(omissis)
Con sentenza del
14 novembre 2005, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di
Larino ha prosciolto R.S., a norma degli artt. 459, comme 3, e 129 cod. proc.
pen., perchè il fatto non sussiste dalla imputazione di tentata truffa per
avere, apponendo sul parabrezza del proprio autocarro un certificato
assicurativo falso e tacendo tale falsità al momento del controllo di alcuni
agenti, compiuto atti idonei diretti in modo non equivoco ad indurre in errore
tali agenti circa la regolarità della posizone assicurativa dell’autocarro
stesso, per procurarsi "l’ingiusto profitto di non pagare la sanzione
amministrativa con mancato introito di denaro per l’erario e non subire il
sequestro dell’autovettura non assicurata".
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore
Generale presso la Corte d’Appello di Campobasso, il quale ha dedotto
violazione di legge.
Ad avviso del ricorrente, infatti, sussisterebbero gli estremi del contestato
reato, in quanto l’imputato non si sarebbe limitato a circolare senza il
certificato di assicurazione, ma attraverso il quid pluris rappresentato dalla
esposizione di un falso certificato, avrebbe eluso i controlli, sottraendosi al
pagamento della sanzione amministrativa e della eventuale confisca del veicolo.
Con memoria depositata in prossimità della udienza, il difensore dell’imputato
ha chiesto di dichiarare inammissibile o di rigettare il ricorso.
Il ricorso è infondato.
Questa Corte ha infatti in varie circostanze avuto modo di affermare che
l’esposizione sul parabrezza della autovettura del disco contrassegno
materialmente falsificato unitamente alla ricevuta, integra il reato di truffa
consumata, in quanto l’agente, facendo risultare l’adempimento dell’obbligo
fiscale, si è sottratto al pagamento del maggior importo dovuto all’erario
(Cass. Sez. II, 28 settembre 1989, Zito; Cass. Sez. II, 14 novembre 1989,
Scarcelli).
Ma tale orientamento, pur avallato da una pronuncia delle Sezioni Unite (Cass.
Sez. Un., 21 giugno 1986, Giovannelli), non soltanto non ha mancato di far
registrare opposte decisioni anche in epoca successiva (vedi, ad es., Cass.
Sez. II, 09 maggio 1989, DeCesare; Cass. Sez. II, 30 giugno 1988, Ricucci), ma
è stato pure vivacemente resistito in dottrina.
Partendo, infatti, dalla premessa per la quale nella struttura della truffa,
secondo il suo schema tradizionale, sarebbe presente, come requisito implicito,
quello dell’atto di disposizione patrimoniale - quale elemento intermedio
derivante dall’errore e causa dell’ingiusto profitto con altrui danno (la
truffa, è stato sostenuto, sarebbe appunto caratterizzata da tre eventi) - si è
infatti osservato, al riguardo, che, pur ammettendosi la configurabilità di un
atto dispositivo di carattere omissivo, nell’ambito della condotta innanzi
delineata mancherebbe un qualsiasi atto di disposizione patrimoniale, non
essendo esso ravvisabile nel fatto che gli organi di controllo, indotti in
errore, non contestino l’evasione tributaria, nè tantomeno nel fatto che
l’erario si limiti a subire l’inadempienza dell’agente al momento del
versamento della somma inferiore a quella dovuta: il reato, si è ancora
osservato, non sarebbe nella specie ipotizzabile perchè manca la necessaria
cooperazione della vittima.
Inoltre, non ricorrerebbe la necessaria sequenza "artificio - induzione in
errore - profitto", perchè, al contrario, il profitto sarebbe realizzato
immediatamente, grazie al versamento di una somma inferiore, e l’alterazione
del contrassegno risulterebbe finalizzata a dissimulare il profitto già
ottenuto.
Simili rilievi, di tutt’altro che evanescente spessore, valgono ovviamente eo
magis nella ipotesi che qui rileva, posto che tra il "contravventore"
e la pubblica amministrazione non sussisteva, prima della falsificazione del
certificato di assicurazione, alcun rapporto di "debito", tributario
o di altra natura; sicchè il comportamento fraudolento in nessun modo poteva
correlarsi ad un "danno" dell’erario, neppure dilatando al massimo la
nozione di atto di disposizione di carattere omissivo.
Il profitto conseguito dall’imputato, infatti, era quello derivante dalla
circolazione senza la copertura assicurativa: dunque, un fatto del tutto neutro
agli effetti di un ipotetico "danno erariale", proprio perchè quella
condotta non era destinata a spostare "risorse" economiche dal
soggetto in ipotesi truffato all’autore di tale condotta.
A simili principi, d’altra parte, ha fatto appello anche la giurisprudenza di
questa Corte, allorchè ha avuto modo di affermare che non integra il delitto di
tentata truffa la condotta costituita dalla produzione di falsa documentazione
a sostegno di un ricorso al prefetto avverso l’ordinanza-ingiunzione di
pagamento di una sanzione amministrativa per violazione delle norme sulla
circolazione stradale (Cass., Sez. VI, 25 giugno 2001, Scopacasa).
Si è infatti sottolineato - escludendosi la configurabilità della truffa, anche
nella forma tentata - che, nel procedimento volto all’accertamento della
infrazione amministrativa, l’autorità che irroga la sanzione in nessun modo
compie un atto che possa essere riguardato come disposizione di carattere
negoziale incidente sul patrimonio della amministrazione rappresentata, nè,
tantomeno, sul patrimonio del trasgressore, ma pone in essere un atto
autoritativo di tipo "ablatorio" che costituisce manifestazione
tipica dell’esercizio di uno specifico e tipizzato munus, quale è quello di
applicare sanzioni.
E’ del tutto evidente, allora, che, come non può ipotizzarsi, in tale schema
pubblicistico, il carattere dispositivo e negoziale dell’atto (l’accertamento
della violazione) dal quale può scaturire l’insorgenza del "danno"
patrimoniale postulato come elemento essenziale della truffa, nessuna lesione
del bene protetto è ipotizzabile ove la condotta fraudolenta si sia limitata,
come nella specie, ad eludere l’accertamento di infrazioni amministrative, che
costituiscono - esse stesse - il profitto già conseguito dal trasgressore.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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