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Corte di Cassazione 08/11/2006

Videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi in ambito domiciliare

Cassazione , SS.UU. penali, sentenza 28 marzo 2006 n° 26795

La pronunzia del Supremo Collegio (nonchè la decisione del Tribunale di Bologna, Sezione Riesame nella parte che ne recepisce i principi prodromici), che in questa sede si esamina, affronta il problema della qualificazione giuridica delle videoregistrazioni di comportamenti non comunicativi, operate in ambito domiciliare ed in luoghi privati e riservati, ma non domiciliari.
I giudici di legittimità, in primo luogo, ribadiscono quale denominatore comune ad entrambe le ipotesi prese in esame quello della indefettibile necessità di un preliminare provvedimento autorizzativo ad hoc da parte del giudice.
In assenza dello stesso (od in presenza di carenza di motivazione delle specifiche ragioni che ne giustifichino l’adozione) si verte in ambito di inutilizzabilità delle risultanze fattuali derivate dall’esecuzione del mezzo di prova.
E’, infatti, evidente che la rilevante insidiosità del mezzo di ricerca della prova in questione rispetto alla sfera di libertà e riservatezza delle comunicazioni comporta la necessità di un controllo penetrante circa l’esistenza delle esigenze investigative e la finalizzazione delle intercettazioni al relativo soddisfacimento.
La motivaizone, quindi, assolve ad una funzione che non è quella di asseverazione di una ipotesi di accusa, che potrebeb esserte ancora teorica.
Sul punto la Sezione II della corte di Cassazione, con la pronuncia 1 Marzo 2005, n. 10881, Gatto e altri, Guida al Diritto, 2005, 17, 82, ha affermato che la motivazione del decreto non deve esprimere una valutazione sulla fondatezza dell’accusa, ma solo un vaglio di effettiva serietà del progetto investigativo, conseguendone che la principale funzione di garanzia della motivazione del decreto risiede nell’individuazione della specifica vicenda criminosa cui l’autorizzazione si riferisce, in modo da prevenire il rischio di autorizzazione in bianco.
Per meglio inquadrare nei suoi tratti generali il tema, va detto che l’inutilizzabilità configura una sanzione processuale che si distingue in : 1.<<patologica>> ipotesi estrema e residuale, ravvisabile solo con riguardo a quegli atti la cui assunzione sia avvenuta in modo contrastante con i principi fondamentali dell’ordinamento o tale da pregiudicare in modo grave ed insuperabile il diritto di difesa dell’imputato (Cfr. Cass. pen. Sez. III, 24 Gennaio 2006, n. 6757, Gatti, Arch. Nuova Proc. Pen., 2006, 3, 298)1, la utilizzazione di tali atti probatori, assunti contra legem, è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento.
Secondo Cass. Sez. IV (3 marzo 2006, n. 7664) “Nel descritto fenomeno rientrano tanto le prove oggettivamente vietate quanto le prove comunque formate o acquisite in violazione - o con modalità lesive - dei diritti fondamentali della persona tutelati dalla Costituzione e, perciò, assoluti e irrinunciabili, a prescindere dall’esistenza di un espresso o tacito divieto al loro impiego nel procedimento contenuto nella legge processuale.....In questi casi la disciplina normativa costruisce il divieto di utilizzazione della prova in termini di operatività assoluta.”2 ;
2.<<fisiologica>>cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte secundum legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’articolo 526 c.p.p., con i correlati divieti di lettura di cui all’articolo 514 c.p.p.. In tale situazione l’eventuale il vizio dell’atto probatorio è vanificato dalal scelta del rito a prova contratta, in virtù del quale acquisiscono a dignità di prova quegli atti d’indagine compiuti senza le forme del contraddittorio dibattimentale.
3. <<relativa>> concernente atti all’origine conformi allo stereotipo normativo, ma afflitti da un vizio sopravvenuto come ad esempio quella prevista dall’art. 350 c.p.p., comma 7 c.p.p. per le dichiarazioni spontanee rese alla polizia giudiziaria dall’indagato(Cfr. Trib. Camerino, 13 Dicembre 2005, Arch. Nuova Proc. Pen., 2006, 2, 202) o quella di cui all’articolo 360 c.p.p., comma 5, per l’accertamento tecnico non ripetibile eseguito dal Pubblico Ministero in difetto delle condizioni indicate.
Si tratta di sanzioni processuali che attengono precipuamente alla fase dibattimentale.
Esaurita tale premessa, si deve valutare la fondatezza delle ragioni che inducono a scelte differenti, in relazione a comportamenti non comunicativi, a seconda che si verta in ambito domestico o meramente privato.

DEFINIZIONE DI COMPORTAMENTI NON COMUNICATIVI

La definizione di comportamenti non comunicativi è desumibile in parallelo, considerando in via preliminare ciò che la giurisprudenza definisce come comunicazione.
La nota sentenza Greco (Cass. pen. Sez. VI, 10 Novembre 1997, n. 4397, in Cass. Pen., 1999, 1188 nota di CAMON, Dir. Pen. e Processo, 1998, 10, 1265, Studium juris, 1998, 542) affermò, infatti, che “la nozione di comunicazione consiste nello scambio di messaggi fra più soggetti, in qualsiasi modo realizzati (ad esempio, tramite colloquio orale o anche gestuale)….” e che “l’attività di intercettazione è appunto diretta a captare tali messaggi,”.
Nel corpo della medesima pronunzia il Supremo Collegio sostenne, poi, che attività del tutto differente dall’usuale azione intercettativa sopra descritta, è quella di “captare immagini relative alla mera presenza di cose o persone o ai loro movimenti, non funzionali alla captazione di messaggi”.
All’evidenza emerse, quindi che, nella prima fattispecie, lo scopo era quello di percepire sul piano uditivo ed interpretativo conversazioni, onde inferire da esse contenuti illeciti (già di per sé prove di reato oppure prodromiche a successivi ulteriori condotte criminose anche di terzi), mentre nella seconda ipotesi l’attività di indagine, prettamente visiva, era finalizzata a provare la presenza di uno o più soggetti in un luogo, in un preciso momento (circostanza che può fungere da elementi di conferma di altri e diversi elementi di prova).
La ratio dei due mezzi di prova, profondamente diversa, in quanto essi possono apparire solo all’apparenza similari fra loro, ha condizionato e non poco la collocazione degli stessi nella sistematica del codice di rito.
L’approdo giurisprudenziale sul punto, infatti, è stato quello di ritenere che “Le riprese videofilmate costituiscono prove documentali non disciplinate dalla legge, previste dall’art. 189 c.p.p. e pertanto non possono considerarsi assimilabili al "genus" delle intercettazioni di comunicazioni e conversazioni. Ne discende che ad esse non si applica la disciplina prevista dagli artt. 266 c.p.p. e segg., fermo restando il limite della tutela della libertà domiciliare di cui all’art. 14 Cost., che va valutato di volta in volta” [Cfr. Cass. pen. Sez. V, 7 Maggio 2004, n. 24715 (rv. 228732) Massa e altri Arch. Nuova Proc. Pen., 2005, 526CED Cassazione, 2004Riv. Pen., 2005, 637].
Conformemente si è espressa la Sez. VI, con la decisione 21 Gennaio 2004 (rv. 229003) Flori, CED Cassazione, 2004 Arch. Nuova Proc. Pen., 2005, 525, sostenendo che “Le riprese videofilmate costituiscono, ai sensi dell’art. 189 c.p.p. prove documentali non disciplinate dalla legge, come tali non soggette alle disposizioni che regolano l’intercettazione di conversazioni o comunicazioni e, dunque, quando non sussistano limiti connessi all’inviolabilità del domicilio, possono essere liberamente disposte ed effettuate. Ne consegue che non è configurabile alcuna sanzione di inutilizzabilità quando dette riprese siano state realizzate a seguito di informazioni fornite da anonimi”.

LE VIDEOREGISTRAZIONI QUALI PROVE ATIPICHE EX ART. 189 C.P.P. ED I LIMITI ALL’UTILIZZABILITA’ DEI RISULTATI DI TALE ATTIVITA’ DI INDAGINE

Il principio, così espresso, in sede di legittimità, e trasfuso nelle massime che precedono ha sancito, inoltre, con nettezza ed univocità il carattere di prova atipica propria della ripresa filmata.
La ulteriore conseguenza che è, così, derivata si pone nel senso che il mezzo di prova in questione, per il fine che persegue e per la sua natura tecnica, rientrando esclusivamente nella previsione dell’art. 189 c.p.p.3, rimane assolutamente ultroneo alla disciplina concernente le intercettazioni sia telefoniche, che ambientali.
In relazione agli esiti che derivano dall’attivazione del mezzo di ricerca della prova si deve osservare che essi rientrano nel novero delle prove documentali indicate nell’art. 234 co. 1 c.p.p. .
Ma vi è di più.
Il mancato inserimento delle riprese video filmate nella metodica delle intercettazioni di conversazioni fa sì che il limite in base al quale debba essere valutata l’utilizzabilità del mezzo di prova e degli elementi che in forza dello stesso sono stati raccolti sia quello dell’art. 144 della Costituzione [Cfr. Sez. IV, 18 Giugno 2003, n. 44484 (rv. 226407), Kazazi, Riv. Pen., 2004, 912, Arch. Nuova Proc. Pen., 2004, 589].
Viene, così, introdotta un’ulteriore tematica concernente l’effettivo ambito di valida utilizzazione della videoripresa a fini processuali e probatori.
Essa si sostanzia di un doppio binario, puramente apparente, perché se: da un lato, infatti, va distinta l’ipotesi di comportamenti non comunicativi percepiti in ambito domiciliare e dall’altro, ci si deve soffermare sul caso in cui la videoregistrazione avvenga in un luogo che pur utilizzato per attività riservate e private, non rientra nel concetto di domicilio, si può tranquillamente constatare che le due ipotesi non presentano, in realtà, sul piano dei presupposti giustificativi e dei requisiti specifici del decreto autorizzativo, che entrambi postulano, modifiche apprezzabili.
Essi, infatti, vengono in gioco, laddove sostengono un regime processuale che si differisce, invece, radicalmente da quello concernente video riprese effettuate in luoghi pubblici.

LA DEFINIZIONE DI DOMICILIO ED I LUOGHI IN ESSA RICOMPRESI

Ad ogni buon conto, di particolare rilievo appare il fine di giungere a formulare una corretta definizione del concetto di domicilio.
In ordine a tale nozione sono stati versati fiumi di inchiostro, sino a che la Corte Costituzionale, con l’ordinanza 24 Aprile 2002 n. 135, non ha posto alcuni limiti precisi alla materia.
Il giudice delle leggi ha avuto modo di affermare la compatibilità della videoregistrazione (nonostante per la capacità dimostrativa fortemente intrusiva, carica di effetti lesivi per il diritto alla riservatezza personale e delle comunicazioni, specie nei casi di invasione del domicilio) precisando che “le tipologie di «limitazione» del diritto alla inviolabilità del domicilio, come indicate dal comma 2 dell’art. 14 della Carta, non rappresentano una lista chiusa, cristallizzata sulla base delle forme di investigazione conosciute all’epoca della Costituente, e dunque non configurano una tolleranza per le sole forme palesi di intrusione dell’Autorità, che solo l’evoluzione tecnologica successiva ha reso oggetto di specifica attenzione da parte dell’ordinamento; si tratta semplicemente, per il legislatore, di regolare il fenomeno attraverso adeguati istituti e procedimenti di garanzia5 (Corte cost., 24 aprile 2002, n. 135, con nota di L. Carli, Videoregistrazione di immagini e tipizzazione di prove atipiche; sulla pronuncia anche R. Bricchetti, Spetta al legislatore regolamentare le riprese di tipo non comunicativo, in Guida dir., 2002, 20, 73).
Sta, comunque, di fatto che in giurisprudenza sono stati considerati luoghi destinati a privata dimora anche quegli spazi, quali i cortili e i giardini, che costituiscono parte integrante dell’abitazione, della quale sono destinati al servizio o al migliore godimento (Cfr. Trib. Genova, 7 Novembre 2005, M.R., Massima redazionale, 2005)
Ed ancora la Sez. I Civ., [24 Marzo 2005, n. 6361 (rv. 580829), Mass. Giur. It., 2005, CED Cassazione, 2005] ha ritenuto che il parametro atto ad identificare la nozione di "privata dimora" coincida con la nozione rilevante agli effetti del reato di violazione di domicilio ( art. 614 c.p.), e dunque comprende non soltanto la casa di abitazione, ma anche qualsiasi luogo destinato permanentemente o transitoriamente all’esplicazione della vita privata o di attività lavorativa, e, quindi, qualunque luogo, anche se - appunto - diverso dalla casa di abitazione, in cui la persona si soffermi per compiere, pur se in modo contingente e provvisorio, atti della sua vita privata riconducibili al lavoro, al commercio, allo studio, allo svago.
Si tratta di una costruzione dommatica contestata in dottrina da Bertossi6, la quale afferma che la nozione di domicilio accolta dal legislatore costituente è diversa e più ampia di quella accolta dal codice penale, posto che la tutela costituzionale si riferisce non solo alle private dimore e ai luoghi che, pur non costituendo dimora, consentono una sia pur temporanea ed esclusiva disponibilità dello spazio ma anche dei luoghi nei quali è temporaneamente garantita un’area di intimità e di riservatezza.
Tale tesi è ritenuta dall’Autore, che richiama la pronunzia n. 29169/03 della Sez. III della Corte di Cassazione, l’unica compatibile con l’art. 8 Convenzione europea dei diritti umani, la quale sancisce il diritto di ogni persona al «rispetto della sua vita privata», facendo divieto di ogni «interferenza di una autorità pubblica nell’esercizio di questo diritto a meno che l’ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura (...) necessaria (...) per la prevenzione dei reati (...)»
Dalle guarentigie che derivano dal concetto in esame sono state, invece, escluse le strutture carcerarie, essendo ritenuta ammissibile e legittima l’intercettazione delle conversazioni dei detenuti anche se non sussiste il fondato timore che all’interno della cella si stia svolgendo attività criminosa [Cfr. Cass. pen. Sez. VI, 23 Febbraio 2004, n. 36273 (rv. 229808), Agate, Arch. Nuova Proc. Pen., 2005, 717, CED Cassazione, 2004].
La Suprema Corte, infatti, pur richiamando la regola generale in base alla quale l’art. 13 D.L. n. 152 del 1991, ha previsto che qualora il procedimento abbia ad oggetto reati di criminalità organizzata, l’intercettazione nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p. sia consentita anche se non vi è motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo attività criminosa, in pari tempo ha recisamente escluso “che l’ambiente carcerario, sia esso la cella o la sala colloqui dell’istituto di detenzione, rientri nel concetto di privata dimora nel possesso e nella disponibilità dei detenuti, in quanto è pur sempre un luogo sottoposto ad un diretto controllo dell’Amministrazione penitenziaria che su di esso esercita la vigilanza ed a cui soltanto compete lo ius excludendi".
Con ciò è stata confermata una visione giurisprudenziale costante (Cfr. Cass., Sez. VI, 9 giugno 2003, Betta, in Mass. Uff., 226333; Sez. VI, 5 novembre 1999, Bembi, in Giust. Pen., 2000, III, 670; Sez. II, 20 novembre 1997, Marras, in Cass. Pen., 1999, 1518 e Sez. I, 3 marzo 1997, Telese, in Giust. Pen., 1998, III, 178), ripresa recentemente anche sotto il profilo dottrinale sia da Aprile-Spiezia, Le intercettazioni telefoniche e ambientali, Innovazioni tecnologiche e nuove questioni giuridiche, Milano, 2004, 66 e segg. che da Balducci, Le garanzie nelle intercettazioni tra Costituzione e legge ordinaria, Milano, 2002, 16 e segg. .
Una definizione, comunque, appagante del concetto di privata dimora, viene fornita da Sini7, che afferma che si deve intendere come tale, rifacendosi alla posizione della giurisprudenza di legittimità8quello adibito all’esercizio di attività che ognuno ha il diritto di svolgere liberamente e legittimamente senza turbativa da parte di estranei; deve cioè trattarsi di luoghi che assolvano attualmente e concretamente la funzione di proteggere la vita privata di coloro che li posseggono, i quali sono titolari dello ius excludendi alios al fine di tutelare il diritto alla riservatezza nello svolgimento delle manifestazioni della vita privata della persona che l’art. 14 Cost. garantisce, proclamando l’inviolabilità del domicilio”.

I RISULTATI INVESTIGATIVI PROCESSUALMENTE UTILIZZABILI ED IL DOVERE DI MOTIVAZIONE

Ciò posto, si deve osservare che conclusione consequenziale è quella cui è pervenuta la Sez. IV della Corte di Cassazione, con la sentenza 16 Marzo 2000, n. 7063, Viskovic e Viskovic e altri, (in Dir. Pen. e Processo, 2001, 1, 87 nota di FILIPPI), laddove ha sostenuto che i risultati delle riprese visive in ambienti tutelati dall’art. 14 Cost., [ergo private dimore] sono utilizzabili nel processo se rispettano il livello minimo di garanzie previste da questa disposizione, cioè se la limitazione del diritto alla riservatezza sia disposta con atto motivato dell’autorità giudiziaria, e, quindi, anche con provvedimento motivato del p.m. .
Tale orientamento si pone in linea armonica con quella parte della dottrina (peraltro assolutamente condivisibile) che pur mantenendo vigile ed inalterato il ricordato principio dell’atipicità, assimila, sotto il profilo sistematico, la videoripresa (o videoregistrazione), alla disciplina delle ispezioni.
Carli, in un proprio commento alla sentenza 135/02 della Consulta (in Dir. Pen. e Processo, 2003, 1, 37) sostiene la ontologica riconducibilità della videoregistrazione alla tipologia dell’ispezione e fa conseguire a tale premessa la considerazione che, “anche nei casi di assoluta urgenza, secondo quanto si ricava dall’art. 244 comma 1 c.p.p. in combinato disposto con i commi 5 e 6 dell’art. 364, la videoregistrazione, proprio in quanto assimilabile ad un’ispezione, debba essere sempre preceduta da un decreto ad hoc dell’autorità giudiziaria. La quale è tenuta peraltro, in ossequio al capoverso dell’art. 13 Cost., a fornirne in proposito specifica motivazione in fatto e diritto.”
Nel dovere di motivare la scelta di operare tramite un mezzo di ricerca della prova dotato di particolare ed indubbia invasività, quindi, riposa il carattere comune sia alla videoregistrazione operata in un luogo rientrante nell’alveo del privato domicilio, che a quella svolta in siti che, comunque, siano destinati ad attività di natura privata (come nello specifico i privè di un circolo).
E’ questo, pertanto, il denominatore comune che differenzia le fattispecie testè rammentate rispetto alla categoria generale della videoripresa in locali pubblici.
La Corte, inoltre, con la sentenza che si commenta, esclude, pertanto, tassativamente la possibilità di un utilizzo improprio del carattere di atipicità della prova, nel senso che siffatto concetto, sinonimo del potere riconosciuto al giudice dal nuovo sistema processuale, di assumere prove non disciplinate dalla legge, purchè ne verifichi l’ammissibilità e l’affidabilità (Cfr. Cass. pen. Sez. III, 22 Gennaio 1997, n. 2065, Winkler, Cass. Pen., 1998, 2384, Giust. Pen., 1998, III, 121) non può significare deroga ai limiti costituzionalmente sanciti a tutela del domicilio e dei luoghi ad essi consimilari.
È, pertanto, necessario invece, che, per dirla con il Carli, che “sia in ogni caso rispettato, con la «libertà morale» del cittadino, il principio costituzionale dell’indicata doppia riserva, di legge e di giurisdizione. Ossia, che la legge disciplini e preveda in via generale il «mezzo di ricerca della prova» e l’autorità giudiziaria possa pronunciarsi nel concreto sulla sua corretta attuazione”.
La classificazione della prova come atipica, quindi, attiene solo alla possibilità che nel novero degli elementi, che le parti possono addurre, nell’esercizio della dialettica propria del contraddittorio su cui si regge il processo penale, si possa fare riferimento a dati privi del connotato della predeterminazione legislativa in ossequio ai principi della non tassatività dei mezzi di prova e del libero convincimento. (Cfr. Cass. pen. Sez. V, 7 Dicembre 2004, n. 5672, Scoppa, Guida al Diritto, 2005, 11, 97).
L’autonomia della categoria probatoria in oggetto, conseguenza dell’assenza di una previsione codicistica di tassatività delle prova e dei relativi mezzi di raccolta, non sfugge, né può sfuggire, quindi, soprattutto alla sottoposizione al principio generale dell’onere di motivazione, a pena di inutilizzabilità.
La ragione di tale manifesta preoccupazione appare lampante, in quanto non sarebbe per nulla tollerabile, in fatto ed in diritto, una situazione di impossibilità all’esercizio di un valido e penetrante controllo, da parte di un giudice realmente terzo, in ordine all’impulso che abbia indotto a dare corso a simile attività investigativa.
La prevenzione di qualsivoglia forma di abuso in materia è, pertanto, doverosa ed è fine rispetto al quale non è ammessa abdicazione di alcun genere.
In proposito, quindi, va sottolineato come la pronunzia del Tribunale di Bologna, che a completamento della sentenza del Supremo Collegio, si allega, ponga l’accento sulla necessità di fornire una motivazione ad hoc nel caso si verta in ambito di pluralità di mezzi di raccolta della prova, in relazione ad ognuno di essi, attesa l’individualità e l’autonomia ravvisabile in simile ipotesi.
Vale a dire che se, al contempo, si intende dare corso ad intercettazioni telefoniche o ambientali e corroborare le stesse con riprese video, non è configurabile la possibilità di una motivazione tout- court che giustifichi l’attività nel suo complesso, facendo rientrare la videoripresa nell’ampio genus della previsione intercettativa.
Senza, infatti, reiterare la già ricordata, quanto evidente distinzione ontologica ed eziologica che si riscontra fra intercettazione e video ripresa di condotte non comunicative, non è revocabile in dubbio che proprio tale differenza esclude ogni possibile ricorso ad una motivazione globalizzante e priva di caratteri individualizzanti lo specifico atto ed ogni possibile confusione qualificativa tra i due strumenti di acquisizione probatoria.
Si impone, pertanto – e sul punto il Tribunale appare condivisibilmente categorico – un riferimento esplicito alla necessità ed indifferibilità della captazione delle immagini, con particolare riferimento ai comportamenti intersoggettivi all’interno dei luoghi privati oggetto dell’investigazione, siano essi concretanti il vero e proprio domicilio, sia essi assurgano solamente a luoghi di carattere privato.

(Nota di Carlo Alberto Zaina)


Tribunale di Bologna Sez. Riesame ud. 18 Settembre 2006

Va invero accolta l’eccezione di inutilizzabilità delle video-riprese all’interno dei privè del locale il Capriccio, posto che, indipendentemente dal fatto che atteggiamenti a sfondo sessuale possano o meno integrare comportamenti comunicativi – ciò in funzione dell’inclusione tra le prove tipiche o tra quelle atipiche dei risultati delle captazioni in luoghi, quali i privè, che, pur destinati ad attività riservate, non sono inquadrabili nell’ambito del domicilio privato, come da sentenza delle S.U. Della Corte di Cassazione n. 26795/06 del 28.7.2006 – è dato rilevare, nel decreto autorizzativo del G.I.P. procedente datato 22.11.2005, la totale mancanza di motivazione delle ragioni giustificanti le riprese visive; ancorché il G.I.P. abbia, nella parte dispositiva del decreto, autorizzato “le operazioni di intercettazione in conformità alla richiesta” del P.M., egli ha esclusivamente fatto riferimento, nella parte motiva, alle intercettazioni delle conversazioni tra presenti, sancendone la necessità ai fini probatori per la prosecuzione delle indagini e per l’accertamento di ulteriori comportamenti illeciti; il richiamo per relationem alla richiesta del P.M., contenuto nella parte introduttiva del decreto autorizzativo, non soddisfa l’onere motivazionale, posto anche in detta richiesta, pur conclusasi con l’istanza di autorizzazione ad intercettazioni audio-visive, nulla si dice in ordine alla necessità ed indifferibilità della captazione delle immagini, con particolare riferimento ai comportamenti intersoggettivi all’interno dei privè; il P.M. ha infatti fatto riferimento solo all’indispensabilità di “intercettazione delle conversazioni/comunicazioni telefoniche che interverranno sulle utenze di cui infra e delle comunicazioni tra presenti (cd ambientali) da eseguirsi nei luoghi appresso indicati” - la corposa richiesta di ben 9 pagine non assolve alcun onere motivazionale in ordine alle necessità probatorie delle video-riprese, essendo in essa contenuto solo il resoconto delle indagini nel frattempo espletate;

le video-registrazioni effettuate nel presente procedimento all’interno dei privè-video-registrazioni che costituiscono prova atipica ai sensi dell’art. 189 cpp e che devono essere autorizzate con congrua motivazione (cfr Cass. Pen. S.U. Sent. 26795/06 del 28.7.2006) – non possono quindi essere utilizzate per valutare gli indizi a carico degli indagati; non ugualmente si conclude per le audio registrazioni delle conversazioni tra presenti, pienamente utilizzabili, posto che di esse è stata esplicitata la necessità probatoria e la loro indifferibilità con motivazione congrua ed esauriente.

 

1 Per gli effetti dell’inutilizzabilità cfr. Cass. pen. Sez. II, 12-01-2006, n. 2817 (rv. 232868), Princi, CED Cassazione, 2006 “L’inutilizzabilità delle intercettazioni eseguite fuori dai casi consentiti o nell’inosservanza delle disposizioni stabilite dagli artt. 267 e 268, commi primo e terzo, cod. proc. pen. attiene non soltanto al contenuto delle conversazioni ma anche ad ogni altro dato da esse desumibile, come le generalità dei soggetti coinvolti nella captazione, dal momento che si tratta di dato informativo non desunto da altri accertamenti ma proprio e soltanto dai risultati delle intercettazioni”.
2 Prosegue la sentenza richiamando “ Cass. S.U. 13 luglio 1998, Gallieri e Cass. S.U. 23 febbraio 2000, D’Amuri, in tema di tabulati telefonici; Cass. S.U. 25 marzo 1998, D’Abramo e Cass. S.U. 25 marzo 1998, Savino, sulle modalità di documentazione dell’interrogatorio di persona in stato di detenzione; Cass. S.U. 20 novembre 1996, Glicora e Cass. S.U. 27 marzo 1996, Monteleone, sulle conseguenze della mancata allegazione al giudice per le indagini preliminari o al tribunale della libertà dei decreti autorizzativi di intercettazioni telefoniche, ai fini della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza”.
3 ART. 189 C.P.P. PROVE NON DISCIPLINATE DALLA LEGGE
1 . QUANDO È RICHIESTA UNA PROVA NON DISCIPLINATA DALLA LEGGE, IL GIUDICE PUÒ ASSUMERLA SE ESSA RISULTA IDONEA AD ASSICURARE L’ACCERTAMENTO DEI FATTI E NON PREGIUDICA LA LIBERTÀ MORALE DELLA PERSONA. IL GIUDICE PROVVEDE ALL’AMMISSIONE, SENTITE LE PARTI SULLE MODALITÀ DI ASSUNZIONE DELLA PROVA.

4 Art. 14 Costituzione.
Il domicilio è inviolabile.
Non vi si possono eseguire ispezioni o perquisizioni o sequestri, se non nei casi e modi stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela della libertà personale.
Gli accertamenti e le ispezioni per motivi di sanità e di incolumità pubblica o a fini economici e fiscali sono regolati da leggi speciali.

5 OSSERVATORIO DEI CONTRASTI GIURISPRUDENZIALI Leo Guglielmo art. 234 c.p.p.. art. 266,Dir. Pen. e Processo, 2003, 11, 1347
6 INTERCETTAZIONI AMBIENTALI E TUTELA DELLA LIBERTÀ DOMICILIARE Bertossi Cinzia Cass. pen. Sez. III, 11-06-2003, n. 29169, Dir. Pen. e Processo, 2004, 7, 869
7 Nota sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 266, 2° comma, c. p. p., nella parte in cui consente l’intercettazione delle comunicazioni dei detenuti in carcere, anche in assenza del fondato motivo di ritenere che ivi si stia svolgendo attività criminosa, Cass. pen. Sez. VI, 23-02-2004, n. 36273, Giur. It., 2005, 10, Diritto e Procedura Penale.
8 Cass., Sez. II, 20 novembre 1997, Marras, cit.; nonché Id., Sez. I, 22 gennaio 1996, Porcaro, ivi, 1997, 1082; Id., Sez. I, 20 dicembre 1991, Marsella, ivi, 1995, 989.


 
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE PENALI

Sentenza 28 marzo 2006 - 28 luglio 2006, n. 26795

(Presidente N. Marvulli, Relatore G. Lattanzi)

RITENUTO IN FATTO

1. A. P. ha proposto ricorso per cassazione contro l’ordinanza del 18 marzo 2005 con la quale il Tribunale di Perugia ha confermato la misura della custodia in carcere disposta nei confronti del ricorrente dal giudice per le indagini preliminari dello stesso tribunale.
La misura era stata applicata per il reato di associazione per delinquere finalizzata alla commissione di delitti in materia di prostituzione e per numerosi delitti scopo, previsti dall’art. 3, n. 3, 4, 6, 8, l. 20 febbraio 1958, n. 75 e aggravati ai sensi del successivo art. 4, n. 7, della stessa legge. In particolare a P. era stato contestato di essersi associato con altri per far svolgere in un locale pubblico di Bastia Umbra, denominato "Bora Bora", la prostituzione da parte numerose ragazze, presenti come ballerine di lap dance, di averle in più occasioni reclutate e di avere poi favorito e sfruttato la loro prostituzione.
Come risulta dall’ordinanza impugnata, il 25 giugno 2004 i carabinieri della stazione di Bastia Umbra avevano effettuato un sopralluogo, all’interno del locale "Bora Bora" ove era in corso uno spettacolo di lap dance. Al piano terra del locale c’era una pista, adibita a palcoscenico, circondata dai posti a sedere riservati al pubblico; al piano superiore, costituito da un soppalco collegato con la sala per mezzo di una scala, erano stati ricavati dei camerini, denominati "privés", separati dal corridoio mediante pesanti tende, e arredati con un divanetto, con un tavolino e con sedie.
Al momento dell’accesso «era in corso uno spettacolo di lap dance ove l’artista, completamente nuda, con musica di sottofondo, ballava strofinando i propri organi sessuali contro un palo metallico posto verticalmente sulla pista». Nei privés i carabinieri avevano sorpreso due coppie: gli uomini, «con i pantaloni indosso, ... erano seduti sul divanetto» e le donne, nude, «erano sedute, a gambe divaricate, sul bacino dell’uomo» e strofinavano «il pube contro gli organi sessuali» di questo.
Dalle dichiarazioni dei clienti e del personale dipendente era emerso che per appartarsi nei privés per dieci minuti con la ragazza prescelta occorreva pagare alla cassiera cinquanta euro. Gli addetti al locale controllavano che il cliente nel privé rispettasse le regole, e in particolare quella di non spogliarsi; al termine dei dieci minuti aprivano la tenda per mettere fine alle effusioni, che potevano però continuare se il cliente pagava immediatamente altri cinquanta euro.
In seguito all’informativa dei carabinieri il p. m. aveva chiesto al g.i.p. l’autorizzazione a effettuare alcune intercettazioni telefoniche e a disporre "operazioni di ripresa visiva" all’interno del "Bora Bora". Le richieste erano state accolte e le videoriprese erano state autorizzate con un modulo, prestampato, che faceva riferimento a «intercettazioni di conversazioni telefoniche tra presenti».
Le videoriprese erano state eseguite con apparecchi di captazione e trasmissione a distanza, ovvero con un sistema di microtelecamere posizionate sul soffitto del locale, in modo da riprendere ad ampio raggio ciò che avveniva al suo interno, anche nei privés, che erano privi del soffitto.
Per quanto in particolare concerne la posizione di P., l’ordinanza applicativa della misura cautelare aveva, tra l’altro, posto in risalto il carattere gravemente indiziante delle intercettazioni telefoniche, dalle quali emergeva come questi – formalmente assunto per fare il direttore di sala – avesse il compito di reclutare e indirizzare le ragazze nel locale, ben consapevole dell’attività alla quale esse erano destinate.
In seguito alla richiesta di riesame, il Tribunale di Perugia, come si è detto inizialmente, ha confermato il provvedimento cautelare, avendo ritenuto privi di fondamento i motivi di impugnazione, relativi alla inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni telefoniche, per mancanza di motivazione dei decreti autorizzativi, e alla inutilizzabilità delle riprese visive eseguite all’interno dei privés.
Il 25 marzo 2005 il g.i.p. ha sostituito la misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari e successivamente, il 4 maggio 2005, l’ha sostituita con quella del divieto di dimora nel territorio della Regione Umbria.
A sostegno del ricorso P. ha enunciato tre motivi:
con i primi due ha dedotto l’inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni disposte, anche in fase di proroga, per «totale assenza di motivazione» dei decreti autorizzativi: il g.i.p. avrebbe motivato i decreti solo per relationem, richiamando – attraverso un mero rinvio recettizio – la richiesta del p.m. e le informative della polizia giudiziaria (di cui la prima priva della indicazione della data), senza dare conto dell’autonoma valutazione effettuata sul contenuto degli atti recepiti;
con il terzo motivo ha sostenuto l’inutilizzabilità delle riprese visive in quanto effettuate contra legem, in mancanza di una specifica disciplina normativa della materia, che, considerata la riserva di legge contenuta negli articoli 13 e 14 Cost., sarebbe stata necessaria per consentire all’autorità giudiziaria di disporre l’intrusione nella sfera domiciliare; il ricorrente ha aggiunto che se si volessero giustificare le riprese visive in ambito domiciliare applicando l’art. 189 c.p.p. sulle prove atipiche si porrebbe «comunque il problema del pregiudizio arrecato alla libertà morale» e «della difficoltosa riconduzione allo schema che impone una anticipata valutazione del potenziale pregiudizio rispetto alla "assunzione" della prova».

2. La terza sezione di questa Corte, con ordinanza del 18 ottobre 2005, dopo avere espresso l’opinione che i primi due motivi, relativi alle intercettazioni telefoniche, fossero privi di fondamento, ha rimesso il ricorso alle Sezioni unite rilevando, con riferimento al terzo motivo, che nella giurisprudenza esiste un contrasto sulla "legalità", e correlativamente sulla utilizzabilità, della prova acquisita attraverso la captazione di immagini in luoghi di privata dimora.
Nell’ordinanza la terza sezione ha ricordato i principi fissati in materia dalla sentenza della Corte costituzionale n. 125 del 2002: la necessità, ai fini del superamento della garanzia della inviolabilità del domicilio, non solo di un provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria, ma anche di una compiuta disciplina legislativa delle ipotesi e delle modalità di limitazione della garanzia costituzionale; la riconducibilità della sola captazione visiva di comportamenti di tipo comunicativo in luoghi di privata dimora alla disciplina delle intercettazioni di comunicazioni fra presenti, restando però impregiudicata la questione di costituzionalità delle ipotesi di videoregistrazione di immagini che non abbiano tale carattere; la necessità di una regolamentazione legislativa, in conformità dell’art. 14 Cost. nel caso di intrusione del domicilio con riprese visive non finalizzate alla intercettazione di comunicazioni .
Secondo l’ordinanza di rimessione, mentre questi principi avrebbero trovato puntuale applicazione in talune sentenze della S.C. ( Sez. VI, 10 novembre 1997, n. 4397, Greco, rv. 210063, secondo cui non è consentita in luoghi di privata dimora la captazione di immagini relative alla mera presenza di cose o persone o ai loro movimenti, non funzionali alla captazione di messaggi; Sez. I, 29 gennaio 2003, n. 16965, Augugliaro, rv. 224240 e Sez. IV, 19 gennaio 2005, n. 11181, Besnik, rv. 231047, secondo cui i risultati delle videoregistrazioni effettuate con una videocamera all’interno di una abitazione privata sono utilizzabili solo se le videoregistrazioni sono dirette a captare forme di comunicazione gestuale), in altre sarebbe stato accolto un diverso orientamento, al quale avrebbe dato adesione l’ordinanza impugnata, secondo cui le riprese video andrebbero considerate come «prove documentali non disciplinate dalla legge», previste dall’art. 189 c.p.p., e sottratte pertanto al genus delle intercettazioni di comunicazioni o di conversazioni, con il limite del rispetto della libertà morale della persona, sancito in via generale dall’art. 14 Cost., la cui valutazione sarebbe rimessa di volta in volta al giudice (Sez. IV, 18 giugno 2003, n. 44484, Kazazi, rv. 226407; Sez. V, 25 marzo 1997, n. 1477, Lomuscio, rv.208137; Sez. V, 7 maggio 2004, n. 24715, Massa, rv. 228732).
Pur dichiarando di aderire all’indirizzo secondo cui anche le prove "atipiche" o i mezzi di ricerca della prova o i mezzi di indagine non disciplinati dalla legge non possono essere utilizzati se le modalità di acquisizione sono in contrasto con norme di legge, dal momento che una diversa soluzione farebbe della prova atipica uno strumento per rendere utilizzabili prove illegittimamente acquisite, il Collegio ha considerato necessario un intervento delle Sezioni unite per ricomporre il quadro interpretativo di una materia assai delicata per gli evidenti risvolti di natura costituzionale.
Secondo la sezione rimettente, ai fini della decisione occorre affrontare la seguente questione: «se le riprese video filmate in luogo di privata dimora siano consentite ove si fuoriesca dall’ipotesi della videoregistrazione di comportamenti di tipo comunicativo e se esse siano da ricomprendere nella disciplina della intercettazione delle comunicazioni e debbano, quindi, essere autorizzate ai sensi dell’art. 266 e seg. c.p.p. o rappresentino, invece, prove documentali non disciplinate dalla legge a norma dell’art. 189 c.p.p.»

Considerato in diritto

1. Come risulta dalla precedente esposizione, dopo la pronuncia dell’ordinanza di riesame la misura della custodia in carcere, applicata al ricorrente, è stata sostituita prima con quella degli arresti domiciliari e poi con quella del divieto di dimora, perciò occorre chiedersi se permanga l’interesse al ricorso.
La risposta deve essere affermativa. Certo, in seguito alla sostituzione della originaria misura cautelare la condizione del ricorrente è radicalmente cambiata, ma in mancanza di un suo riconoscimento in tal senso non può dirsi che sia venuto meno l’interesse al ricorso, sia perché i gravi indizi di colpevolezza posti dal g.i.p. e dal tribunale del riesame a fondamento dell’originaria misura della custodia in carcere condizionano anche l’applicazione del divieto di dimora, sia perché, secondo la giurisprudenza di queste Sezioni unite, anche nel caso limite della revoca della misura cautelare permane l’interesse al ricorso, dato che l’applicazione della misura potrebbe «costituire per l’interessato, ai sensi dell’art. 314, comma 2, c.p.p., presupposto del diritto a un’equa riparazione per la custodia cautelare subita ingiustamente, essendo stato il provvedimento coercitivo emesso o mantenuto senza che sussistessero le condizioni di applicabilità previste dagli artt. 273 e 280 c.p.p.» (Sez. un. 13 luglio 1998, Gallieri, rv 211194; analogamente, in precedenza, Sez. un., 12 ottobre 1993, Durante, rv. 195355; Sez. un., 12 ottobre 1993, Corso, rv. 195357).
Come ha già osservato la terza sezione nell’ordinanza di rimessione i primi due motivi di ricorso, relativi alle intercettazioni telefoniche, sono privi di fondamento.
Secondo il ricorrente l’ordinanza impugnata ha errato nel negare che i decreti autorizzativi delle intercettazioni fossero privi di motivazione, considerandoli adeguatamente giustificati in virtù del rinvio fatto dal g.i.p. alla richiesta del p.m. e alle note della polizia giudiziaria che l’accompagnavano. In particolare sarebbe inconsistente il rinvio operato nel primo decreto autorizzativo «con la nuda locuzione "nota CC Bastia Umbra" senza neppure data o altro elemento identificativo».
Al contrario di quanto ha sostenuto il ricorrente deve ritenersi che l’ordinanza impugnata abbia fatto corretta applicazione dei principi affermati dalle Sezioni unite. Queste infatti hanno riconosciuto che il decreto autorizzativo delle intercettazioni può essere motivato anche con un rinvio alla richiesta del p.m. e agli atti della polizia giudiziaria, purché «si possa dedurre l’iter cognitivo e valutativo seguito dal giudice e se ne possano conoscere i risultati, che debbono essere conformi alle prescrizioni della legge» (Sez. un., 21 giugno 2000, Primavera; ved. anche Sez. un., 26 novembre 2003, Gatto). E questo approdo ben può essere raggiunto anche con un modulo a stampa integrato con le parole idonee e realizzare il collegamento con gli atti richiamati, specie quando essi, come è accaduto nel caso in esame, siano di per sé eloquenti. Né una volta allegata al provvedimento autorizzativo la nota dei carabinieri la motivazione per relationem poteva ritenersi carente, come ha prospettato il ricorrente, solo perché non ne erano stati specificati i dati identificativi, infatti l’allegazione fisica dell’atto aveva determinato un’integrazione materiale (e non solo ideale) del decreto, di modo che i dati identificativi della nota di polizia giudiziaria risultavano senza incertezza dalla lettura integrale del provvedimento.

2. Il terzo motivo riguarda le riprese visive nei privés e l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale ha indotto la terza sezione a rimetterne l’esame alle Sezioni unite.
La materia delle riprese visive e delle prove che ne scaturiscono non è regolata specificamente dalla legge ed è stata più volte rappresentata l’esigenza di un intervento regolatore del legislatore, anche rispetto alle riprese che non avvengono in ambito domiciliare e non incontrano perciò i limiti posti dall’art. 14 Cost. Si tratta di un mezzo di prova al quale non si può rinunciare, per il fortissimo contenuto informativo che possiede e che, assai più di quanto possano esserlo altri mezzi, lo fa portatore di certezze processuali, come ha riconosciuto in modo significativo lo stesso legislatore quando nell’art. 8 comma 1 ter l. n. 401 del 1989 e succ. modif., per i reati commessi in occasione di manifestazioni sportive, ha stabilito che «si considera in stato di flagranza colui il quale, sulla base di documentazione video fotografica o di altri elementi oggettivi dai quali emerga inequivocabilmente il fatto, ne risulta autore».
In mancanza di regole probatorie specifiche la giurisprudenza e la dottrina hanno fatto riferimento alle disposizioni riguardanti altre prove e ai principi processuali per trarre indicazioni sulla disciplina applicabile alle riprese visive e sulla utilizzabilità dei risultati ottenuti. Sono emerse opinioni non univoche, non solo sulla questione più complessa, relativa alle riprese visive in ambito domiciliare, ma anche più in generale sulle caratteristiche del mezzo di prova e sulle norme alle quali deve essere ricondotto.
Il tema da affrontare propone dunque due questioni, quella relativa alle riprese visive in genere, e quella, più specifica, relativa alle riprese visive in ambito domiciliare, rispetto alle quali la mancanza di una regolamentazione normativa aggiunge ai dubbi sulla natura e la formazione della prova altri e ben più consistenti dubbi sulla loro legittimità, data la doppia riserva di legge che l’art. 14, comma 2, Cost. ha posto a tutela del domicilio.

3. La giurisprudenza di legittimità ritiene pacificamente utilizzabili come prova le immagini tratte da riprese visive in luoghi pubblici, tanto se avvenute al di fuori del procedimento (nella maggior parte dei casi si tratta di videoregistrazioni effettuate con impianti di videosorveglianza, installati in esercizi pubblici), quanto se avvenute nell’ambito delle indagini di polizia giudiziaria.
Secondo un orientamento giurisprudenziale le videoriprese vanno incluse nella categoria dei «documenti», dato che l’art. 234 c.p.p., innovando rispetto all’abrogato codice, di rito comprende in tale categoria le rappresentazioni di «fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo». Come espressione di questo orientamento, con riferimento ad attività extraprocessuali, si possono ricordare Sez. V, 18 ottobre 1993, n. 10309, Fumero, rv. 195556 (relativa a una videoregistrazione effettuata con un apparecchio installato in un negozio), Sez. III, 15 giugno 1999, n. 11116, Finocchiaro, rv. 214457 (relativa a riprese aeree) e Sez. V, 20 ottobre 2004, n. 46307, Held ed altri, rv. 230394 (relativa a riprese tramite telecamere a circuito chiuso).
Varie decisioni hanno fatto riferimento all’art. 234 c.p.p. anche per riconoscere il valore probatorio di riprese effettuate dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari: in questo senso si sono pronunciate Sez. IV, 13 dicembre 1995, n. 1344, Petrangeli, rv. 204048, Sez. V, 25 marzo 1997, n. 1477, Lomuscio, rv. 208137 e Sez. VI, 10 dicembre 1997, n. 4997, Pani, rv. 210579.
Secondo un diverso orientamento, le riprese visive effettuate in luoghi pubblici devono invece essere inquadrate nell’ambito delle prove atipiche, previste dall’art. 189 c.p.p., tanto se avvenute al di fuori del procedimento (Sez. V, 26 ottobre 2001, n. 43491, Tarantino, rv. 220261, con riferimento a riprese effettuate da una videocamera collocata all’esterno di una banca), quanto se avvenute nell’ambito delle indagini. In particolare, con riferimento a questa ipotesi, si è detto che astrattamente il risultato delle riprese visive costituisce una prova documentale ex art. 234, comma 1, c.p.p., e come tale può essere utilizzato a fini probatori, sebbene il codice di rito non ne disciplini le modalità di acquisizione e le regole di utilizzazione. Ciò, verosimilmente, in quanto il legislatore ha avuto di mira esclusivamente il documento cinematografico "precostituito" e non il frutto di una ripresa visiva costituente mezzo di ricerca della prova. In questa prospettiva le riprese visive rappresenterebbero piuttosto una prova "atipica" (art. 189 c.p.p.), da acquisire con modalità che non si pongano in conflitto con norme di legge, e qualora venissero effettuate (per fini di interesse pubblico quali quelli delle prevenzione e repressione dei reati) in un luogo pubblico o aperto al pubblico non incontrerebbero alcun limite, perché la natura del luogo in cui si svolge la condotta implicherebbe una implicita rinunzia alla riservatezza (Sez. IV, 16 marzo 2000, n. 7063, Viskovic, rv. 217688). Anche secondo Sez. VI, 21 gennaio 2004, n. 7691, Flori, rv. 229003 e Sez. IV, 18 marzo 2004, n. 37561, Galluzzi, rv. 229137, le riprese visive effettuate dalla polizia giudiziaria in luoghi pubblici o aperti al pubblico sono un mezzo atipico di ricerca della prova e non necessitano della preventiva autorizzazione dell’autorità giudiziaria, in quanto le garanzie previste dall’art. 14 Cost. si applicano solo per le captazioni visive che riguardano luoghi di privata dimora. Nello stesso senso si è espressa, da ultimo, Sez. V, 7 maggio 2004, n. 24715, Massa, rv. 228732, con riferimento a riprese effettuate dalla polizia giudiziaria tramite telecamere installate in un garage condominiale aperto al transito di un numero indeterminato di persone.
Ipotesi più specifica è quella dell’attività captativa di immagini nell’ambito delle operazioni di osservazione e pedinamento da parte della polizia giudiziaria, delle quali sono state ritenute acquisibili agli atti del dibattimento le relazioni di servizio attestative e documentative (mediante fotografie e filmati) delle attività svolte (Sez. II, 26 marzo 1997, n. 4095, Baldini, rv. 207827) o nell’ambito di una perquisizione locale, in quanto la esecuzione di quest’ultima comprende per definizione l’attività di ispezione e di documentazione, e la fotografia, mezzo tecnico idoneo a "fissare ed a prolungare la visione", altro non è che una modalità in cui può atteggiarsi la doverosa descrizione (Sez. II, 22 maggio 1997, n. 3513, Acampora, rv. 208076).

4. Non sempre è chiara nella giurisprudenza la distinzione concettuale tra la prova documentale dell’art. 234 c.p.p. e la prova atipica dell’art. 189 c.p.p., e talvolta si ha l’impressione che le immagini videoriprese siano considerate al tempo stesso documenti e prove atipiche, cioè documenti formati attraverso una prova atipica. In realtà le due norme non sono complementari ma individuano forme probatorie alternative; come ha chiarito la Relazione al Progetto preliminare del vigente codice di rito, la distinzione tra documenti e atti del procedimento è netta perché «le norme sui documenti sono state concepite e formulate con esclusivo riferimento ai documenti formati fuori del processo nel quale si chiede o si dispone che essi facciano ingresso» (Gazzetta ufficiale, supplemento n. 2 del 24 ottobre 1988, p. 67). Del resto questa distinzione trova riscontro anche nella giurisprudenza più avvertita della Corte di cassazione, la quale ha avuto occasione di precisare che «ai fini dell’ammissione delle prove documentali sono necessarie due condizioni: a) che il documento risulti materialmente formato fuori, ma non necessariamente prima, del procedimento; b) che lo stesso oggetto della documentazione extraprocessuale appartenga al contesto del fatto oggetto di conoscenza giudiziale e non al contesto del procedimento» (Sez. V, 13 aprile 1999, n. 6887, Gianferrari, rv. 213606; Sez. V, 16 marzo 1999, n. 5337, Di Marco, rv. 213183).
Ciò significa che solo le videoregistrazioni effettuate fuori dal procedimento possono essere introdotte nel processo come documenti e diventare quindi una prova documentale (si pensi ad esempio, oltre che ai casi citati, alle videoregistrazioni di violenze negli stadi), mentre le altre, effettuate nel corso delle indagini, costituiscono, secondo il codice, la documentazione dell’attività investigativa, e non documenti. Esse perciò sono suscettibili di utilizzazione processuale solo se sono riconducibili a un’altra categoria probatoria, che la giurisprudenza per le riprese in luoghi pubblici, aperti o esposti al pubblico ha individuato in quella delle c.d. prove atipiche, previste dall’art. 189 c.p.p.
Si è obiettato che l’art. 189 c.p.p. prevede un contraddittorio tra le parti davanti al giudice «sulle modalità di assunzione della prova», mentre le riprese visive, come atti di indagine, avvengono senza alcun preventivo contraddittorio. Facendo riferimento a categorie tradizionali può però rilevarsi che l’obiezione non distingue il mezzo di ricerca della prova, costituito dalla ripresa visiva, dalla videoregistrazione, cioè dal supporto sul quale sono fissate le immagini riprese, fonte di prova, e dal mezzo di prova, che è lo strumento attraverso il quale si acquisisce nel processo il contenuto rappresentativo del supporto, vale a dire quello che sarà l’elemento di prova. Il contraddittorio previsto dall’art. 189 c.p.p. non riguarda la ricerca della prova ma la sua assunzione e interviene dunque, come risulta chiaramente dalla disposizione, quando il giudice è chiamato a decidere sull’ammissione della prova.
L’esecuzione delle riprese visive lascia impregiudicata la questione sulla ammissibilità della prova che ne deriva (sulla quale dovrà pronunciarsi il giudice quando sarà richiesto della sua assunzione nel dibattimento) e sulla determinazione dello strumento (perizia o mera riproduzione) che dovrà essere utilizzato per conoscere e visionare le immagini acquisite.
E’ stata anche posta e dibattuta la questione sulla possibilità di inserire le videoregistrazioni nel fascicolo per il dibattimento, a norma dell’art. 431, comma 1, lett. b) c.p.p., considerandole alla stregua di verbali di atti non ripetibili compiuti dalla polizia giudiziaria (in questo senso Sez. I, 8 ottobre 1997, n. 10145, Mangiolfi, rv. 208736, con riferimento a fotografie di un blocco stradale), e si è detto che mentre nessuna difficoltà si frappone all’introduzione nel fascicolo per il dibattimento del verbale della polizia giudiziaria descrittivo delle attività compiute per effettuare la videoripresa, alla stessa conclusione non potrebbe pervenirsi per il supporto contenente le immagini riprese, che l’art. 431 c.p.p. non prevede, verosimilmente perché il legislatore sarebbe stato «attento soprattutto alle tradizionali forme di documentazione scritta».
La conclusione negativa non convince dal momento che l’art. 134, comma 4, c.p.p. nel disciplinare la documentazione degli atti riconosce che al verbale «può essere aggiunta la riproduzione audiovisiva se assolutamente indispensabile». In questo caso la riproduzione audiovisiva diventa un elemento integrativo del verbale, che deve accompagnarlo e che quindi, unitamente al verbale, è destinato a far parte del fascicolo per il dibattimento. Ciò però non significa che l’inserimento nel fascicolo per il dibattimento possa avere l’effetto di attribuire alla videoregistrazione valore probatorio senza il preventivo vaglio di ammissibilità da parte del giudice, dopo aver sentito le parti a norma dell’art. 189 c.p.p.

5. Di meno agevole soluzione è la questione sulla legittimità delle videoriprese in ambito domiciliare e conseguentemente sulla loro utilizzabilità probatoria.
Sulla questione è intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza del 24 aprile 2002, n. 135. La questione era stata sollevata nel corso di un’udienza preliminare rispetto a riprese visive effettuate in base a un provvedimento del pubblico ministero. Il giudice aveva dubitato della legittimità costituzionale degli artt. 189 e 266-271 c.p.p. e, segnatamente, dell’art. 266, comma 2, c.p.p., nella parte in cui «non estendono la disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti nei luoghi indicati dall’art. 614 c. p. alle riprese visive o videoregistrazioni effettuate nei medesimi luoghi». La questione mirava perciò a ottenere una pronuncia additiva che allineasse la disciplina processuale delle riprese visive in luoghi di privata dimora a quella delle intercettazioni di comunicazioni fra presenti nei medesimi luoghi, e la decisione della Corte è stata negativa.
La Corte ha ritenuto che le riprese visive in ambienti domiciliari non siano precluse in modo assoluto dall’art. 14 Cost. e che il riferimento fatto dal legislatore costituente solo alle ispezioni, alle perquisizioni e ai sequestri «non è necessariamente espressivo dell’intento di "tipizzare" le limitazioni permesse, escludendo a contrario quelle non espressamente contemplate; poiché esso ben può trovare spiegazione nella circostanza che gli atti elencati esaurivano le forme di limitazione dell’inviolabilità del domicilio storicamente radicate e positivamente disciplinate all’epoca di redazione della Carta, non potendo evidentemente il Costituente tener conto di forme di intrusione divenute attuali solo per effetto dei progressi tecnici successivi».
Esclusa pertanto l’esistenza nella Carta costituzionale di un divieto assoluto della forma di intrusione domiciliare in questione, la Corte ha affermato che la ripresa visiva quando è finalizzata alla captazione di "comportamenti a carattere comunicativo" «ben può configurarsi, in concreto, come una forma di intercettazione di comunicazioni tra presenti», alla quale «è applicabile, in via interpretativa, la disciplina legislativa della intercettazione ambientale in luoghi di privata dimora». Nel caso invece in cui si fuoriesca dalla videoripresa di comportamenti di tipo comunicativo non è possibile estendere alla captazione di immagini in luoghi tutelati dall’art. 14 Cost. la normativa dettata dagli artt. 266 e ss. c.p.p., «data la sostanziale eterogeneità delle situazioni: la limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni, da un lato; l’invasione della sfera della libertà domiciliare in quanto tale, dall’altro».
In conclusione, secondo la Corte, «L’ipotesi della videoregistrazione che non abbia carattere di intercettazione di comunicazioni potrebbe … essere disciplinata soltanto dal legislatore, nel rispetto delle garanzie costituzionali dell’art. 14 Cost.; ferma restando, per l’importanza e la delicatezza degli interessi coinvolti, l’opportunità di un riesame complessivo della materia da parte del legislatore stesso».

6. La decisione non è priva di ambiguità perché fa apparire inammissibili le riprese visive di comportamenti non comunicativi effettuati in ambito domiciliare ma non lo dichiara espressamente, come sarebbe stato naturale in un contesto in cui le riprese erano avvenute nel presupposto che fosse applicabile la disposizione dell’art. 189 c.p.p. e il giudice aveva messo in discussione la legittimità costituzionale di questa norma, oltre che degli artt. 266-271 c.p.p.
E’ chiaro che le regole di garanzia richieste dall’art. 14 Cost. e la disciplina dei casi e dei modi delle "intrusioni" domiciliari non possono rinvenirsi nell’art. 189 c.p.p., dato che la disposizione no

Mercoledì, 08 Novembre 2006
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