La Corte di Cassazione
ha ribadito il principio di diritto nella sentenza n. 15383
depositata il 6 luglio 2006 secondo cui: La responsabilità ex art. 2051
c.c. per i danni cagionati da cose in custodia, anche nell’ipotesi di beni
demaniali in effettiva custodia della p.a., ha carattere oggettivo e, perchè
tale responsabilità possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista
il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi
al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di
vigilanza, per cui tale tipo di responsabilità è esclusa solo dal caso
fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile
bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa (che ne è
fonte immediata) ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’oggettiva
imprevedibilità ed inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto
del terzo o dello stesso danneggiante.
SUPREMA CORTE DI
CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 6 luglio
2006, n. 15383
Svolgimento del processo
Con citazione notificata il
18.11.1998, B.A. proponeva appello avverso la sentenza del giudice di pace di
Ancona n. 302/1998, con la quale veniva respinta la domanda di risarcimento dei
danni subiti dallo stesso in occasione del sinistro occorso il 30.7.1996, in
Ancona, mentre alla guida della propria autovettura percorreva via (OMISSIS)
ed, a seguito dello spostamento improvviso sulla sinistra dell’auto che lo
precedeva, finiva con la ruota posteriore in un tombino scoperto, non
segnalato, il cui coperchio era appoggiato in vicinanza dell’apertura,
riportando danni. Il Tribunale di Ancona, con
sentenza depositata il 13.6.2002, rigettava l’appello. Riteneva il tribunale che nella
specie, trattandosi di bene appartenente al demanio stradale comunale, non era
ipotizzabile una responsabilità del Comune a norma dell’art. 2051 c.c., ma solo
ai sensi dell’art. 2043 c.c., ove fosse stata ravvisabile un’insidia stradale;
che nella fattispecie l’attore avrebbe potuto far valere la responsabilità da
custodia nei confronti dell’Azienda Municipalizzata Servizi (dotata di propria
soggettività giuridica), in quanto gli operai di tale azienda avevano sollevato
il coperchio del tombino; che, nessuna colpa poteva ravvisarsi a carico del
Comune, in quanto lo scoperchiamento del tombino costituiva un caso fortuito
posto in essere da un terzo, che escludeva il nesso di causalità. Avverso questa sentenza ha
proposto ricorso per Cassazione l’attore. Non ha svolto attività difensiva
il convenuto.
Motivi della
decisione
1. Con il primo motivo di ricorso
il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c.,
in relazione all’art. 2967 c.c., nonchè la violazione dell’art. 21 del Codice
della Strada e l’insufficiente e contraddittoria motivazione. Assume il ricorrente che
erratamente la sentenza ha ritenuto che la responsabilità del Comune per danni
dall’uso di strada comunale fosse ristretto alle sole ipotesi di danni da
insidia stradale ex art. 2043 c.c., mentre andava affermata la responsabilità
dell’ente, quale custode a norma dell’art. 2051 c.c.; che, ove anche fosse
stata ritenuta la custodia del bene da parte della Azienda, cui erano stati
appaltati i lavori di manutenzione della strada, ciò non escludeva che rimaneva
custode della stessa anche il Comune, essendo essa aperta al traffico, con i
conseguenti obblighi imposti dall’art. 21 del Codice della Strada; che
conseguentemente nessun caso fortuito poteva ritenersi sussistere; che, in ogni
caso, l’apertura del tombino integrava un’insidia stradale per l’attore, che,
proseguendo a ridosso della vettura che lo precedeva, non era in grado di
avvistare la detta apertura.
2.1. Ritiene questa Corte che il
motivo sia fondato e che lo stesso vada accolto. Osserva questa Corte che esistono
quattro orientamenti giurisprudenziali in merito alla responsabilità della p.a.
per i danni subiti dall’utente conseguenti all’utilizzo di beni demaniali e,
segnatamente, per quelli conseguenti ad omessa od insufficiente manutenzione di
strade pubbliche. Secondo l’orientamento
predominante questa tutela è esclusivamente quella predisposta dall’art. 2043
c.c.. Si osserva, infatti, che la p.a.
incontra nell’esercizio del suo potere discrezionale anche nella vigilanza e
controllo dei beni di natura demaniale, limiti derivanti dalle norme di legge o
di regolamento, nonchè dalle norme tecniche e da quelle di comune prudenza e
diligenza, ed in particolare dalla norma primaria e fondamentale del neminem
laedere ( art. 2043 c.c.), in applicazione della quale essa è tenuta a far sì
che il bene demaniale non presenti per l’utente una situazione di pericolo
occulto, cioè non visibile e non prevedibile, che dia luogo al cd. trabocchetto
o insidia stradale. Sussiste l’insidia, fondamento
della responsabilità risarcitoria ex art. 2043 c.c., della p.a. per danni
riportati dall’utente stradale, allorchè essa non sia visibile o almeno
prevedibile (26/05/2004, n. 10132; Cass. 22.4.1999, n. 3991; Cass. 28.7.1997,
n. 7062; Cass. 20.8.1997, n. 7742; Cass. 16.6.1998, n. 5989 e molte altre). La giurisprudenza nei primi anni
del 1900 iniziò ad affermare il principio della responsabilità della P.A.
conseguente alla violazione colposa delle regole di prudenza e di esperienza
nell’ambito della attività amministrativa, fissando il limite oltre il quale la
discrezionalità (e la correlata insindacabilità del suo comportamento da parte
dell’autorità giudiziaria) doveva arrestarsi, e sostenendo la rilevanza sul piano
civilistico della inosservanza delle regole di prudenza, perizia e diligenza
anche con riguardo alla specifica materia della manutenzione stradale. In tale
contesto la giurisprudenza in un primo tempo elaborò la figura della insidia o
trabocchetto quale elemento sintomatico della attività colposa
dell’amministrazione, ricorrente allorchè la strada nascondeva una insidia non
evitabile dall’utente con l’ordinaria diligenza, - successivamente, peraltro,
tale nozione divenne un indice tassativo ed ineludibile della responsabilità
della P.A., e l’onere probatorio in ordine alla sua sussistenza ricadeva a
carico del danneggiato. Tale orientamento costituisce
sostanzialmente ancor oggi un elemento fondamentale per l’affermazione della
responsabilità della P.A. ex art. 2043 c.c. con riferimento ai danni prodotti
da omessa o insufficiente manutenzione di strade pubbliche, ricondotta infatti
all’inosservanza del principio del "neminem laedere", ma sempre a
condizione che venga provata l’esistenza di una situazione insidiosa
caratterizzata dalla non visibilità e dalla non prevedibilità del pericolo.
2.2. Un orientamento minoritario,
invece, riconduce la responsabilità della p.a., proprietaria di una strada
pubblica, per danni subiti dall’utente di detta strada, alla disciplina di cui
all’art. 2051 c.c., assumendo che la p.a., quale custode di detta strada, per
escludere la responsabilità che su di essa fa capo a norma dell’art. 2051 c.c.,
deve provare che il danno si è verificato per caso fortuito, non ravvisabile come
conseguenza della mancanza di prova da parte del danneggiato dell’esistenza
dell’insidia, che questi, invece, non deve provare, così come non ha l’onere di
provare la condotta commissiva o omissiva del custode, essendo sufficiente che
provi l’evento danno ed il nesso di causalità con la cosa (Cass. 22.4.1998, n.
4070; Cass. 20.11.1998, n. 11749; Cass. 21.5.1996, n. 4673; Cass. 3 giugno 1982
n. 3392, 27 gennaio 1988 n. 723). In particolare dalla proprietà
pubblica del Comune sulle strade poste all’interno dell’abitato (L. 20 marzo
1865, n. 2248, art. 16, lett. b, allegato F) discende non solo l’obbligo
dell’Ente alla manutenzione, come stabilito dal R.D. 15 novembre 1923, n. 2056,
art. 5, ma anche quello della custodia con conseguente operatività, nei
confronti dell’Ente stesso, della presunzione di responsabilità ai sensi
dell’art. 2051 c.c.. Per danni causati da beni
demaniali, è fortemente sostenuto in dottrina che il ritenere non applicabile
alla stessa per tale categorie dei beni la responsabilità da custodia, ma solo
quella ex art. 2043 c.c., costituirebbe un ingiustificato privilegio e, di
riflesso, un ingiustificato deteriore trattamento per gli utenti danneggiati.
3.1. Un orientamento intermedio,
che è andato sempre più sviluppandosi negli ultimi tempi, ritiene che l’art.
2051 c.c., in tema di presunzione di responsabilità per il danno cagionato
dalle cose che si hanno in custodia - in realtà - trova applicazione nei
confronti della pubblica amministrazione, con riguardo ai beni demaniali,
esclusivamente qualora tali beni non siano oggetto di un uso generale e diretto
da parte dei terzi, ma vengano utilizzati dall’amministrazione medesima in
situazione tale da rendere possibile un concreto controllo ed una vigilanza
idonea ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo (Cass. 30 ottobre 1984 n.
5567), ovvero, ancora, qualora trattisi di beni demaniali o patrimoniali che
per la loro limitata estensione territoriale consentano una adeguata attività
di vigilanza sulle stesse (Cass. 5.8.2005, n. 16675; Cass. n. 11446 del 2003;
Cass. 1.12.2004, n. 22592; Cass. 15/01/2003, n. 488; Cass. 13.1.2003, n. 298;
Cass. 23/07/2003, n. 11446).
3.2. una recente sentenza di
questa Corte (20.2.2006, n. 3651) ribadisce il principio che, poichè custode
dei beni demaniali è la P.A., essa risponde dei danni provocati da detti beni a
norma dell’art. 2051 c.c.. La peculiarità di questa sentenza è nell’escludere
che la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c. costituisca una
responsabilità oggettiva, cioè "una responsabilità senza colpa",
poichè fondamento della responsabilità è la violazione del dovere di
sorveglianza, gravante sul custode. Secondo tale arresto il caso fortuito, che
esclude la responsabilità, non costituisce un elemento esterno che incide sul
nesso causale, ritenendo, invece che la prova del fortuito (prova liberatoria)
attiene alla prova che il danno si è verificato in modo non prevedibile nè
superabile con l’adeguata diligenza, per cui la prova del fortuito attiene al
profilo della mancanza di colpa da parte del custode, mentre l’estensione del
bene demaniale e l’uso diretto della cosa da parte della collettività sono
elementi sintomatici per escludere tale presunzione di colpa a carico del
custode. Tale sentenza, quindi, non solo inquadra la responsabilità della p.a.
per danni da beni demaniali nell’ambito dell’art. 2051 c.c., ma soprattutto
riporta la responsabilità del custode nell’ambito della responsabilità per
colpa, nella specie presunta.
4. La problematica in questione è
stata esaminata dalla Corte Costituzionale (10/5/1999 n. 156), che ha ritenuto
infondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli 2043, 2051
e 1227 c.c., comma 1, in rapporto agli artt. 3, 24 e 97 Cost., sulla scorta dei
rilievi che, come sottolineato in alcune sentenze, "la notevole estensione
del bene e l’uso generale e diretto da parte del terzi costituiscono meri
indici dell’impossibilità del concreto esercizio del potere di controllo e di
vigilanza sul bene medesimo; la quale dunque potrebbe essere
ritenuta, non già in virtù di un puro e semplice riferimento alla natura
demaniale del bene, ma solo a seguito di un’indagine condotta dal giudice con
riferimento al caso singolo, e secondo criteri di normalità". La Corte Costituzionale, nel
ritenere non fondata la questione, richiamato il principio di
autoresponsabilità a carico degli utenti "gravati di un onere di
particolare attenzione nell’esercizio dell’uso ordinario diretto del bene
demaniale per salvaguardare appunto la propria incolumità", ha tra l’altro
considerato la nozione di insidia "come una sorte di figura sintomatica di
colpa, elaborata dalla esperienza giurisprudenziale, mediante ben sperimentate
tecniche di giudizio, in base ad una valutazione di normalità, con il preciso
fine di meglio distribuire tra le parti l’onere probatorio, secondo un criterio
di semplificazione analitica della fattispecie generatrice della responsabilità
in esame" (sull’infondatezza della sollevata questione di
incostituzionalità, vedasi anche Cass. S.U. n. 10893/2001).
5.1. Il problema che si pone,
soprattutto per effetto della sentenza n. 3651/2006, è, in primo luogo, quello
di riesaminare il tipo di responsabilità del custode, al fine di sperimentarne
l’applicabilità nei confronti del titolare di beni demaniali. La giurisprudenza
costante di questa Corte ritiene che la responsabilità per danni cagionati da
cosa in custodia, ex art. 2051 c.c., ha base: a) nell’essersi il danno
verificato nell’ambito del dinamismo connaturato alla cosa o dallo sviluppo di
un agente dannoso sorto nella cosa; b) nell’esistenza di un effettivo
potere fisico di un soggetto sulla cosa, al quale potere fisico inerisce il
dovere di custodire la cosa stessa, cioè di vigilarla e di mantenerne il
controllo, in modo da impedire che produca danni a terzi. In questo senso, in
buona sostanza, è anche la suddetta Cass. n. 3651/06. 5.2. A fronte del
suddetto tradizionale orientamento giurisprudenziale tradizionale, che
individuava nella norma in questione un caso di presunzione di colpa, per cui
il fondamento della responsabilità sarebbe stato pur sempre il fatto
imputabiledell’uomo (nella specie del custode), che era venuto meno al suo
dovere di controllo e vigilanza perchè la cosa non producesse danni a terzi (in
questo senso, in buona sostanza, è anche la suddetta Cass. n. 3651/06), la
maggioranza della dottrina recente ritiene che il comportamento del
responsabile è estraneo alla fattispecie e fa quindi giustizia di quei modelli
di ragionamento che si limitano ad accertare la colpa del custode, sia essa presunta
o meno, parlando in proposito di caso di responsabilità oggettiva. La
responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia ( art. 2051 c.c.) ha
carattere oggettivo e, perchè possa configurarsi in concreto, è sufficiente che
sussista il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza
che rilevi al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un
obbligo di vigilanza, in quanto la nozione di custodia nel caso rilevante non
presuppone nè implica uno specifico obbligo di custodire analogo a quello
previsto per il depositario, e funzione della norma è, d’altro canto, quella di
imputare la responsabilità a chi si trova nelle condizioni di controllare i
rischi inerenti alla cosa, dovendo pertanto considerarsi custode chi di fatto
ne controlla le modalità d’uso e di conservazione, e non necessariamente il
proprietario o chi si trova con essa in relazione diretta. Ne consegue che tale
tipo di responsabilità è esclusa solamente dal caso fortuito, fattore che
attiene non già ad un comportamento del responsabile bensì al profilo causale
dell’evento, riconducibile non alla cosa che ne è fonte immediata ma ad un
elemento esterno, recante i caratteri dell’imprevedibilità (rilevante non già
ad escludere la colpa bensì quale profilo oggettivo, al fine di accertare
l’eccezionalità del fattore esterno, sicchè anche un’utilizzazione estranea
alla naturale destinazione della cosa diviene prevedibile dal custode laddove
largamente diffusa in un determinato ambiente sociale) e dell’inevitabilità, a
nulla viceversa rilevando che il danno risulti causato da anomalie o vizi
insorti nella cosa prima dell’inizio del rapporto di custodia (ex multis Cass.
10/03/2005, n. 5326; Cass. 10/08/2004, n. 15429, Cass. 15/03/2004, n. 523/6;
Cass. 15/01/2003, n. 472; Cass. 20/08/2003, p. 12219; Cass. 9/04/2003, n. 5578;
Cass. 15/01/2003, n. 472; Cass. S.U. 11.11.1991, n. 12019; Cass. 17.1.2001, n.
584).
5.3. Ritiene questa Corte di
dover ribadire tale orientamento. Solo il "fatto della
cosa" è rilevante (e non il fatto dell’uomo). La responsabilità si fonda sul
mero rapporto di custodia e solo stato di fatto e non l’obbligo di custodia può
assumere rilievo nella fattispecie. Il profilo del comportamento del
responsabile è di per sè estraneo alla struttura della normativa; nè può
esservi reintrodotto attraverso la figura della presunzione di colpa per
mancata diligenza nella custodia, giacchè il solo limite previsto dall’articolo
in esame è l’esistenza del caso fortuito ed in genere si esclude che il limite
del fortuito si identifichi con l’assenza di colpa. Va, quindi, affermata la natura
oggettiva della responsabilità per danno di cose in custodia. La dottrina, parla, al riguardo
di "rischio" da custodia, più che di "colpa" nella custodia
ovvero, seguendo l’orientamento della giurisprudenza francese di
"presunzione di responsabilità" e non di "presunzione di
colpa". 5.4. Osserva questa Corte che il dato lessicale della norma in
esame ritiene sufficiente, per l’applicazione della stessa, la sussistenza del
rapporto di custodia tra il responsabile e la cosa che ha dato luogo all’evento
lesivo. Sempre dalla lettera dell’art. 2051 c.c., emerge che il danno è
cagionato non da un comportamento (per quanto omissivo) del custode, ma dalla
cosa (fait de la chose - art. 1384, comma 1, Code Napoleon), per cui detto
comportamento è irrilevante. Responsabile del danno cagionato
dalla cosa è sì colui che essenzialmente ha la cosa in custodia, ma il termine
non presuppone nè implica uno specifico obbligo di custodire la cosa, e quindi
non rileva la violazione di detto obbligo. Qui la nozione di
"custodia" non ha la stessa valenza del diritto romano nè quella
propria della responsabilità contrattuale, per cui non comporta l’obbligo
comportamentale del soggetto di controllare la cosa per evitare che essa
produca danni: essa non descrive null’altro che la relazione tra un soggetto e
la cosa che gli appartiene. Il custode negligente non risponde in modo diverso
dal custode perito e prudente se la cosa ha provocato danni a terzi. Ciò è tanto più rilevante se si
osserva il contesto ove trovasi la norma in questione e cioè tra altre ( artt.
2047, 2048 e 2050 c.c., art. 2054 c.c., comma 1) ben diversamente strutturate,
in cui la presunzione non attiene alla responsabilità, ma alla colpa, per cui
la prova liberatoria, in siffatte altre ipotesi, ha appunto ad oggetto il
superamento di detta presunzione di colpa.
5.5. Il fortuito esclude la
responsabilità del custode, ai sensi dell’art. 2051 c.c. Esso va inteso nel
senso più ampio, comprensivo del fatto del terzo e del fatto dello stesso
danneggiato, purchè detto fatto costituisca la causa esclusiva del danno (Cass.
10/03/2005, n. 5326; Cass. 28 ottobre 1995, n. 11264; Cass. 26 febbraio 1994,
n. 1947). Poichè la responsabilità si fonda
non su un comportamento o un’attività del custode, ma su una relazione (di
custodia) intercorrente tra questi e la cosa dannosa, e poichè il limite della
responsabilità risiede nell’intervento di un fattore (il caso fortuito) che
attiene non ad un comportamento del responsabile (come nelle prove liberatorie
degli artt. 2047, 2048, 2050 e 2054 c.c.), ma alle modalità di causazione del
danno, si deve ritenere che la rilevanza del fortuito attiene al profilo
causale, in quanto suscettibile di una valutazione che consenta di ricondurre
all’elemento esterno, anzichè alla cosa che ne è fonte immediata, il danno
concretamente verificatosi. All’attore compete provare
l’esistenza del rapporto eziologico tra la cosa e l’evento lesivo; il convenuto
per liberarsi dovrà provare l’esistenza di un fattore estraneo alla sua sfera
soggettiva, idoneo ad interrompere quel nesso causale.
5.6. Va, quindi, riassorbita la
tesi sostenuta da Cass. n. 3651/06, secondo cui il caso fortuito altro non
costituirebbe che la presenza di un evento che esclude la colpa del custode,
con la conseguenza che anche questa ipotesi di responsabilità sarebbe di tipo
soggettivo, con presunzione di colpa a carico del custode, salva la prova
liberatoria della mancanza di colpa, cioè, in positivo, della presenza del fortuito.
Tale impostazione risente del principio della tradizione romanistica e di una
parte della dottrina classica tedesca, secondo cui "nessuna responsabilità
sussiste senza colpa", per cui casus = non culpa, mentre la dottrina
moderna riconosce pacificamente la presenza di Ipotesi di responsabilità
oggettiva, considerandole come approdo delle legislazioni moderne. Anche in
Germania, il cui sistema è strenuamente preoccupato della centralità della
colpa sul piano dell’affermazione di principio (823 del BGB), la
Gefahrdungshaftung si è sviluppata come un vero e proprio sistema di
responsabilità oggettiva rigorosamente legislativo, per quanto esterno al BGB.
A fronte delle resistenze verso un tipo di responsabilità fondata sulla pura
causalità, si è osservato che il criterio di imputazione reagisce sul rapporto
di causalità. Un rapporto causale concepito allo stato puro tende all’infinito.
La responsabilità oggettiva non può essere pura assenza o Irrilevanza dei
criteri soggettivi di imputazione, bensì sostituzione di questi con altri di
natura oggettiva, i quali svolgono nei confronti del rapporto di causalità la
medesima funzione che da sempre è propria dei criteri soggettivi di imputazione
nei fatti illeciti. Nella responsabilità oggettiva sono i criteri di
Imputazione ad individuare la sequenza causale, tendenzialmente infinita, alla
quale fare riferimento ai fini della responsabilità. Tale criterio di
imputazione nelle specifiche fattispecie di responsabilità oggettive è fissato
dal legislatore con una qualificazione del soggetto, su cui viene fatto
ricadere il costo del danno. La ratio di tale accollo del
costo del danno non è più la colpa, ma un criterio oggettivo, che tuttavia
rimane fuori dalla norma. Esso fu individuato nella deep
pocket (tasca ricca) negli ordinamenti del common law e nella richesse oblige,
nella tradizione francese, mentre nell’affinamento dottrinale successivo si è
ritenuto che la ratio vada individuata nel principio dell’esposizione al
pericolo o all’assunzione del rischio, ovvero nell’imputare il costo del danno
al soggetto che aveva la possibilità della cost-benefit analysis, per cui
doveva sopportarne la responsabilità, per essersi trovato, prima del suo
verificarsi, nella situazione più adeguata per evitarlo nel modo più conveniente,
sicchè il verificarsi del danno discende da un’opzione per il medesimo, assunta
in alternativa alla decisione contraria.
5.7. Sennonchè, ciò che va
ribadito, è che quanto sopra individua la ratio del criterio di imputazione del
rapporto di causalità ad un determinato soggetto e non ad altri, effettuata a
monte dal legislatore, ma non comporta un ulteriore elemento di integrazione
della fattispecie di responsabilità, costituito da un sindacato da parte del
giudice sulla scelta effettuata dal soggetto su qui la norma accolla il costo
del danno. Nella responsabilità oggettiva il giudizio è puramente tipologico e
consiste nell’appurare se l’evento che si è verificato appartenga o meno alla
serie di quelli che il criterio di imputazione ascrive ad una certa sfera del
soggetto per il loro semplice accadere. In questi termini è esatta la
centralità del nesso causale nelle ipotesi di responsabilità oggettiva. Mentre ai fini della sanzione
penale si imputa al reo il fatto-reato (il cui elemento materiale è appunto
costituito da condotta, nesso, causale, ed evento naturalistico o giuridico),
ai fini della responsabilità civile ciò che si imputa è il danno e non il fatto
in quanto tale. E tuttavia un "fatto" è
pur sempre necessario perchè la responsabilità sorga, giacchè l’imputazione del
danno presuppone l’esistenza di una delle fattispecie normative di cui all’art.
2043 c.c., e segg., (sia di responsabilità oggettiva che soggettiva), le quali
tutte si risolvono nella descrizione di un nesso, che leghi storicamente un
evento ad un soggetto chiamato a risponderne. Il "danno" rileva così
sotto due profili diversi: come evento lesivo e come insieme di conseguenze
risarcibili o evento dannoso, retto il primo dalla causalità materiale ed il
secondo da quella giuridica. Il danno oggetto
dell’obbligazione risarcitoria aquiliana è quindi esclusivamente il danno
conseguenza del fatto lesivo(questo inteso come condotta, nesso causale ed
evento lesivo). Se sussiste solo il fatto lesivo,
ma non vi è un danno-conseguenza, non vi è l’obbligazione risarcitoria.
5.8. Proprio in conseguenza di
ciò si è consolidata nella cultura giuridica contemporanea l’idea, sviluppata
soprattutto in tema di nesso causale, che esistono due momenti diversi del
giudizio aquiliano: la costruzione del fatto idoneo a fondare la responsabilità
(per la quale la problematica causale, detta causalità materiale o di fatto, è
analoga a quella penale, artt. 40 e 41 c.p. ed il danno rileva solo come evento
lesivo) e la determinazione dell’intero danno cagionato, che costituisce
l’oggetto dell’obbligazione risarcitoria. A questo secondo momento va riferita,
la regola dell’art. 1223 c.c., per il quale il risarcimento deve comprendere le
perdite "che siano conseguenza immediata e diretta" del fatto lesivo
(cd. causalità giuridica, per cui si è dubitato che la norma attenga al nesso
causale e non piuttosto alla determinazione del quantum del risarcimento,
selezionando le conseguenze dannose risarcibili). Ai fini della causalità materiale
nell’ambito della responsabilità aquiliana la giurisprudenza e la dottrina
prevalenti fanno applicazione dei principi penalisti di cui agli artt. 40 e 41
c.p..
5.9. Pertanto un evento dannoso è
da considerare causato da un altro se, ferme restando le altare condizioni, il
primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo (cd. teoria della
condicio sine qua non): ma nel contempo non è sufficiente tale relazione
causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi,
all’interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle
soltanto che, nel momento in cui si produce l’evento causante non appaiono
inverosimili (cd. teoria della causalità adeguata o della regolarità causale
(Cass. 16/12/2004, n. 2343; Cass. 26/03/2004, n. 6071; Cass. 3/12/2002, n. 17152;
Cass. 29/07/2004, n. 14488; Cass. 19/08/2003, n. 12124; Cass. 22/10/2003, n.
15789; Cass. 15/01/2003, n. 484). Secondo tale teoria della
causalità adeguata, elaborata dalla dottrina tedesca (e sostanzialmente anche
secondo la variante italiana della cosiddetta teoria della causalità umana) per
l’imputazione oggettiva dell’evento occorrono due presupposti: uno positivo (la
raffigurazione della condotta dell’agente come condizione necessaria) ed uno
negativo, cioè la mancanza di fattori esterni eccezionali, da valutarsi non ex
post, ma ex ante. Detta causalità adeguata (nella
sua tradizionale formulazione "positiva") comporta che la rilevanza
giuridica della "condicio sine qua non" è commisurata all’incremento,
da essa prodotto, dell’obiettiva possibilità di un evento del tipo di quello
effettivamente verificatosi.
5.10. Sennonchè, una volta
ritenuto che nella responsabilità aquiliana, il nesso di causalità materiale è
regolato dalle norme penalistiche, non può poi decamparsi da esse allorchè si
tratti delcaso fortuito, previsto dall’art. 45 c.p., che esclude la punibilità
di "chi ha commesso il fatto per caso fortuito o forza maggiore". La dottrina e la giurisprudenza
penalistiche tradizionali ritenevano che il caso fortuito presupponesse il
nesso causale e che esso operasse nell’ambito della colpevolezza, quale causa
di esclusione della stessa (ed in questi termini sembra muoversi anche la
suddetta sentenza civile n. 3651/06). Sennonchè, da oltre quaranta anni, la
dottrina penalistica dominante ritiene che il fortuito costituisca una causa di
esclusione del nesso causale in quanto l’art. 45 c.p., nel far seguire al verbo
"ha commesso" la preposizione "per", sta ad indicare
"a causa di". In ogni caso la suddetta dottrina
rileva, in modo pienamente condivisibile, che solo la concezione del fortuito
come esclusione del nesso causale si coordina con il precedente art. 41 cpv.
c.p., secondo cui le cause sopravvenute escludono il rapporto di causalità,
quando sono state da sole sufficienti a determinare l’evento e soprattutto con
il principio di regolarità causale o causalità adeguata. Infatti la considerazione
oggettiva del fortuito, inteso come avvenimento obbiettivamente non prevedibile
come verisimile, è l’unica compatibile con la teoria della causalità adeguata. Allorchè si dichiara che la
valutazione del fortuito, come causa di esclusione della colpevolezza e non del
nesso di causalità (ovvero come causa concorrente), presuppone già risolta la
questione del rapporto di causalità tra la condotta e l’evento verificatosi, si
finisce per creare un duplicato del caso fortuito, uno di natura oggettiva e
l’altro di natura soggettiva. Ciò è inesatto, giacchè non può tenersi conto del
casus due volte, prima in sede di causalità e poi in sede di colpevolezza. Sotto il profilo eziologico 11
caso fortuito svolge a monte la stessa funzione che la "causalità
adeguata" svolge a valle relativamente all’evento, ma pur sempre
nell’ambito dell’elemento materiale e non in quello soggettivo: esclusione
dell’imputabilità per imprevedibilità ed inevitabilità oggettiva (nel primo
caso del fatto causante, nel secondo dell’evento causato).
6.1. Così riportata la
responsabilità da cose in custodia nell’ambito della responsabilità oggettiva,
occorre stabilire quali siano i limiti ed il contenuto della
"custodia", che è elemento costitutivo della responsabilità ex art.
2051 c.c. ed è il criterio che consente di identificare il soggetto tenuto a
risarcire il danno cagionato dalla cosa, al fine di esaminare se ed in quali
limiti la P.A. possa essere responsabile ex art. 2051 c.c., quale custode di
beni demaniali, per poi esaminare, nei casi positivi, in quali termini possa
per essa operare l’esimente del caso fortuito. Secondo una tesi il concetto di
custodia si deve collegare a quello di uso, godimento, sfruttamento economico
della cosa: al custode si imputa la responsabilità, giacchè è al soggetto che
trae profitto dalla cosa, secondo il brocardo cuius commoda eius et incomoda,
che deve addebitarsi la responsabilità. La tesi è stata ulteriormente sviluppata
dai teorici del rischio - profitto, che hanno ritenuto che la custodia si
sostanzia nel dovere di controllo sul rischio derivante dalla cosa,
distinguendo tra rischi tipici e rischi atipici, rimanendo a carico del custode
solo i primi.
6.2. Secondo il prevalente
orientamento giurisprudenziale e dottrinale, cui questa Corte aderisce, la
custodia si identifica in una potestà di fatto, che descrive un’attività
esercitabile da un soggetto sulla cosa in virtù della detenzione qualificata,
con esclusione quindi della detenzione per ragioni di ospitalità e servizio,
sulla scia del Gardien (dell’art. 1384 Code Napoleon) e del Besitzherr (p. 854
B.G.B.). Responsabile del danno proveniente dalla cosa non è il proprietario,
come nei casi di responsabilità oggettiva di cui agli artt. 2052, 2053 e 2054
c.c., ultimo comma, ma il custode della cosa. E’ dunque la relazione di fatto,
e non semplicemente giuridica, tra il soggetto e la cosa che legittima una
pronunzia di responsabilità, fondandola sul potere di " governo della
cosa". La sola relazione giuridica
(corrispondente al diritto reale o alla titolarità demaniale) tra il soggetto e
la cosa non dà ancora luogo alla custodia (ma la fa solo presumere), allorchè
la relazione di fatto intercorra con altro soggetto qualificato che eserciti la
potestà sulla cosa, (ad esempio il conduttore o il concessionario). Tale "potere di
governo" si compone di tre elementi: il potere di controllare la cosa, il
potere di modificare la situazione di pericolo creatasi, nonchè quello di
escludere qualsiasi terzo dall’ingerenza sulla cosa nel momento in cui si è
prodotto il danno. Solo così intendendo il contenuto
della custodia, si da ragione del criterio di imputazione costituito dalla
relazione di custodia tra il soggetto custode e la cosa che ha prodotto il
danno. Infatti - come detto - il
criterio di imputazione esiste anche nelle ipotesi di responsabilità oggettiva,
ma non è più fondato su criteri soggettivi, ma su criteri oggettivi, come tali
tipologici. Il concetto di responsabilità implica quello di sanzione per un
fatto che l’ordinamento connota negativamente nei confronti di colui sul quale
ne fa gravare il costo.
6.3. Poichè la custodia è una
relazione di fatto tra un soggetto e la cosa, certamente tale potere di fatto
non può essere a priori escluso in relazione alla natura demaniale del bene, ma
neppure può essere ritenuto in ogni caso sussistente anche quando vi è
l’oggettiva impossibilità di tale potere di controllo del bene, che è il
presupposto necessario per la modifica della situazione di pericolo. Va qui, specificato che,
attraverso questa analisi del concetto di "custodia" nel suo
contenuto di "potere di governo" della cosa, non si vuole
reintrodurre in modo surrettizio, un elemento di soggettività della
responsabilità ex art. 2051 c.c., inserendolo nell’elemento della custodia, da
cui discenderebbe che il custode, che avesse tuttavia controllato senza colpa,
sarebbe esente da responsabilità per il danno verificatosi. Non vi è dubbio, come sopra
detto, che il custode risponde dei danni prodotti dalla cosa non perchè ha
assunto un comportamento poco diligente, ma più semplicemente per la
particolare posizione in cui si trovava rispetto alla cosa danneggiante, e
quindi secondo una logica che è propria della responsabilità oggettiva.
6.4. Ciò comporta che la
possibilità o meno del potere di controllo va egualmente accertata in termini
oggettivi nello specifico caso di predicata custodia. Se il potere di controllo è
oggettivamente impossibile, non vi è custodia e quindi non vi è responsabilità
della p.a., ai sensi dell’art. 2051 c.c..
6.5. Indici sintomatici
dell’impossibilità del controllo del bene demaniale sono la notevole estensione
e l’uso generalizzato dello stesso da parte degli utenti; ma tali elementi non
attestano in modo automatico l’impossibilità di custodia. La possibilità o l’impossibilità
di un continuo ed efficace controllo e di una costante vigilanza - dalle quali
rispettivamente dipendono l’applicabilità o la non applicabilità dell’art. 2051
c.c. - non si atteggiano univocamente in relazione a tutti i tipi di beni
demaniali, ma vanno accertati in concreto da parte del giudice di merito. Ove tale attività di controllo
non sia oggettivamente possibile, non potrà invocarsi alcuna responsabilità
della p.a., proprietaria del bene demaniale, a norma dell’art. 2051 c.c., per
mancanza di un elemento costitutivo della custodia e cioè la controllabilità
della cosa, residuando, se ne ricorre gli estremi, la responsabilità di cui
all’art. 2043 c.c..
6.6. Segnatamente per i beni del
demanio stradale la possibilità in concreto della custodia, nei termini sopra
detti, va esaminata non solo in relazione all’estensione delle strade, ma anche
alle loro caratteristiche, alla posizione, alle dotazioni, ai sistemi di
assistenza che li connotano, agli strumenti che il progresso tecnologico di
volta in volta appresta e che, in larga misura, condizionano anche le
aspettative della generalità degli utenti. Per le autostrade, contemplate dal
D.P.R. 15 giugno 1959, n. 393, art. 2, (vecchio codice della strada) e del
D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285 (nuovo cod. strad.) e per loro natura destinato
alla percorrenza veloce in condizioni di sicurezza, l’apprezzamento relativo
alla effettiva "possibilità" del controllo alla stregua degli
indicati parametri non può che indurre a conclusioni in via generale
affermativa, e dunque a ravvisare la configurabilità di un rapporto di custodia
per gli effetti di cui all’art. 2051 c.c. (Cass. n. 298/03; Cass. n. 488/2003).
6.7. Figura sintomatica della
possibilità dell’effettivo controllo di una strada del demanio stradale
comunale è che la stessa si trovi all’interno della perimetrazione del centro
abitato (L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41 quinquies; come modificato dalla
L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17; D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, art. 9; D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 4).
Infatti la localizzazione della strada all’interno di tale perimetro, dotato di
una serie di altre opere di urbanizzazione e, più in generale, di pubblici
servizi che direttamente o indirettamente sono sottoposti ad attività di
controllo e vigilanza costante da parte del Comune, denotano la possibilità di
un effettivo controllo e vigilanza della zona, per cui sarebbe arduo ritenere che
eguale attività risulti oggettivamente impossibile in relazione al bene
stradale.
6.8. Ove l’oggettiva
impossibilità della custodia, renda inapplicabile l’art. 2051 c.c., come detto,
la tutela risarcitoria del danneggiato rimane esclusivamente affidata alla
disciplina di cui all’art. 2043 c.c.. In merito a questa va specificato
che la responsabilità della p.a. per danni conseguenti all’utilizzo di bene
demaniale da parte del soggetto danneggiato non può essere limitata ai soli
casi di insidia o trabocchetto questi, come è stato rilevato, sono solo
elementi sintomatici della responsabilità della p.a., ma ciò non esclude che
possa individuarsi nella singola fattispecie anche un diverso comportamento
colposo della p.a.. Limitare aprioristicamente la responsabilità della p.a. per
danni subiti dagli utenti dei beni demaniali alle sole ipotesi della presenza
di insidia o trabocchetto non trova alcuna base normativa nella Generalklausel
di cui all’art. 2043 c.c., con un’indubbia posizione di privilegio per la p.a.
(in questo senso, già Cass. 14.3.2006, n. 5445). Una volta ritenuta
l’applicabilità alla fattispecie dell’art. 2043 c.c. non vi è una ragione,
normativamente fondata, nè per effettuare una limitazione del contenuto
precettivo della norma nè per un diverso riparto dell’onere probatorio. In
questo caso graverà sul danneggiato l’onere della prova dell’anomalia del bene
demaniale (e segnatamente della strada), fatto di per sè idoneo - in linea di
principio - a configurare il comportamento colposo della P.A. sulla quale
ricade l’onere della prova dei fatti impeditivi della propria responsabilità,
quali - nella teorica dell’insidia o trabocchetto - la possibilità in cui
l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria diligenza la
suddetta anomalia.". 7.1. Sia nell’ipotesi che la fattispecie rientri
nell’art. 2043 c.c. sia che rientri, nell’art. 2051 c.c., è rilevante
l’eventuale comportamento colposo del danneggiato, poichè esso incide sul nesso
causale. In un sistema in cui il nesso
causale tra il fatto e l’evento svolge un ruolo centrale, diventa fondamentale
accertare se l’evento eziologicamente derivi in tutto o in parte dal
comportamento dello stesso danneggiato, valutandone, quindi, l’eventuale
apporto causale. Come sopra detto, l’interruzione
del nesso di causalità può essere anche l’effetto del comportamento
sopravvenuto dello stesso danneggiato, quando il fatto di costui si ponga come
unica ed esclusiva causa dell’evento di danno, sì da privare dell’efficienza
causale e da rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento
dell’autore dell’illecito (cfr. Cass. 8.7.1998, n. 6640; Cass. 7 aprile 1988,
n. 2737).
7.2. Un corollario di detto
principio è la regola posta dall’art. 1227 c.c., comma 1, il quale nel contempo
da base normativa al suddetto principio, presupponendolo. Tale norma prevede la
riduzione del risarcimento in presenza della colpa del danneggiato: essa è un
approdo dei codici moderni. In passato, invece,
l’accertamento di una concorrente colpa del danneggiato faceva venir meno la
responsabilità del danneggiante, tranne che sussistesse il dolo di costui. Nei sistemi di common law si
parlava di contributory negligence, contributory negligence ed attualmente di
comparative negligence. Secondo la dottrina classica nel
nostro ordinamento esisterebbe un principio di autoresponsabilità, segnatamente
previsto dall’art. 1227 c.c., comma 1, oltre che da altre norme, che imporrebbe
ai potenziali danneggiati doveri di attenzione e diligenza. L’autoresponsabilità
costituirebbe un mezzo per indurre anche gli eventuali danneggiati a
contribuire, insieme con gli eventuali responsabili alla prevenzione dei danni
che potrebbero colpirli.
7.3. Senza entrare nella
questione dell’esistenza nel nostro ordinamento del detto principio di autoresponsabilità,
va solo rilevato che la dottrina più recente, che questa Corte ritiene di dover
condividere, ha abbandonato l’idea che la regola di cui all’art. 1227 c.c.,
comma 1, sia espressione del principio di autoresponsabilità, ravvisandosi
piuttosto un corollario del principio della causalità, per cui al danneggiante
non può far carico quella parte di danno che non è a lui causalmente
imputabile. Pertanto la colpa, cui fa
riferimento l’art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione
del fatto (perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto
illecito di cui all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della
rilevanza causale del fatto del danneggiato.
7.4. La regola di cui all’art.
1227 c.c. va inquadrata esclusivamente nell’ambito del rapporto causale ed è
espressione del principio che esclude la possibilità di considerare danno
risarcibile quello che ciascuno procura a se stesso (Cass. civ. 26/04/1994, n.
3957; Cass. 08/05/2003, n. 6988). La colpa, cui fa riferimento
l’art. 1227 c.c., va intesa non nel senso di criterio di imputazione del fatto
(perchè il soggetto che danneggia se stesso non compie un atto illecito di cui
all’art. 2043 c.c.), bensì come requisito legale della rilevanza causale del
fatto del danneggiato. Proprio perchè è rimasta superata
la teoria del principio autoresponsabilità del danneggiato, la colpevolezza del
comportamento del creditore-danneggiato, pur richiesta dall’art. 1227 c.c.,
comma 1, è l’unico elemento di selezione dei vari possibili comportamenti -
eziologicamente idonei - del danneggiato, qualunque possa essere
l’interpretazione dell’obbligo giuridico, cui si richiama l’art. 41 c.p.c.,
comma 2, allorchè il danno trovi la sua causa nel comportamento omissivo di
altro soggetto. Così ristretta nella funzione la
portata della colpa del creditore- danneggiato, stante la genericità dell’art.
1227 c.c., comma 1, sul punto, la colpa sussiste non solo in ipotesi di
violazione da parte del creditore-danneggiato di un obbligo giuridico, ma anche
nella violazione della norma comportamentale di diligenza, sotto il profilo
della colpa generica. Se tanto avviene in caso di
concorso del comportamento colposo del danneggiato nella produzione del danno,
tenuto conto di quanto sopra esposto su detto istituto, per eguale ragione il
comportamento commissivo o omissivo colposo del danneggiato, che sia
sufficiente da solo a determinare l’evento, esclude il rapporto di causalità
delle cause precedenti.
7.5. In questa ottica la
diligenza del comportamento dell’utente del bene demaniale, e segnatamente
della strada demaniale, va valutata anche in relazione all’affidamento che era
ragionevole porre nell’utilizzo ordinario di quello specifico bene demaniale,
con riguardo alle specifiche condizioni di luogo e di tempo. Per il principio dell’affidamento
il fatto che una persona agisca come membro di un determinato gruppo sociale
comporta l’assunzione della responsabilità di saper riconoscere ed affrontare
determinati pericoli secondo lo standard di diligenza e capacità del gruppo. Qui non si tratta di introdurre -
specularmente - in relazione alla posizione del custode l’elemento
dell’esigibilità o meno di una diversa condotta, poichè l’inesigibilità,
indipendentemente dal punto se abbia ingresso nella struttura dell’illecito
civile, in ogni caso non potrebbe operare che nell’ambito dell’elemento
soggettivo, come avviene nella struttura dell’illecito penale (ove peraltro la
figura e controversa e non riconosciuta dalla giurisprudenza), con la
conseguenza che essa sarebbe irrilevante in ipotesi di responsabilità
oggettiva. Qui il problema si pone solo in
relazione al comportamento colposo o meno del danneggiato, il quale è connotato
dagl’affidamento, secondo criteri oggettivi e non soggettivi, che egli ripone
nel ritenere esigibile da parte della p.a. custode, una determinata condotta di
custodia in relazione ad un determinato bene. In questi termini il colpevole
comportamento del danneggiato modula la corretta applicazione del principio
della causalità adeguata ai fini del nesso causale, o escludendolo o dando un
apporto concorrente. In applicazione di tale
principio, la diligenza che è richiesta al danneggiato nell’uso del bene
demaniale, costituito nella specie da strada, sarà diversa a seconda che si
tratti di una strada campestre o del corso principale della città, pur facendo
capo entrambe allo stesso demanio stradale dello stesso Comune, proprio perchè
il danneggiato fa affidamento su una diversa attività di controllo- custodia
(che quindi ritiene esigibile) in relazione ai due tipi di strada dello stesso
demanio.
7.6. Così inquadrato sotto il
profilo eziologico (ex art. 1227 c.c., comma 1) il comportamento colposo del
danneggiato-utente del bene demaniale (nella fattispecie: stradale), va
osservato che esso non concreta un’eccezione in senso proprio, ma una semplice
difesa, che deve essere esaminata anche d’ufficio dal giudice, attraverso le
opportune indagini sull’eventuale sussistenza dell’incidenza causale
dell’accertata negligenza nella produzione dell’evento dannoso,
indipendentemente dalle argomentazioni e richieste della parte, sempre che
risultino prospettati gli elementi di fatto su cui si fonda il comportamento
colposo del danneggiato (Cass. 2.4.2001, n. 4799; Cass. 9.10.2000, n. 13403;
Cass. 3.12.1999, n. 13460). Ciò vale sia nel caso di azione
proposta ex art. 2051 c.c. che ex art. 2043 c.c..
8.1. sulla base di quanto sopra
esposto vanno affermati i seguenti principi di diritto: "La responsabilità ex art.
2051 c.c. per i danni cagionati da cose in custodia, anche nell’ipotesi di beni
demaniali in effettiva custodia della p.a., ha carattere oggettivo e, perchè
tale responsabilità possa configurarsi in concreto, è sufficiente che sussista
il nesso causale tra la cosa in custodia e il danno arrecato, senza che rilevi
al riguardo la condotta del custode e l’osservanza o meno di un obbligo di
vigilanza, per cui tale tipo di responsabilità è esclusa solo dal caso
fortuito, fattore che attiene non già ad un comportamento del responsabile
bensì al profilo causale dell’evento, riconducibile non alla cosa (che ne è
fonte immediata) ma ad un elemento esterno, recante i caratteri dell’oggettiva
imprevedibilità ed inevitabilità e che può essere costituito anche dal fatto
del terzo o dello stesso danneggiante".
8.2. "La presunzione di
responsabilità per danni da cose in custodia, di cui all’art. 2051 c.c., non si
applica agli enti pubblici per danni subiti dagli utenti di beni demaniali
(nella fattispecie: del demanio stradale) ogni qual volta sul bene demaniale, per
le sue caratteristiche, non sia possibile esercitare la custodia, intesa quale
potere di fatto sulla stessa. L’estensione del bene demaniale e l’utilizzazione
generale e diretta dello stesso da parte di terzi, sono solo figure
sintomatiche dell’impossibilità della custodia da parte della p.a. mentre
elemento sintomatico della possibilità di custodia del bene del demanio
stradale comunale è che la strada, dal cui difetto di manutenzione è stato
causato un danno, si trovi nel perimetro urbano delimitato dallo stesso Comune,
pur dovendo dette circostanze, proprio perchè solo sintomatiche, essere
sottoposte al vaglio in concreto da parte del giudice di merito".
8.3. "Ove non sia
applicabile la disciplina della responsabilità ex art. 2051 c.c., per
l’impossibilità in concreto dell’effettiva custodia del bene demaniale, l’ente
pubblico risponde dei danni da detti beni, subiti dall’utente, secondo la
regola generale dettata dall’art. 2043 c.c., che non prevede alcuna limitazione
della responsabilità della P.A. per comportamento colposo alle sole ipotesi di
insidia o trabocchetto. In questo caso graverà sul danneggiato l’onere della
prova dell’anomalia del bene demaniale (e segnatamente della strada), fatto di
per sè idoneo - in linea di principio -a configurare il comportamento colposo
della P.A. sulla quale ricade l’onere della prova dei fatti impeditivi (della
propria responsabilità, quali - nella teorica dell’insidia o trabocchetto - la
possibilità in cui l’utente si sia trovato di percepire o prevedere con l’ordinaria
diligenza la suddetta anomalia.".
8.4. "Tanto in ipotesi di
responsabilità oggettiva della P.A. ex art. 2051 c.c., quanto in ipotesi di
responsabilità della stessa ex art. 2043 c.c., il comportamento colposo del
soggetto danneggiato nell’uso di bene demaniale (che sussiste anche quando egli
abbia usato il bene demaniale senza la normale diligenza o con affidamento
soggettivo anomalo) esclude la responsabilità della p.a., se tale comportamento
è idoneo ad interrompere il nesso eziologico tra la causa del danno e il danno
stesso, integrando, altrimenti, un concorso di colpa ai sensi dell’art. 1227
c.c. comma 1, con conseguente diminuzione della responsabilità del danneggiante
in proporzione all’incidenza causale del comportamento del danneggiato".
9. Nella fattispecie, quindi, è
errata in diritto l’impugnata sentenza per avere escluso già in astratto che il
Comune di Ancona potesse essere responsabile ex art. 2051 c.c., quale custode
della strada in questione, senza valutare se in concreto fosse possibile
esercitare il controllo e la vigilanza sul demanio stradale di quella città,
vagliando anche le figure sintomatiche suddette (punto 8.2).
10.1. Quanto al punto secondo cui
in ogni caso la custodia faceva capo all’Azienda di manutenzione servizi e non al
Comune, per essere stati alla prima affidati i lavori di manutenzione, va
osservato che è stato già precisato, in via generale, che, nel caso in cui non
vi sia stato il totale trasferimento a terzi del potere di fatto sull’opera,
per l’ente proprietario, che sull’opera debba continuare ad esercitare la
opportuna vigilanza ed i necessari controlli, non viene meno il dovere di
custodia e, quindi, nemmeno la correlativa responsabilità ex art. 2051 c.c., da
cui si può liberare solo dando la prova del fortuito (Cass., n. 5007/96; Cass.,
n. 5539/97). E’ stato in particolare affermato
da questa Corte che, con riguardo a lavori stradali eseguiti in appalto su
concessione dell’Anas, che abbiano comportato insidia o trabocchetto causativi
di sinistro, per mancanza di cartelli di segnalazione e conseguente
invisibilità della esatta ubicazione del pericolo, è configurabile la
concorrente responsabilità tanto dell’appaltatore - in relazione al suo obbligo
di custodire il cantiere, di apporre e mantenere efficiente la segnaletica,
nonchè di adottare tutte le cautele prescritte dall’art. 8 Codice Stradale e
relativo regolamento - quanto dell’Anas, in relazione al suo dovere di vigilare
sull’esecuzione delle opere date in concessione, ed altresì di emettere i
provvedimenti necessari per la sicurezza del traffico (Cass. 25/09/1998, n.
9599; Cass. 25/09/1990, n. 9702).
10.2. Ne consegue che, se l’area
di cantiere è stata completamente enucleata, delimitata ed affidata
all’esclusiva custodia dell’appaltatore, con assoluto divieto del traffico
veicolare e pedonale, dei danni subiti all’interno di questa area non potrà che
risponderne esclusivamente l’appaltatore, quale unico custode della stessa. Se, invece, l’area su cui vengono
realizzati i lavori è ancora contestualmente adibita a tale traffico, ciò
denota che l’ente titolare della strada ne ha conservato la custodia, sia pure
insieme all’appaltatore, utilizzando la strada ai fini della circolazione. Nè potrebbe ritenersi in questo
caso che l’estensione del bene demaniale nel suo complesso escluda la
possibilità della custodia da parte dell’Ente. Qui infatti ciò che viene in
rilievo è esclusivamente l’area adibita promiscuamente ai lavori ed alla
circolazione, per cui essa è necessariamente di ridotte dimensioni. Inoltre se per tale area si
ritiene possibile la custodia da parte dell’appaltatore, non si vede la ragione
per cui non sia possibile la custodia anche da parte dell’Ente titolare della
strada, che ne ha conservato il potere di fatto ai fini della circolazione
degli utenti.
10.3. ciò comporta che la
responsabilità per danni subiti dall’utente a causa dei lavori in corso su
detta strada graverà su entrambi detti soggetti, salvo poi l’eventuale azione
di regresso dell’ente proprietario della strada nei confronti dell’appaltatore
dei lavori a norma dei comuni principi in tema di responsabilitàsolidale ( art.
2055 c.c., comma 2), tenuto anche conto della violazione degli obblighi di
segnalazione e manutenzione imposti dalla legge per opere, depositi e cantieri
stradali (D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 21) nonchè di quelli assunti
dall’appaltatore della manutenzione della strada nei confronti dell’ente
proprietario, in base a specifica convenzione.
10.4. Nè può ritenersi, come
assume la sentenza impugnata, che "il fatto del soggetto assuntore dei
lavori" (id est: dei suoi dipendenti) costituisca un’ipotesi del
"fatto del terzo", integrante caso fortuito e quindi idoneo ad
interrompere il nesso causale tra la custodia ed il danno ingiusto. Ciò potrebbe essere esatto (sia
pure in presenza anche di altri elementi) se l’Ente, titolare della strada,
fosse il solo custode della stessa, ma nella situazione in cui si sia ritenuto
che detta custodia è congiunta nell’area del sinistro, il soggetto preposto ai
lavori, in rapporto al fatto di custodia, non è più un terzo, ma è solo un
custode congiunto. Poichè in questa ipotesi la responsabilità è oggettiva (e
quindi prescinde dalla imputabilità per comportamento almeno colposo) e si
fonda sulla sola relazione di fatto con la cosa, entrambi i soggetti rispondono
solidalmente del danno ingiusto a norma dell’art. 2051 c.c..
11. L’accoglimento del primo
motivo di ricorso comporta l’assorbimento del secondo motivo, relativo alla
condanna delle spese processuali. Pertanto va cassata l’impugnata
sentenza, con rinvio, anche per le spese del giudizio di Cassazione ad altra
sezione del tribunale di Ancona che si uniformerà ai principi di diritto,
esposti al punto 8.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di
ricorso, assorbito il secondo. Cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per
le spese di questo giudizio di Cassazione ad altra sezione del tribunale di
Ancona.
Così deciso in Roma, il 8 giugno
2006. Depositato in Cancelleria il 6
luglio 2006.
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