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Corte di Cassazione 10/11/2006

Custodia cautelare: dichiarazioni del coimputato e gravi indizi di colpevolezza

Cassazione, SS.UU. penali, sentenza 30 maggio 2006 n° 36267

Il tema della gravità degli indizi di colpevolezza da porre a base dell’adozione di una misura coercitiva, privativa della libertà personale, è indubbiamente materia affascinante e stimolante.
Essa ha, da sempre, suscitato un fervido dibattito in dottrina e giurisprudenza, in quanto, infatti, involge uno degli aspetti indubbiamente più controversi tra quelli che il diritto procesuale penale possa proporre nei confronti dell’indagato/imputato
Va, inoltre, rilevato come esso si caratterizzi come profilo di specifica incisività sul tessuto del diritto soggettivo del singolo, posto che attiene al bene supremo della libertà personale dell’inquisito.
L’applicazione della carcerazione in una fase processualmente preventiva al vero e proprio processo, presuppone, infatti, la verifica preliminare, da parte del giudice, della sussistenza di una condizione essenziale ed ineludibile e cioè che la persona sottoposta ad indagine sia raggiunta da elementi probatori che, al contempo, dimostrino sia la commissione del fatto-reato ritenuto, che l’attribuibilità nei di lui confronti della illecita condotta.
E’, infatti, pacifica in giurisprudenza, l’osservazione per cui la sussistenza di siffatta duplice condizione sia l’elemento indefettibile ai fini dell’emissione della misura preventiva di maggiore invasività che il nostro ordinamento possa concepire e cioè la privazione del diritto alla libertà di movimento.
Il che vale a testimoniare la fondatezza del principio trasfuso nel comma 1° dell’art. 273 c.p.p., il quale afferma che, in assenza di gravi indizi di colpevolezza, qualsiasi misura coercitiva od interdittiva è inapplicabile[1].
Principio quest’ultimo di portata assolutamente generale, che ha trovato puntuale conferma in significative scelte legislative.
In proposito, infatti, va ricordata, sul piano puramente esemplificativo la previsione normativa cautelare riguardante l’art. 416 bis c.p. .
Non a caso tale disposizione di diritto sostanziale presenta un rapporto fra indizi di colpevolezza ed esigenze cautelari, che appare connotato da una assoluta, totalizzante e condizionante preminenza dei primi rispetto alle seconde.
Si deve, infatti, rilevare che, nella fattispecie associativa in parola, secondo il dettato normativo del codice di rito, la sola presenza di gravi indizi di colpevolezza annichilisce le esigenze cautelari di cui all’articolo 274 c.p.p. al punto di ridurle a mere presunzioni iuris tantum.
Vale a dire, quindi, che, mentre non appare affatto necessaria alcuna alligazione da parte dell’accusa sullo specifico punto - tematica che altrimenti non sfugge dell’esercizio dell’onus probandi – siccome provato in re ipsa, incombe, invece, all’imputato od alla sua difesa la esplicita dimostrazione dell’insussistenza della citate esigenze, di modo che la presunzione sia effettivamente superata (Cfr. Trib. Napoli 17 Giugno 2003, Guida al Diritto, 2004, 18, 92).
Consegue, pertanto, che la incontrovertibile natura di assoluta eccezionalità, (in un sistema penalistico che risente evidentemente della previsione data dall’art. 13 Cost.) che assume la limitazione della libertà personale del soggetto solo indagato e non destinatario, quindi, di un provvedimento di frutto di un giudizio di merito definitivo che ne accerti la responsabilità, quale la sentenza, impone elevato rigore nell’esame dei presupposti e requisiti voluti dalla legge, soprattutto in riferimento al preliminare giudizio che deve essere svolto in relazione ai gravi indizi di colpevolezza.
La pronunzia del Tribunale di Bologna, quale giudice del riesame cautelare, che si commenta in questa sede costituisce una tranquillizzante (ancorchè mai troppo reiterata) conferma di un approdo giurisprudenziale che non pare più suscettibile di pericolose involuzioni e derive giustizialiste, che, peraltro, in talune occasioni (e ciclicamente) hanno mostrato di trovare fertile terreno in situazioni di grande suggestione popolare e cd. emergenziali, anche alla luce della pronunzia delle SS.UU. n. 36267 del 30 Ottobre u.s., che - come si avrà modo di verificare in prosieguo – ha sgombrato lo specifico campo da qualsivoglia controversia.
In buona sostanza, il Collegio di merito ribadisce, sul piano interpretativo, alcuni punti fermi per l’ipotesi specifica in cui l’unica fonte su cui si basi l’accusa consista in una chiamata in reità.

1. In primo luogo, si riafferma quale debba essere la strutturazione della chiamata in reità, intesa quale indizio d’accusa, e quali debbano essere gli elementi esterni che lo corroborino, sì da legittimare quel giudizio “di qualificata probabilità sulla responsabilità dell’indagato in ordine ai reati addebitatigli” (Cfr. Cass. Sez. IV, 21 Giugno 2005, n. 30328, Tavella, Guida al Diritto, 2005, 38, 81).
La regola generale cui la chiamata in reità non può sfuggire assolutamente è quella della necessità che la esposizione dichiarativa del soggetto, che integra l’istituto in parola, sia suffragata da elementi di riscontro ab externo.
Tale supporto probatorio, che risulta già di per sé necessario, dunque, quale principio di ordine generale, nella logica di una verifica processuale della fondatezza di “una prova allo stato degli atti", valutata dal giudice allorchè la formazione del materiale probatorio è ancora in itinere e non è stato sottoposto al vaglio del contraddittorio dibattimentale [Cfr. Cass. Sez. I, 4 Maggio 2005, n. 19867 (rv. 232601), Lo Cricchio, CED Cassazione, 2005], appare addirittura indefettibile, laddove, come nel caso che interessato il Tribunale di Bologna, si verta in ambito di dichiarazioni accusatorie generiche e sintetiche nella loro esposizione.
In concreto – anche alla luce della novella intervenuta con il comma 1 bis dell’art. 273 c.p.p. (aggiunto dall’art. 11, L. 1 marzo 2001, n. 63) – è evidente la necessità di una profonda rilettura dei criteri valutativi ed applicativi dell’istituto della chiamata in reità (o correità), atteso che la stessa ha finito per perdere il proprio valore intrinseco laddove non sia supportata da altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità [Cfr. Cass. Sez. V, ord. n. 33903 del 6 Agosto 2004, Zini (rv 229552)].

2. In secondo luogo, deriva, quindi, la necessità che la forma di conferma della chiamata in reità appaia di natura specifica, cioè sia corredata dai cd. "riscontri individualizzanti", cioè elementi tutt’altro che generici, in quanto “pertinenti agli aspetti obiettivi del reato e non anche alla sua attribuzione soggettiva all’indagato, ai fini dell’adozione della misura cautelare”. (Cfr. Cass. pen. Sez. V, 11 Aprile 2002, n. 21342, Bruno, Massima redazionale, 2005).
E’, quello testè espresso, approdo costante della prevalente giurisprudenza della Suprema Corte, la quale ha avuto modo di sancire, anche in epoca successiva alla pronunzia ricordata, il principio per cui “Ai fini della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza necessari per l’emissione di una misura cautelare personale, in tanto risultano necessari i riscontri individualizzanti alla chiamata in correità in quanto essi siano funzionali al giudizio di credibilità del chiamante, per consentire al giudice di superare gli eventuali errori, incongruenze, contraddizioni contenuti nelle sue dichiarazioni eteroaccusatorie” [Cfr. Cass. pen.
Sez. II, 18-11-2003, n. 49212 (rv. 227506) P.M. in proc. Palumbo e altri, Arch. Nuova Proc. Pen., 2005, 104 CED Cassazione, 2003 Riv. Pen., 2005, 92].
Va, infatti, sottolineato come la giurisprudenza abbia avuto plurime e numerose occasioni per intervenire e valutare situazioni cautelari generate da singole chiamate in correità od in reità e che le stesse siano state puntualmente risolte nel senso dianzi esposto.
Or bene, in relazione a tale dedotta tematica, va ribadito che l’orientamento assolutamente prevalente appare indirizzato nel senso di ritenere che ”quando unica fonte di accusa a carico risultino le dichiarazioni di un unico collaboratore, queste devono essere riscontrate ab externo, cioè in base ad altri elementi non provenienti dallo stesso dichiarante, onde evitare la cosiddetta circolarità della prova, vale a dire che la verifica dell’attendibilità del dichiarante sia tautologica e autoreferente e che, in definitiva, la ricerca finisca per usare come sostegno dell’ipotesi accusatoria che si trae dalla chiamata in correità la chiamata stessa, cioè lo stesso dato da riscontrare” (Cfr. Cass. pen. Sez. II, 16-12-2002, n. 12838 Bellofiore, Guida al Diritto, 2003, 23, 80).
A prescindere, pertanto, dalla natura atipica del riscontro, il quale può consistere in elementi di qualsivoglia natura, cioè non predeterminati per specie o qualità e, quindi, anche solo di carattere logico che, pur non avendo autonoma forza probante, siano in grado di corroborare la chiamata, in radice passibile di sospetto, conferendole la credibilità piena di qualsiasi elemento di prova, va riaffermata, con forza, la indefettibile necessità che esso risulti, comunque, esterno alla chiamata nel senso che, pur dovendosi necessariamente collegare ai fatti riferiti dal chiamante, esso deve tuttavia rimanere ed apparire esterno ad essi, allo scopo di evitare che la verifica sia circolare e tautologica [Cfr. Cass. pen. Sez. I, 13-11-2002, n. 4765 (rv. 223152) Cusimano, CED Cassazione, 2003].
Rispetto a siffatto indirizzo, che si ribadisce, appare assolutamente predominante e condivisibile, non sono, però, mancate voci totalmente o parzialmente dissonanti.
Una parte della giurisprudenza, infatti, contrastando l’opinione prevalente ha pervicacemente escluso la necessità di riscontri individualizzanti, asserendo la sufficienza, ai descritti fini di riscontri esterni che confermino l’ attendibilità del chiamante.
La ratio di tale orientamento era fondata sulla necessità di evitare che il concetto di indizio grave e quello di prova venissero a coincidere, annullandosi, così la distinzione gnoseologica che esiste fra gli stessi e che trovano giustificazione nella differente funzioni dei due istituti.
L’uno, l’indizio infatti, sarebbe apparso puramente strumentale al sostegno dell’addebito provvisorio - allo stato degli atti-, mentre la prova, che trova suo momento costitutivo nella fase dibattimentale costituisce fulcro del giudizio di merito in ordine alla colpevolezza o meno del singolo.
In medio tra gli opposti schieramenti si poneva una visione di compromesso, la quale affermava che i riscontri dovevano apparire quantomeno parzialmente individualizzanti, perchè essi dovevano, quindi, permettere di dimostrare la effettiva attinenza fra condotta dell’indagato (chiamato in reità) ed il fatto oggetto dell’imputazione provvisoriamente ascritta al medesimo.
In pratica, questa giurisprudenza individuava e propugnava un concetto di individualizzazione del riscontro di natura teorica e potenziale, posto che l’elemento di conferma della chiamata doveva solamente dimostrare una propria astratta tendenza alla specificità, ben potendosi, poi, in relazione ai casi concreti e dettagliati esprimere un carattere di elasticità rispetto alla narrazione principale.
Si trattava, all’evidenza di una soluzione giuridicamente insidiosa, in quanto non pienamente delineata, ed anzi foriera di maggiori dubbi interpretativi.
Il contrasto è stato superato dalle SS.UU. della Corte di Cassazione con una pronunzia emessa proprio mentre si sta redigendo questa nota, (e che si riporta per esteso in calce), in data 30 Ottobre 2006.
L’approdo interpretativo, che si alimenta sia di importanti spunti relativi a pregressi interventi anche della Consulta, sia dell’accettazione (e questo pare profilo decisivo) del dettato della L. 63/2001 – art. 11 – che ha riscritto l’impianto dell’art. 273 c.p.p., ha risolto l’arcano nel senso che la corroboration, relativa ad una chiamata di correo (assunta quale grave indizio di colpevolezza), che paia intrinsecamente attendibile, deve essere costituita da riscontri esterni individualizzanti in grado di dimostrarne la compatibilità col thema decidendum proprio della pronuncia de libertate e di giustificare, quindi, la razionalità della medesima.
Nel caso oggetto di valutazione da parte del Tribunale di Bologna è assolutamente evidente l’autoreferenzialità dei presunti riscontri invocati, i quali, come osserva il Collegio, promanano dalla stessa persona chiamante in reità e appaiono privi di quel carattere di estrinsecità, che la giurisprudenza, come appena visto, impone.
Non va dimenticato, inoltre, che i giudici hanno sottolineato con grande rilievo il carattere di neutralità dei dati richiamati.
Simile osservazione depotenzia, quindi, significativamente, la valenza indiziaria implicita dei riscontri alla chiamata in reità.

3.In terzo luogo, significativa importanza viene attribuita dall’ordinanza in commento alla struttura della chiamata in reità, soprattutto in relazione alla circostanza che essa proviene da propalante ritenuto credibile, per avere in altre occasioni fornito dati che sarebbero risultati veridici.
Il Collegio fa, quindi, derivare da tale affermazione una prognosi di conformità della chiamata in questione, (intesa come elemento costitutivo la più ampia categoria dell’indizio), rispetto al parametro di una intrinseca creedbilità.
Tale considerazione, però, non si pone affatto in contraddizione con le valutazioni sin qui svolte, proprio perché, come già si è avuta occasione di sottolineare, la chiamata in reità va considerata solo come uno degli elementi costitutivi l’indizio (inteso quale presupposto) e non come dato pienamente coincidente con il concetto di indizio.
Essa non può sostenere, ancorché intrinsecamente fondata, di per sé sola, in toto ed in perfetta autonomia processuale rispetto ad altri dati cognitivi, l’onere concernente la dimostrazione della sussistenza dell’accusa, in quanto necessita di una vera e propria consecutio probatoria data dallla sussistenza del riscontro, il quale costituisce – nel giudizio cautelare che è allo stato degli atti - momento di verifica e perfezionamento del profilo accusatorio presupposto.
Consegue, anzi, evidente, il convincimento che il provvedimento de quo, pur attribuendo – come detto - alla chiamata in reità valenza di dato indiziario di indubbio spessore, ancora ogni valutazione cautelare proprio e solo al raggiungimento di un profilo di piena completezza probatoria ex art. 273 c.p.p., il quale non può che postulare un nucleo indiziario centrale (la chiamata), che, però, di per sé “non è tuttavia sufficiente a giustificare una prognosi di qualificata probabilità di condanna, il che è causa ostativa all’applicazione di qualsivoglia misura”.

(Nota di Carlo Alberto Zaina)

____________________________
[1] Art. 273. Condizioni generali di applicabilità delle misure.
1. Nessuno può essere sottoposto a misure cautelari se a suo carico non sussistono gravi indizi di colpevolezza.
1-bis. Nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli articoli 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1 (1).
2. Nessuna misura può essere applicata se risulta che il fatto è stato compiuto in presenza di una causa di giustificazione o di non punibilità [c.p. 45-48, 85, 308, 309] o se sussiste una causa di estinzione del reato [c.p. 150] ovvero una causa di estinzione della pena [c.p. 171] che si ritiene possa essere irrogata (2).

(1) Comma aggiunto dall’art. 11, L. 1 marzo 2001, n. 63. L’art. 26 della stessa legge ha così disposto: «Art. 26. 1. Nei processi penali in corso alla data di entrata in vigore della presente legge si applicano le disposizioni degli articoli precedenti salvo quanto stabilito nei commi da 2 a 5.
2. Se il procedimento è ancora nella fase delle indagini preliminari, il pubblico ministero provvede a rinnovare l’esame dei soggetti indicati negli articoli 64 e 197-bis del codice di procedura penale, come rispettivamente modificato e introdotto dalla presente legge, secondo le forme ivi previste.
3. Le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari o dell’udienza preliminare, se già acquisite al fascicolo per il dibattimento, sono valutate a norma dei commi 3, 4, 5 e 6 del previgente articolo 500 del codice di procedura penale.
4. Quando le dichiarazioni di cui al comma 3 sono state rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’esame dell’imputato o del difensore, si applica la disposizione del comma 2 dell’articolo 1 del decreto-legge 7 gennaio 2000, n. 2, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 febbraio 2000, n. 35, soltanto se esse siano state acquisite al fascicolo per il dibattimento anteriormente alla data del 25 febbraio 2000. Se sono state acquisite successivamente, si applica il comma 1-bis dell’articolo 526 del codice di procedura penale, come introdotto dall’articolo 19 della presente legge.
5. Alle dichiarazioni acquisite al fascicolo per il dibattimento, e già valutate ai fini delle decisioni, si applicano nel giudizio dinanzi alla Corte di Cassazione le disposizioni vigenti in materia di valutazione della prova al momento delle decisioni stesse.».
(2) Vedi gli artt. 45-54 c.p.


 
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

SENTENZA 30 maggio 2006-31 ottobre 2006, n. 36267

(Presidente Gemelli – Relatore Milo)

FATTO

1. Il Tribunale di Lecce, decidendo in sede di riesame ex articolo 309 c.p.p., con ordinanza 13 agosto 2005, annullava la misura della custodia cautelate in carcere adottata, il precedente 21 luglio, dal Gip dello stesso Tribunale a carico di L.S., indagato per concorso nel duplice omicidio di C. e F. T., commesso il 18 maggio 2000 (capo J), nella rapina in danno di N. S. e della Banca …… di B., commessa il 28 aprile 2000 (capi Al, BI, CI, DI), nella rapina in danno della gioielleria di M.A., commessa il 21 giugno 2000 (capi HI, 11, JI), nella rapina in danno di Z.V. e della gioielleria di P. P. commessa il 28 aprile 2000 (capi El, FI, G 1), nella rapina in danno di C.T. commessa 1, 11 settembre 2000 (capi KI, LI).

Il giudice del riesame dava atto che il quadro indiziario a carico dell’indagato era costituito essenzialmente dalla chiamata in correità operata dal collaboratore di giustizia V.D.E., esponente di spicco dell’associazione criminale denominata "sacra corona unite”, il quale, dopo avere riferito in ordine all’organigramma di tale sodalizio di stampo mafioso e alla variegata attività criminosa allo stesso riferibile, aveva confessato di aver preso parte direttamente ai delitti summenzionati, nei quali aveva concorso anche lo S., attribuendo al medesimo, con specifico riferimento al delitto di omicidio, il ruolo di avere fornito indicazioni sui movimenti delle due vittime e di avere così consentito la realizzazione del piano delittuoso (agguato teso sulla strada …….). Riteneva che tali propolazioni, in quanto dettagliate, coerenti e logiche, erano intrinsecamente attendibili ed avevano trovato riscontri esterni, con riferimento alle modalità oggettive di esecuzione degli illeciti, negli accertamenti espletati dalla polizia giudiziaria e nelle dichiarazioni di alcuni testimoni. Escludeva, invece, l’esistenza di riscontri individualizzanti, idonei cioè a confermare l’attendibilità del dichiarante in ordine al concorso dello S. negli illeciti. Precisava, quanto al duplice omicidio, che altri due collaboratori tali R. e P., avevano riferito de relato sulla vicenda, ma nessun cenno avevano fatto circa il coinvolgimento nella stessa dello S., né dall’esame dei tabulati relativi alle utenze telefoniche mobili intestate all’indagato e a suo fratello G. erano state rilevate chiamate nella fascia oraria del giorno in cui era stato consumato il duplice omicidio (per informare - secondo la versione del collaborante – gli esecutori del delitto sui movimenti delle due vittime), con l’effetto che la chiamata in correità rimaneva isolata, priva del necessario riscontro individualizzante e, quindi, non idonea ad integrare la gravità indizi aria richiesta per legittimare l’adozione della misura cautelare; quanto alle rapine “N.-Banca …….” e “Z.-P.”, la situazione non era diversa, considerato che il collaborante L., concorrente in tali illeciti insieme al D.E. e a tali O. e T., pur dichiarato si in grado di riconoscere la quinta persona che vi aveva partecipato, della quale aveva presente i tratti somatici, aveva risposto negativamente alla ricognizione fotografica dello S.; quanto alle rapine in danno del M. e del C., nessun collaborante aveva indicato lo S. come concorrente, sicché il suo inserimento tra gli autori di questi ultimi illeciti era stato frutto di una svista.

2. Ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica di Lecce, con riferimento alle sole imputazioni di omicidio e di rapine commesse il 28 aprile 2000, e ha dedotto:

a) mancanza di motivazione in ordine all’apprezzamento e alla valutazione di alcuni dati di fatto che riscontrerebbero la chiamata in correità: turni di servizio di D.M. E. (madre dello S.), ausiliaria presso l’ospedale di C., ove C. T. si sottoponeva ad una terapia riabilitativa e da dove effettivamente il giorno 18 maggio 2000, poco prima di rimanere vittima del mortale agguato, era uscito dopo avere partecipato all’ultima seduta fisioterapica; ingiustificata assenza dello S. dal posto di lavoro presso il ca1zaturificio “F.” di C. nei giorni 28 aprile e 18 maggio 2000, date di consumazione rispettivamente delle rapine e del duplice omicidio; accertamenti positivi in relazione all’intestazione a nome della D.M. di una autovettura “Renault Clio”, che, secondo il collaborante, sarebbe stata utilizzata dallo S. per raggiungere la zona dell’ospedale e controllare i movimenti del T.;

b) violazione di legge quanto alla valutazione dei cosiddetti riscontri esterni, ai quali andava attribuita la sola funzione di conferma dell’ attendibilità intrinseca del chiamante in correità, non essendo richiesta la loro diretta riferibilità al thema probandum, né tanto meno la consistenza di autonoma prova di colpevolezza.

3. La difesa dell’indagato ha depositato memoria, con la quale ha chiesto l’inammissibilità del ricorso e, in subordine, il rigetto, evidenziando che, a seguito della legge 63/2001, la chiamata in correità deve essere, anche ai fini cautelari, corroborata da riscontri esterni di carattere necessariamente individualizzante.

4. La prima Sezione penale di questa Corte, con ordinanza 21 dicembre 2005, rilevato il contrasto giurisprudenziale in ordine alla interpretazione dell’articolo 273 c.p.p., così come novellato dall’articolo 11 della legge 63/2001, ha rimesso la decisione del ricorso a queste Sezioni Unite.

Il primo presidente ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite fissando per la trattazione l’odierna udienza in camera di consiglio.

DIRITTO


1. La questione portata all’attenzione delle Sezioni Unite può essere casi sintetizzata: «se a fini della gravità indiziaria richiesta dall’articolo 273, commi 1 e 1bis c.p.p. la chiamata in correità ritenuta intrinsecamente attendibile debba essere confermata da riscontri individualizzanti».

Il problema, in sostanza, è di stabilire il grado di conferma che la chiamata in correità o in reità deve ricevere per giustificare l’adozione della misura cautelare cosiddetti riscontri esterni, se cioè questi debbano riguardare soltanto il fatto nella sua oggettività o anche la riferibilità soggettiva di esso.

2. Il tema, sia pure in un diverso contesto normativo, venne affrontato e risolto dalle Sezioni Unite, con la sentenza 21 aprile 1995 (ric. Costantino), a superamento di un contrasto insorto nella giurisprudenza della Sc in ordine ai criteri di valutazione della chiamata in correità, quale grave indizio di colpevolezza ai fini cautelati.

Tale pronuncia, inquadrata la questione nel più generale problema della operatività o meno, in sede cautelare, delle regole generali in tema di valutazione della prova (articolo 192 c.p.p., in particolare commi 3 e 4), ne esclude, sulla base di una interpretazione eminentemente letterale, l’applicabilità e individua nell’articolo 273 c.p.p. la norma di riferimento esclusiva per la valutazione della chiamata di correo ai fini dell’adozione della misura cautelare, con l’effetto che “la rilevanza della chiamata in correità o in reità...deve essere apprezzata alla stregua dell’articolo 273, che impone la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza” .

Riassuntivamente, la sentenza “Costantino” afferma il principio che le dichiarazioni accusatorie del coindagato o dell’indagato di reato connesso o interprobatoriamente collegato, in quanto fonte di dubbia affidabilità per la provenienza da soggetto non del tutto disinteressato, devono essere comunque sottoposte -anche in ambito cautelare – ad un vaglio critico particolarmente rigoroso, nel senso che alla verifica dell’ attendibilità intrinseca (per precisione, coerenza, spontaneità, disinteresse) deve fare seguito quella dell’attendibilità estrinseca, mediante l’individuazione degli opportuni riscontri, che, per costituire la risposta necessaria alla peculiarità della fonte, non necessariamente devono riguardare - a differenza di quanto accade nel giudizio di cognizione- in modo specifico la posizione soggettiva del chiamato. Nel presupposto della inoperatività, nel procedimento incidentale cautelare, della regola di valutazione probatoria stabilita dall’articolo 192 commi 3 e 4 c.p.p. e della sola applicabilità – invece - dell’articolo 273 c.p.p., la sentenza esclude il necessario carattere “individualizzante” dei riscontri esterni alle propalazioni accusatorie del chiamante, ritenendo sufficiente la conferma delle sole “modalità obiettive del fatto descritte dal chiamante” e distinguendo così la valenza di una chiamata idonea a legittimare l’adozione di un provvedimento cautelare da quella idonea a fondare l’affermazione di colpevolezza.

3. Tale tesi, avallata anche dal Giudice delle leggi con ordinanza 314/96, che dichiarò la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articolo 192 comma 3 e 273 c.p.p. così come interpretati dal massimo Consesso di questa Sc, non pose termine alle tensioni applicative nella prassi giurisprudenziale sia di merito che di legittimità e suscitò non poche riserve da parte della dottrina che, fuoriuscendo dagli schemi di un astratto dogmatismo, propendeva, in larga maggioranza, per la tendenziale applicabilità delle disposizioni del libro III del codice di rito (sulle prove) all’intero arco del procedimento, a condizione di una previa verifica circa l’inesistenza di profili incompatibili tra le linee generali espresse dagli articolo 187 e ss. c.p.p. e la disciplina specifica di volta in volta in gioco.

4. Il quadro normativo di riferimento dettato dall’articolo 273 comma 1 c.p.p. in tema di “gravi indizi di colpevolezza”, quale condizione generale di applicabilità di una misura cautelare personale. è stato, però, significativamente modificato dall’articolo 11 della legge 63/2001 sul giusto processo, attuativa della riforma dell’articolo 111 della Costituzione, che ha inserito nell’articolo 273 c.p.p. il comma 1bis che testualmente recita: «Nella valutazione dei gravi indizi di colpevolezza si applicano le disposizioni degli articolo 192, commi 3 e 4, 195, comma 7, 203 e 271, comma 1».

Peraltro, pur dopo la novella legislativa, i contrasti nella giurisprudenza di legittimità - in ordine alla necessità o meno di riscontri individualizzanti alla chiamata di correo nella sfera cautelare - non sono mancati e si sono delineati tre indirizzi.

4a- Secondo un primo orientamento, la chiamata in correità, anche dopo l’innesto del comma 1bis nell’articolo 273 c.p.p., non necessita, nella fase cautelare, di riscontri individualizzanti, ma semplicemente di riscontri esterni che confermino l’ attendibilità del chiamante; diversamente opinando, si ha un automatico allineamento delle nozioni di indizio grave e di prova e, quindi, una equiparazione probatoria dei due dati, che, invece, devono rimanere ontologicamente distinti, essendo il primo funzionale a dimostrare la fondatezza - allo stato degli atti- dell’accusa provvisoria e dovendo il secondo, che si forma a dibattimento, essere posto a supporto del definitivo giudizio di colpevolezza. La novella legislativa non ha avuto altro effetto se non quello di superare le affermazioni giurisprudenziali di inapplicabilità delle disposizioni del codice di rito in tema di prove alla fase delle indagini preliminari e alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza ai fini cautelari e non impone “certamente che i riscontri debbano avere il carattere necessario del riferimento specifico alla posizione del soggetto chiamato”, essendo sufficiente che il contenuto e la portata delle dichiarazioni rese dai soggetti di cui all’articolo 210 c.p.p. siano valutati “unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”, il che significa che i parametri di valutazione sono ispirati alla cosiddetta “libertà del riscontro” (cfr. Cassazione, Sezione prima, 27 febbraio 2001, Bidognetti; Sezione quinta, 18 aprile 2002, Battaglia; Sezione prima, 24/4/2003, Esposito; Sezione quinta 21/1/2003, Fonnigli; Sezione quinta 11/5/2004, Zini).

4b- Secondo altro indirizzo, la chiamata di correo, per integrare i gravi indizi di colpevolezza di cui all’articolo 273 comma 1 c.p.p., oltre che essere connotata da intrinseca credibili necessita di riscontri esterni parzialmente individualizzanti, che consentono cioè di collocare la condotta del chiamato nello specifico fatto oggetto dell’imputazione provvisoriamente elevata; il comma 1bis dell’articolo 273 c.p.p., por orientato in apparenza ad una omologazione tra riscontri richiesti per l’adozione della misura cautelare personale e quelli richiesti per il giudizio di colpevolezza, “in realtà non perde di vista il concetto del riscontro definito nell’ambito puramente indiziario in cui esso assume valore designante”, con l’effetto che al medesimo deve richiedersi una mera “vocazione individualizzante”, la quale, peraltro, può atteggiarsi in maniera più o meno elastica in rapporto al grado di attendibilità intrinseca del dichiarante e del suo narrato, nonché alla maggiore o minore precisione delle propalazioni (cfr. Cassazione, Sezione sesta, 217/01, Tramonte; 2/10/2001, Calabretta; 7/10/2001 Pollari; Sezione seconda 26/6/2002, Berretta; Sezione feriale 21/8/2002, Musitano; Sezione sesta, 4/6/2003, Grasso; Sezione prima 31/3/2003, Ribisi; Sezione quarta 14/1/2004, Vatinno; Sezione sesta, 7/10/2004, Fanara; 17/2/2005, Raia; Sezione quarta, 28/10/2005, De Pieri; Sezione seconda, 16/1/2005, Di Salvo, Sarcina, Tatò, Castellano; Sezione quinta, 24/9/2004, Mignacca).

4c- Un terzo orientamento sostiene che l’esplicito richiamo fatto dall’articolo 273 comma 1bis “alla regola forte di valutazione probatoria stabilita dall’articolo 192 commi 3 e 4” comporta che i riscontri estrinseci alla chiamata in correità devono essere compatibili con la stessa, si da consentire “un collegamento diretto ed univoco, sul piano logico-storico, con i fatti per cui si procede mediante connotati individualizzanti”; solo la individualizzazione del riscontro _’è in grado di fondare la persuasività probatoria della chiamata in correità e la razionalità della decisione cautelare che è destinata a reggere la forza d’urto del contraddittorio dibattimentale” (cfr. Cassazione, Sezione prima 14/11/2001, Caliò; 7/2/2002, Schiamone; Sezione feriale, 28/8/2002, Desogus; Sezione sesta, 20/6/2001, Caterino; 3/12/2004, Pm Sapia; Sezione prima 21/11/2005, Cavalcanti; Sezione quarta 2/12/2005, Baldassi; Sezione prima 13/1212005, Pm Sinesi; 4/5/2005, Lo Cricchio).

5- La Corte condivide quest’ultimo orientamento, con le puntualizzazioni di cui al seguito.

Il giusto processo cautelare è l’epilogo di un cammino che, attraverso varie tappe segnate da interventi del legislatore, di questa Sc e del Giudice delle leggi, ha visto progressivamente sfumare le tradizionali differenze evidenziate tra decisione cautelare e giudizio di merito, con riferimento alla valutazione degli elementi conoscitivi posti a disposizione del giudice, e ricercare una tendenziale omologazione dei corrispondenti parametri-guida.

Già con la legge 332/95, si accentuava, in linea con i precetti costituzionali di cui agli articolo 13 e 27, il carattere eccezionale dei provvedimenti limitativi della libertà personale disposti prima della condanna e si imponeva al giudice una maggiore incisività argomentativa ne1 giustificare la misura, facendogli obbligo di indicare gli elementi di fatto da cui sono desunti gli indizi, i motivi per i quali essi assumono rilevanza, quelli per i quali si rivelano inconsistenti gli elementi forniti dalla difesa (articolo 292 comma 2 lettere c) e cbis) c.p.p.), nonché di valutare negativamente l’esistenza di condizioni legittimanti il proscioglimento ex articolo 273 comma 2 c.p.p. (cause di giustificazione, di non punibilità, di estinzione del reato o del1a pena) o la possibilità di ottenere con la eventuale sentenza di condanna il beneficio della sospensione condizionale della pena (articolo 275 comma 2bis c.p.p.).

La Corte costituzionale, con la sentenza 71/1996, sottolineava che “il decreto che dispone il giudizio non potrà ritenersi in alcun modo assorbente rispetto alla valutazione dei gravi indizi di colpevolezza che sostengono l’adozione e il mantenimento delle misure cautelari personali, sicché precluderne l’esame nelle impugnazioni de libertate equivale ad introdurre ne1 sistema un limite che si appalesa irragionevolmente discriminatorio e al tempo stesso gravemente lesivo del diritto di difesa, per di più proiettato nella specie verso la salvaguardia di un bene di primario risalto qual è quello della libertà personale”.

Tali principi. che esaltano la natura contenutistica della valutazione de libertate. trovano più chiara esplicitazione nella sentenza 131/96 della stessa Consulta, che, in continuità con quella 432/95 affermava che «...le valutazioni compiute dal giudice in relazione all’adozione di una misura cautelare personale comportano un pregiudizio sul merito dell’accusa: tali valutazioni, infatti, secondo le norme vigenti, devono indurre il giudice a ritenere resistenza di una ragionevole e consistente probabilità di colpevolezza e quindi di condanna dell’imputato e addirittura di condanna ad una pena superiore a quella che consente la concessione della sospensione condizionale della pena . .»; ed ancora, il giudizio prognostico è tanto lontano.. .”da una sommaria delibazione e tanto prossimo ad un giudizio di colpevolezza, sia pure presuntivo, poiché condotto allo stato degli atti e non su prove ma su indizi”.

Né va sottaciuto, sia pure con riferimento al diverso fenomeno della inutilizzabilità di prove illegittimamente acquisite (articolo 191 c.p.p.), l’indirizzo ermeneutico e rigorosamente garantista di questa Sc, che, ben prima dell’intervento del legislatore del 2001, aveva statuito che deve trovare applicazione anche nel procedimento cautelare la sanzione della inutilizzabilità degli esiti delle intercettazioni, se eseguite fuori dei casi consentiti dalla legge o senza l’osservanza delle prescrizioni stabilite dagli articolo 267 e 268 commi 1 e 3 c.p.p., considerata la diretta incidenza sull’elemento dimostrativo, indiziario o probatorio, comunque acquisito in maniera illegale (cfr. Cassazione Sezioni Unite 27/3/1996, Monteleone; 20/11/1996, Glicora).

Particolare interesse, poi, riveste la sentenza 30/10/2002 (ric. Vottari) delle Sezioni Unite che, nell’affrontare - dopo la riforma del 2001 - il rapporto intercorrente tra decreto di rinvio a giudizio e riesame della misura cautelare personale, sottolineava che la decisione cautelare deve essere ispirata ad «un approfondito ed incisivo apprezzamento probabilistico di segno positivo in ordine alla colpevolezza, ancorché condotto allo stato degli atti e basato non su prove ma su indizi, tale da superare la tradizionale divaricazione tra le sommarie delibazioni di tipo indiziario, rilevanti in sede di cautele, e il giudizio sul merito dell’accusa, riservato alla sede dibattimentale».

I principi che, in una prospettiva rigorosamente aderente al dettato costituzionale, sono alla base dell’intervento legislativo del 1995 e delle citate decisioni si armonizzano e si saldano compiutamente con la ratio sottesa alla legge 63/2001, la quale è essenzialmente diretta ad assicurare, nel superamento di incertezze interpretative legittimate dal tenore letterale della pregressa normativa, una tendenziale anticipazione alla fase delle indagini, terreno elettivo - nella più parte dei casi - delle decisioni de libertate, delle regole in tema di valutazione e di utilizzazione della prova, proprie del giudizio di cognizione, anche per quanto concerne l’apprezzamento dei gravi indizi di colpevolezza idonei a legittimare, ex articolo 273 c.p.p., le misure cautelari personali.

Nella fase delle indagini preliminari, invero, convivono due distinte categorie di attività, quella diretta alla ricerca e alla raccolta delle conoscenze necessarie per verificare la fondatezza della notitia criminis e quella che sfocia in provvedimenti che comprimono diritti di rilievo costituzionale, qual è quello della libertà.

Nell’ambito di quest’ultima attività, renne restando la netta distinzione tra gli indizi cautelari e la prova ai fini del giudizio e, quindi, la diversità di prospettiva in cui gli uni e l’altra si muovono, v’è una chiara “spinta all’omologazione” dei parametri di valutazione e di utilizzabilità del materiale conoscitivo oggetto delle decisioni del giudice della cautela e di quello del merito.

6. L’attuale modello normativo (articolo 273 comma 1 c.p.p.) richiede, come condizione generale di applicabilità di una misura cautelare personale, la sussistenza di “gravi indizi di colpevolezza” a carico della persona destinataria del provvedimento, con ciò segnando una netta presa di distanza dalla disciplina dettata dall’articolo 252 c.p.p. 1930, che richiedeva “sufficienti indizi di colpevolezza” (prima della modifica con legge 330/88).

La pregnante valutazione prevista circa l’elevata valenza indiziante degli elementi a carico dell’ accusato, che devono trovare la loro sintesi in un giudizio probabilistico di segno positivo in ordine alla colpevolezza, mira ad offrire maggiori garanzie per la libertà personale e a sottolineare l’eccezionalità delle misure restrittive della medesima.

L’articolo 292 c.p.p., come modificato dalla legge 332/95 delineando per l’ordinanza cautelare uno schema di motivazione assimilabile a quello prescritto per la sentenza di merito dall’articolo 546 lettera c) c.p.p., impone, infatti, al giudice della libertà sia di giustificare l’esito positivo della valutazione compiuta sugli elementi a carico, sia di esporre le ragioni per le quali ritiene non rilevanti i dati conoscitivi forniti dalla difesa e comunque a favore dell’accusato (lettera c) e cbis) del comma 2), adempimenti questi che esaltano l’aspetto contenutistico del giudizio al quale è chiamato il giudice della cautela.

Certo, non deve essere disconosciuta la differenza tra il giudizio preordinato alla pronuncia di condanna, che presuppone l’acquisizione della certezza processuale in ordine alla colpevolezza dell’imputato e la delibazione funzionale all’esercizio del potere cautelare, che implica un giudizio prognostico in termini di ragionevole e alta probabilità di colpevolezza.

Diverso è senz’altro nei due accertamenti il grado dì conferma dell’ipotesi accusatoria.

In quello posto a base della decisione definitiva sulla regiudicanda, la conclusione è sorretta da un quadro probatorio completo e non suscettibile di ulteriori aggiornamenti o variazioni, con l’effetto che ogni margine d’incertezza resta superato.

Nell’accertamento incidentale de libertate, invece, il convincimento giudiziale è esposto al flusso continuo di conoscenze potenzialmente idonee a smentirlo, a prescindere dalla scansione in fasi e gradi del processo “principale”. In quest’ultimo caso, la conclusione inferenziale della relativa delibazione è assunta sulla base di dati conoscitivi ancora suscettibili di accrescersi ed evolversi con l’apporto di ulteriori informazioni che stimolano la continua verifica della capacità dell’ipotesi accusatoria di resistere a interpretazioni alternative. Di tanto la decisione cautelare, nel momento in cui viene adottata, non può non tenere conto, nell’apprezzare la forza induttiva del materiale indiziario, sino a quello stesso momento acquisito, rispetto al fatto-reato considerato e al suo collegamento, secondo il criterio sostanziale di elevata probabilità di colpevolezza, con chi ne appare l’autore.

Il quadro di gravità indiziaria ai fini cautelari, concetto differente da quello enunciato nell’articolo 192 comma 2 c.p.p., che allude alla cosiddetta prova logica o critica, ha, sotto il profilo gnoseologico, una propria autonomia, non rappresenta altro che l’insieme degli elementi conoscitivi, sia di natura rappresentativa che logica, la cui valenza è strumentale alla decisione de liberiate, rimane delimitato dai confini di questa e non si proietta necessariamente nel diverso e futuro contesto dibattimentale relativo al definitivo giudizio di merito. In sostanza, la qualifica di gravità che deve caratterizzare gli indizi di colpevolezza attiene al quantum di “prova” idoneo ad integrare la condizione minima per l’esercizio, sulla base di un giudizio prognostico di responsabilità, del potere cautelare, non può che riferirsi al grado di conferma, allo stato degli atti, dell’ipotesi accusatoria, e ciò a prescindere dagli effetti, non ancora apprezzabili, eventualmente connessi alla dinamica della prova nella successiva evoluzione processuale.

7. Problema diverso è quello delle regole da seguire, in sede di apprezzamento della gravità indiziaria ex articolo 273 c.p.p., per la valutazione dei dati conoscitivi e, in particolare, della chiamata di correo.

L’intentio legis della novella del 2001, nella prospettiva di selezionare con maggiore rigore i casi legittimanti l’esercizio del potere coercitivo, è esplicita e chiara, mira a superare il compromesso interpretativo cui era pervenuta la sentenza “Costantino” delle Sezioni Unite, giustificato in qualche maniera dalla formulazione delle disposizioni di cui ai commi 3 e 4 dell’articolo 192 c.p.p. e dal mancato richiamo - a quell’epoca- delle stesse nella norma di cui all’articolo 273 c.p.p., e ridisegna a livello ordinamentale i confini del libero convincimento del giudice cautelare nel valutare, ai fini dell’adozione del provvedimento restrittivo della libertà, la chiamata di correo quale grave indizio di colpevolezza, nel senso che tale elemento conoscitivo, oltre che essere apprezzato nella sua attendibilità intrinseca, deve essere supportato da riscontri esterni individualizzanti in grado di dimostrarne la compatibilità col thema decidendum proprio della pronuncia de libertate e di giustificare, quindi, la razionalità della medesima. D’altra parte, l’esigenza della corroboration che inerisca non solo alle modalità oggettive del fatto descritto dal chiamante ma che sia anche soggettivamente indirizzata è imprescindibile nell’ambito di una valutazione che è strumentale all’adozione di un provvedimento, quale quel1o restrittivo della libertà, dagli effetti rigorosamente ad personam.

Il tenore dell’articolo 273 c.p.p., nel testo vigente, non configura un autonomo criterio valutativo da contrapporre a quello indicato nell’articolo 192, commi 3 e 4, c.p.p. e i contrari e restrittivi orientamenti giurisprudenziali sul punto, se plausibili in base alla lettera della vecchia formulazione dell’articolo 273, non lo sono attualmente, avendo trovato risposta dirimente proprio nella intervenuta modifica, che non legittima più alcun dubbio sull’applicabilità, anche ai fini cautelari, della suindicata regola di valutazione della chiamata di correo, che deve essere sorretta da riscontri individualizzanti perché la prognosi di colpevolezza non può che essere subiettivizzata, non essendo consentite inferenze totalizzanti.

Il “momento cautelare”, per sintonizzarsi con i principi costituzionali della inviolabilità della libertà personale (articolo 13 Costituzione) e della presunzione di non colpevolezza sino a sentenza definitiva (articolo 27 comma 2 Costituzione), necessita di tali meccanismi di garanzia, i soli idonei ad offrire una base razionale alla prognosi di colpevolezza ante iudicatum.

Considerato che il comma 1bis dell’articolo 273 c.p.p. pone un espresso limite legale alla valutazione dei “gravi indizi” e, con specifico riferimento alla chiamata di correo, postula che soltanto la individualizzazione del riscontro attribuisce capacità dimostrativa e persuasività probatoria alla medesima chiamata, va contrastata la tesi sostenuta dal primo degli indirizzi ermeneutici innanzi citati, perché la stessa insiste sostanzialmente nell’ attribuire alla norma in esame una funzione di contenimento degli effetti connessi all’applicazione della detta regola e finisce col devitalizzare la portata innovativa della riforma del 2001, che ha avuto proprio l’intento di superare quelle posizioni giurisprudenziali tralaticiamente stabilizzate sugli approdi della sentenza “Costantino” delle Sezioni Unite.

Non può condividersi neppure la posizione interpretativa, per così dire intermedia, secondo cui la chiamata di correo necessiterebbe di riscontri solo “parzialmente individualizzanti”, espressione questa equivoca e inabile a fare chiarezza. Anche tale indirizzo muove dalla fuorviante premessa della distinzione tra prova e indizio cautelare fondata sulla differente capacità dimostrativa e continua a contrapporre la portata dell’articolo 273 comma 1bis a quella dell’articolo 192, senza peraltro chiarire quali sarebbero i dati normativi che legittimerebbero, ai fini cautelari, l’attenuazione del riscontro esterno alla detta chiamata, posto che difetta una qualunque indicazione in tale senso nella prima disposizione.

Né può essere sottaciuto, infine, che il novellato articolo 273 c.p.p. richiama anche le disposizioni di cui agli articolo 195 comma 7, 203 e 271 comma 1 c.p.p., le quali, in verità, attengono, più che alle regole valutative della prova cautelare, al fenomeno dell’inutilizzabilità del materiale investigativo acquisito in violazione di specifici divieti stabiliti dalla legge. Si accentua casi il tendenziale accostamento dei criteri di valutazione e di utilizzabilità probatoria nelle varie fasi del procedimento, e da esso scaturiscono ferree regole di esclusione del valore indiziario, ai fini cautelari, di determinati dati, quali la deposizione de relato, senza previa indicazione della fonte, la testimonianza indiretta di un agente o ufficiale di Pg, che tace il nome dell’informatore, le intercettazioni inutilizzabili.

8. Alla luce di tutte le argomentazioni innanzi svolte e in applicazione del disposto di cui all’articolo 173 comma 3 norme di attuazione c.p.p., va affermato il seguente principio: ai fini dell’adozione di misure cautelari persona/i, le dichiarazioni rese dal coindagato o coimputato del medesimo reato o da persona indagata o imputata in un procedimento connesso o collegato possono costituire grave indizio di colpevolezza, ex articolo 273 comma 1-1bis c.p.p., soltanto se, oltre ad essere intrinsecamente attendibili, siano sorrette da riscontri esterni individualizzanti. sì da assumere idoneità dimostrativa in relazione all’attribuzione del fatto-reato al soggetto destinatario della misura, firmo restando che la relativa valutazione. avvenendo nel contesto incidentale del procedimento “de libertate” e, quindi, allo stato degli atti, cioè sulla base di materiale conoscitivo ancora “in itinere “, deve essere orientata ad acquisire non la certezza, ma la elevata probabilità di colpevolezza del chiamato.

9. Procedendo, quindi, alla concreta verifica di legittimità della pronuncia del Tribunale del riesame, osserva la Corte che la medesima, pur dando correttamente atto che la chiamata di correo, anche per le finalità di cui all’articolo 273 c.p.p., deve essere sorretta da riscontri esterni individualizzanti, evidenzia tuttavia, come rilevato dal Pm ricorrente, una assoluta mancanza di motivazione in ordine alla valenza da attribuire ad una serie di circostanze di fatto aventi -almeno in apparenza- tale connotazione individualizzante e puntualmente indicate nell’ordinanza impositiva della misura, ma ignorate in sede di riesame.

Ed invero, l’ordinanza impugnata, dopo avere ritenuto le dichiarazioni del collaborante V.D. intrinsecamente attendibili e riscontrate da elementi esterni in ordine alle modalità oggettive dei fatti denunciati, esclude la sussistenza di riscontri idonei a collegare tali fatti all’indagato; a questa conclusione l’ordinanza perviene considerando che altri collaboranti (Rizzo, Pantaleo, Laneve) nulla avevano riferito sulla partecipazione del predetto agli illeciti e, con riferimento specifico al duplice omicidio, che il controllo dei tabulati telefonici non aveva evidenziato alcuna chiamata, nell’imminenza dell’azione delittuosa, dall’utenza mobile in dotazione dell’indagato, il cui ruolo sarebbe stato quello di informare gli esecutori materiali del delitto sui movimenti delle vittime.

Il giudice del riesame omette, però, di portare la propria attenzione sulla valenza indiziante di alcuni dati, che sembrano avere una indubbia connotazione individualizzante e che, pur privi di m’autonoma forza probatoria, appaiono confermare ab extrinseco l’attendibilità del chiamante in correità anche in relazione al coinvolgimento dello Spennato nei fatti-reato di cui si discute: a) costui avrebbe fornito informazioni al Di Emidio sui movimenti della vittima, Torna Cosimo, che seguiva un ciclo di fisioterapia presso l’ospedale di Casarano, dove lavorava come infermiera ausiliaria la madre dello Spennato, persona in grado di attingere e passare notizie sulla presenza del predetto Torna e di suo figlio in ospedale in determinati giorni e a determinate ore; b) il giorno del duplice omicidio, lo Spennato si sarebbe portato nei pressi del nosocomio a bordo di una “Renault Clio”, autovettura effettivamente nella disponibilità della madre e, dopo avere visto Torna Cosimo e il figlio Fabrizio uscire dal detto luogo, avrebbe avvertito telefonicamente gli autori materiali del delitto, che erano appostati nella zona dell’agguato; c) lo Spennato si era assentato dal posto di lavoro (calzaturificio “F” di Casarano) senza alcuna giustificazione sia il giorno del duplice omicidio (18/5/2000) che quello in cui vennero consumate le rapine in danno di Negro, Banca del Salento, Zecca e Piccinni (28/4/2000).

Questi elementi vanno apprezzati e valutati nell’ambito del complessivo quadro indiziario acquisito agli atti.

È il caso di puntualizzare che l’elemento di riscontro individualizzante deve confermare non necessariamente in via diretta la condotta illecita ascritta all’accusato, ma le dichiarazioni del propalante e quindi la loro attendibilità, nella parte di riferimento. Né va sottaciuto che, ai fini cautelari, il dato esterno di riscontro, pur dovendo attingere la persona del chiamato, può essere meno consistente di quello richiesto per il giudizio di merito, proprio perché, come si è precisato innanzi, diversa è la prospettiva in cui si muovono le due decisioni e diversi sono gli obiettivi rispettivamente perseguiti.

L’ordinanza impugnata, nella parte attinta dai motivi di ricorso, va pertanto annullata con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Lecce, che, in coerenza col principio di diritto innanzi precisato, dovrà, in piena libertà di giudizio ma con motivazione completa ed immune da vizi logici, riconsiderare la vicenda cautelare di Luigi Spennato.

È il caso di precisare che la soluzione adottata in ordine alla posizione di D.E., madre dello Spennato, anch’ella indagata per concorso nell’omicidio dei due T. sentenza 13 dicembre 2005 della prima Sezione penale di questa Corte), non può spiegare alcuna influenza sul caso in esame, avuto riguardo alle ragioni di natura strettamente personale poste a base dell’annullamento della misura custodiate emessa nei confronti della predetta.

Venerdì, 10 Novembre 2006

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