
la ripresa visiva quando è finalizzata alla captazione di "comportamenti a
carattere comunicativo" «ben può configurarsi, in concreto, come una forma
di intercettazione di comunicazioni tra presenti», alla quale «è applicabile,
in via interpretativa, la disciplina legislativa della intercettazione
ambientale in luoghi di privata dimora». Nel caso invece in cui si fuoriesca
dalla videoripresa di comportamenti di tipo comunicativo non è possibile
estendere alla captazione di immagini in luoghi tutelati dall’art. 14 Cost. la
normativa dettata dagli artt. 266 e ss. c.p.p., «data la sostanziale eterogeneità
delle situazioni: la limitazione della libertà e segretezza delle
comunicazioni, da un lato; l’invasione della sfera della libertà domiciliare in
quanto tale, dall’altro».
In conclusione, secondo la Corte, «L’ipotesi della videoregistrazione che non
abbia carattere di intercettazione di comunicazioni potrebbe … essere
disciplinata soltanto dal legislatore, nel rispetto delle garanzie
costituzionali dell’art. 14 Cost.; ferma restando, per l’importanza e la
delicatezza degli interessi coinvolti, l’opportunità di un riesame complessivo
della materia da parte del legislatore stesso».
6. La decisione non è priva di ambiguità perché fa apparire inammissibili le
riprese visive di comportamenti non comunicativi effettuati in ambito
domiciliare ma non lo dichiara espressamente, come sarebbe stato naturale in un
contesto in cui le riprese erano avvenute nel presupposto che fosse applicabile
la disposizione dell’art. 189 c.p.p. e il giudice aveva messo in discussione la
legittimità costituzionale di questa norma, oltre che degli artt. 266-271
c.p.p.
E’ chiaro che le regole di garanzia richieste dall’art. 14 Cost. e la
disciplina dei casi e dei modi delle "intrusioni" domiciliari non
possono rinvenirsi nell’art. 189 c.p.p., dato che la disposizione no
Mercoledì, 08 Novembre 2006
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