L’art. 10, comma 3, della c.d. legge ex Cirielli (Legge
251/2005 "Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354,
in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione
delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione")
è costituzionalmente illegittima limitatamente alle parole «dei processi
già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del
dibattimento, nonché».
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, con la
sentenza n. 393 del 23 novembre 2006, precisando che il principio di favor rei
di dui all’art. 2, quarto comma, del codice penale – secondo cui «se la legge
del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica
quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata
pronunciata sentenza irrevocabile» si applica a tutte le norme che apportino
modifiche in melius alla disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese
quelle che incidono sulla prescrizione del reato.
Da
Altalex
SENTENZA
N. 393
ANNO 2006
REPUBBLICA
ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta
dai signori:
- Franco BILE Presidente
- Giovanni Maria FLICK Giudice
- Francesco AMIRANTE ”
- Ugo DE SIERVO ”
- Romano VACCARELLA ”
- Paolo MADDALENA ”
- Alfio FINOCCHIARO ”
- Alfonso QUARANTA ”
- Franco GALLO ”
- Luigi MAZZELLA ”
- Gaetano SILVESTRI ”
- Sabino CASSESE ”
- Maria Rita SAULLE ”
- Giuseppe TESAURO ”
- Paolo Maria NAPOLITANO ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale
dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n.
251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in
materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso con
ordinanza del 23 dicembre 2005 dal Tribunale di Bari, nel procedimento penale a
carico di R. M., iscritta al n. 61 del registro ordinanze 2006 e pubblicata
nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale,
dell’anno 2006.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio dell’11 ottobre 2006 il Giudice relatore
Giovanni Maria Flick, sostituito per la redazione della sentenza dal Giudice Alfonso
Quaranta.
Ritenuto
in fatto
1.— Con ordinanza del 23 dicembre 2005, il
Tribunale di Bari ha sollevato, in relazione all’art. 3 della Costituzione,
questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5
dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975,
n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di
comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di
prescrizione), «nella parte in cui subordina l’applicazione delle norme
contenute nell’art. 6 della medesima legge ai soli procedimenti penali in cui
non sia stata dichiarata l’apertura del dibattimento».
Premette il rimettente che, nel corso di un giudizio a carico di persona
imputata del reato di millantato credito di cui all’art. 346, secondo comma,
del codice penale, il difensore dell’imputato aveva eccepito l’illegittimità
costituzionale del predetto art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005,
nella parte in cui subordina l’applicazione delle norme ivi contenute (ed, in
particolare, l’art. 6, con cui è stato modificato il disposto degli artt. 157 e
160 cod. pen., relativi alla prescrizione del reato) alla condizione della
mancata apertura del dibattimento nei procedimenti penali pendenti alla data di
entrata in vigore della medesima legge; che la difesa aveva evidenziato tanto
la rilevanza della questione – considerato che l’applicazione della nuova
disciplina avrebbe comportato l’immediata declaratoria di prescrizione del
reato ascritto all’imputato – quanto la non manifesta infondatezza della
stessa.
Il giudice a quo reputa la questione proposta rilevante ai fini della decisione
e non manifestamente infondata. Quanto al profilo della rilevanza, egli
condivide l’assunto difensivo secondo cui, in caso di applicazione della nuova
disciplina alla vicenda processuale al suo esame, deriverebbe la pronuncia di
una sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato per intervenuta
prescrizione, pronuncia «che, invece, alla stregua della disciplina originaria
dell’art. 157 cod. pen., l’imputato non potrebbe invocare».
In ordine alla non manifesta infondatezza, il Tribunale rimettente rileva che
la scelta del legislatore di rendere applicabile la disciplina della legge n.
251 del 2005 ai procedimenti pendenti, in base al criterio relativo
all’avvenuta apertura del dibattimento, «non appare sorretta da giustificazioni
di ordine logico», né appare ispirata a finalità tali da giustificare il
diverso trattamento così riservato a diverse categorie di cittadini. A parere
del giudice a quo, invero, la modifica apportata al regime della prescrizione
dei reati «rappresenta un mutamento del fatto tipico, esprimendo una differente
valutazione del legislatore in ordine al disvalore del reato». In tal senso
deporrebbe non soltanto la contrazione dei termini di prescrizione per ampie
categorie di reato, ma anche l’allungamento dei termini medesimi per altre
specifiche ipotesi di reato, ritenute particolarmente allarmanti, nonché,
soprattutto, il tenore inequivoco dei lavori parlamentari; e, d’altra parte –
prosegue il rimettente – anche la giurisprudenza di legittimità, secondo
costanti tali da assurgere a diritto vivente, ha sempre ravvisato nella
disciplina della prescrizione dei reati «un elemento del fatto tipico, da valutare
nell’ipotesi di successione di leggi penali». Pertanto – argomenta ancora il
rimettente – la scelta del legislatore di escludere la norma di cui all’art. 6
della legge n. 251 del 2005 dal campo di applicazione del principio della
retroattività della disposizione più favorevole al reo «risulta in contrasto
con il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge» ed, in ogni
caso, «irragionevole», in quanto condiziona l’applicabilità della nuova
disciplina al verificarsi di un evento processuale (la dichiarazione di
apertura del dibattimento) «assolutamente privo di significato, sotto il
profilo della ragionevolezza, nel fissare un diverso trattamento dei cittadini
soggetti a procedimento penale», atteso che non risultano perseguite, con tale
scelta legislativa, ulteriori finalità, quali quelle di riduzione dei tempi
processuali o di deflazione dei carichi degli uffici giudiziari.
Pertanto – conclude il giudice a quo – pur non potendosi denunciare, come
invece dedotto dalla difesa, il contrasto della disciplina censurata con l’art.
25, secondo comma, della Costituzione – «non risultando costituzionalizzato il
principio della retroattività della legge penale più favorevole per il reo» –
la deroga a tale principio, pure consentita al legislatore ordinario, «non
risulta sorretta da una sufficiente ragione giustificativa».
2.— Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata.
La difesa erariale sostiene che il quesito sottoposto all’esame della Corte,
non prospettando alcuna soluzione costituzionalmente “obbligata” (ed, anzi,
ammettendo una serie di possibilità nell’individuazione di una diversa fase
processuale quale discrimine temporale per l’applicabilità della nuova
disciplina in tema di prescrizione), risulta per ciò stesso inammissibile. In
ogni caso – conclude l’Avvocatura generale dello Stato – la questione si palesa
infondata, posto che, per un verso, il principio della retroattività della
norma più favorevole al reo «non risponde ad un precetto costituzionale» e che,
per altro verso, la scelta del legislatore pare comunque ispirata alla
ragionevolezza nell’individuazione dell’apertura del dibattimento – vale a
dire, il segmento del processo «legato all’inizio del momento del pieno
contraddittorio», ovvero idoneo ad assicurare il rispetto del principio di «non
dispersione della prova» – quale momento rilevante per l’applicazione delle nuove
disposizioni.
Considerato
in diritto
1.— La questione di legittimità costituzionale
sollevata dal Tribunale di Bari investe, con riferimento all’art. 3 della
Costituzione, l’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n.
251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in
materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), «nella parte
in cui subordina l’applicazione delle norme contenute nell’art. 6 della
medesima legge ai soli procedimenti penali in cui non sia stata dichiarata
l’apertura del dibattimento».
Il giudice rimettente ritiene che la scelta del legislatore di limitare
l’applicazione delle nuove norme solo ad alcuni dei procedimenti pendenti, in
base al criterio relativo all’avvenuta apertura del dibattimento, non sia
«sorretta da giustificazioni di ordine logico», né ispirata a finalità tali da
consentire il diverso trattamento così riservato a diverse categorie di
cittadini.
2.— La norma denunciata così dispone: «Se, per effetto delle nuove
disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si
applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore
della presente legge, ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado
ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché dei
processi già pendenti in grado di appello o avanti alla Corte di cassazione».
La questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Bari – e rilevante
nel giudizio a quo – è prospettata relativamente alla parte della norma che
dispone la non applicabilità dei nuovi, più brevi, termini di prescrizione ai
reati per i quali sia intervenuta, in primo grado, la dichiarazione di apertura
del dibattimento.
3.— La questione è fondata.
4.— Poiché la denunciata violazione dell’art. 3 Cost. si basa sull’assunto che
la norma impugnata derogherebbe ingiustificatamente al disposto dell’art. 2,
quarto comma, del codice penale – secondo cui «se la legge del tempo in cui fu
commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui
disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata
sentenza irrevocabile» – occorre anzitutto stabilire se tra le «disposizioni
più favorevoli al reo», cui si riferisce la citata norma codicistica, debbano
rientrare esclusivamente quelle concernenti in senso stretto la misura della
pena, ovvero vi si possano includere anche le norme che, riguardando ulteriori
e diversi profili (come, appunto, la riduzione dei termini di prescrizione del
reato), ineriscono al complessivo trattamento riservato al reo.
La norma del codice penale deve essere interpretata, ed è stata costantemente
interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte (e da quella di legittimità),
nel senso che la locuzione «disposizioni più favorevoli al reo» si riferisce a
tutte quelle norme che apportino modifiche in melius alla disciplina di una
fattispecie criminosa, ivi comprese quelle che incidono sulla prescrizione del
reato (sentenze n. 455 e n. 85 del 1998; ordinanze n. 317 del 2000, n. 288 e n.
51 el 1999, n. 219 del 1997, n. 294 e n. 137 del 1996).
Una conclusione, questa, coerente con la natura sostanziale della prescrizione
(sentenza n. 275 del 1990) e con l’effetto da essa prodotto, in quanto «il
decorso del tempo non si limita ad estinguere l’azione penale, ma elimina la
punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia
totale dello Stato alla potestà punitiva» (Cass., Sez. I, 8 maggio 1998, n.
7442). Tale effetto, peraltro, esprime l’«interesse generale di non più
perseguire i reati rispetto ai quali il lungo tempo decorso dopo la loro
commissione abbia fatto venir meno, o notevolmente attenuato (…) l’allarme
della coscienza comune, ed altresì reso difficile, a volte, l’acquisizione del
materiale probatorio» (sentenza n. 202 del 1971; v. anche sentenza n. 254 del
1985; ordinanza n. 337 del 1999).
Pertanto, le norme sulla prescrizione dei reati, ove più favorevoli al reo,
rispetto a quelle vigenti al momento della commissione del fatto, devono
conformarsi, in linea generale, al principio previsto dalla citata disposizione
del codice penale.
5.— Poste queste premesse, deve essere preliminarmente ribadita la
giurisprudenza di questa Corte, costante nell’affermare che il regime giuridico
riservato alla lex mitior, e segnatamente la sua retroattività, non riceve
nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25, secondo comma, della
Costituzione, in quanto la garanzia costituzionale, prevista dalla citata
disposizione, concerne soltanto il divieto di applicazione retroattiva della
norma incriminatrice, nonché di quella altrimenti più sfavorevole per il reo.
Da ciò discende che eventuali deroghe al principio di retroattività della lex
mitior, ai sensi dell’art. 3 Cost., possono essere disposte dalla legge
ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione giustificativa.
6.— Nel presente giudizio la Corte è investita del compito di valutare se la
scelta compiuta dal legislatore con la norma in esame sia assistita da ragioni
che giustifichino la deroga, in tal modo apportata, al principio più volte
richiamato.
L’individuazione dei criteri in base ai quali operare questa valutazione non può
prescindere dal considerare adeguatamente la circostanza che tale principio non
è affermato soltanto, come criterio generale, dall’art. 2 cod. pen., ma è stato
sancito sia a livello internazionale sia a livello comunitario; tale
circostanza incide sul tipo di sindacato che questa Corte deve operare quando
ad esso la legge voglia derogare.
6.1.— In primo luogo, merita di essere ricordato l’art. 15, primo comma, del
Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici adottato a New York
il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n.
881, il quale stabilisce che «se, posteriormente alla commissione del reato, la
legge prevede l’applicazione di una pena più lieve, il colpevole deve
beneficiarne»: disposizione alla quale si collega la riserva dell’Italia nel
senso dell’applicazione limitata ai procedimenti in corso, e non anche a quelli
nei quali sia intervenuta una decisione definitiva.
In relazione a tale norma di diritto internazionale convenzionale va ricordata
la forza giuridica che questa Corte ha più volte riconosciuto alle norme
internazionali relative ai diritti fondamentali della persona (sentenze n. 62
del 1992; n. 168 del 1994; n. 109 del 1997; n. 270 del 1999). In particolare, a
proposito del Patto di New York, con la sentenza n. 15 del 1996 si è affermato
che le sue norme non possono essere assunte «in quanto tali come parametri nel
giudizio di costituzionalità delle leggi» (cosicché «una loro eventuale
contraddizione da parte di norme legislative interne non determinerebbe di per
sé – cioè indipendentemente dalla mediazione di una norma della Costituzione –
un vizio d’incostituzionalità»), ma che ciò «non impedisce di attribuire a
quelle norme grande importanza nella stessa interpretazione delle corrispondenti,
ma non sempre coincidenti, norme contenute nella Costituzione».
Dal suo canto, il comma 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea – nel
testo risultante dal Trattato sottoscritto ad Amsterdam il 2 ottobre 1997,
ratificato con legge 16 giugno 1998, n. 209 – ha affermato che «l’Unione
rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea
per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata
a Roma il 4 novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali
comuni degli Stati membri, in quanto principi generali del diritto
comunitario».
La Corte di giustizia delle Comunità europee, a sua volta, ha affermato che
tali diritti fondamentali sono parte integrante dei principi generali del diritto,
che essa garantisce (da ultimo, sentenze 12 giugno 2003, C-112/00; 10 luglio
2003, C-20/00 e C-64/00).
Di recente (sentenza 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02) la stessa
Corte – decidendo un caso nel quale il primato del diritto comunitario si
assumeva compromesso dalla retroattività di una disciplina che assicurava al
reo un trattamento più favorevole (anche per la riduzione dei termini di
prescrizione conseguente alla riduzione della misura della pena) – ha statuito
che delle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri fa parte il
principio dell’applicazione retroattiva della pena più mite. Tale principio –
secondo la Corte di giustizia – deve essere senz’altro osservato dal giudice
interno «quando applica il diritto nazionale adottato per attuare l’ordinamento
comunitario», ma esso – si ribadisce – nel caso esaminato viene in rilievo
nella sua valenza di principio generale dell’ordinamento comunitario, desunto
dal complesso degli ordinamenti giuridici nazionali e dei trattati internazionali
dei quali gli Stati membri sono parti contraenti.
6.2.— Il medesimo principio, sancito nell’art. 15 del già citato Patto di New
York, è stato esplicitamente confermato dall’art. 49, comma 1, della Carta dei
diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000
– la quale viene qui richiamata, ancorché priva tuttora di efficacia giuridica,
per il suo carattere espressivo di principi comuni agli ordinamenti europei –
secondo cui «se, successivamente alla commissione del reato, la legge prevede
l’applicazione di una pena più lieve, occorre applicare quest’ultima».
6.3.— Da questi dati normativi e giurisprudenziali si ricava che per le leggi
in esame l’applicazione retroattiva è la regola e che tale regola è derogabile
in presenza di esigenze tali da prevalere su un principio il cui rilievo, si è
già osservato, non si fonda soltanto su una norma, sia pure generale e di
principio, del codice penale.
Il livello di rilevanza dell’interesse preservato dal principio di retroattività
della lex mitior – quale emerge dal grado di protezione accordatogli dal
diritto interno, oltre che dal diritto internazionale convenzionale e dal
diritto comunitario – impone di ritenere che il valore da esso tutelato può
essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di
analogo rilievo (quali – a titolo esemplificativo – quelli dell’efficienza del
processo, della salvaguardia dei diritti dei soggetti che, in vario modo, sono
destinatari della funzione giurisdizionale, e quelli che coinvolgono interessi
o esigenze dell’intera collettività nazionale connessi a valori costituzionali
di primario rilievo; cfr. sentenze n. 24 del 2004; n. 10 del 1997, n. 353 e n.
171 del 1996; n. 218 e n. 54 del 1993). Con la conseguenza che lo scrutinio di
costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività
di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di
ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non
sia manifestamente irragionevole.
In definitiva, soltanto nel senso sopraindicato può trovare giustificazione la
deroga alla applicazione retroattiva della disposizione più favorevole al reo.
In particolare – per quanto attiene al tema che qui rileva – la deroga al regime
della retroattività deve ritenersi ammissibile nei confronti di norme che
riducano la durata della prescrizione del reato, purché tale deroga sia non
solo coerente con la funzione che l’ordinamento oggettivamente assegna
all’istituto, ma anche diretta a tutelare interessi di non minore rilevanza.
7.— Alla luce delle considerazioni che precedono, la questione di legittimità
costituzionale in esame si risolve in quella della intrinseca ragionevolezza,
ex art. 3 Cost., e dunque alla luce del principio di eguaglianza, della scelta
di individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento come
discrimine temporale per l’applicazione delle nuove norme sui termini di
prescrizione del reato nei processi in corso di svolgimento in primo grado alla
data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005.
A giudizio di questa Corte, la scelta effettuata dal legislatore con la
censurata disposizione transitoria non è assistita da ragionevolezza.
L’apertura del dibattimento non è in alcun modo idonea a correlarsi
significativamente ad un istituto di carattere generale come la prescrizione, e
al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento, legato al già
menzionato rilievo che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l’allarme
sociale, e dall’altro rende più difficile l’esercizio del diritto di difesa (e
ciò a prescindere del tutto dalla addebitabilità del ritardo nello svolgimento
del processo).
Infatti, l’incombente di cui all’art. 492 del codice di procedura penale non
connota indefettibilmente tutti i processi penali di primo grado (in
particolare i riti alternativi – e, tra essi, il giudizio abbreviato – che
hanno la funzione di “deflazionare” il dibattimento); né esso è incluso tra
quelli ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell’interruzione
del decorso della prescrizione ex art. 160 cod. pen., il quale richiama una
serie di atti, tra cui la sentenza di condanna e il decreto di condanna, oltre
altri atti processuali anteriori.
Del resto, se è vero che all’apertura del dibattimento questa Corte ha talora
attribuito rilievo, ciò è avvenuto a fini del tutto estranei all’ambito di
operatività della prescrizione: ad esempio, per individuare il momento della
devoluzione, al giudice della cognizione piena del merito, di tutta la gamma
delle attribuzioni giurisdizionali, anche cautelari (ordinanza n. 230 del
2005), o quello dopo il quale il danno non può più essere utilmente riparato
(ordinanza n. 970 del 1988).
L’opzione compiuta dal legislatore – in relazione ai processi di primo grado
già in corso – di subordinare l’efficacia, ratione temporis, della nuova
disciplina sui termini di prescrizione dei reati (quando più favorevole per il
reo) all’espletamento dell’incombente ex art. 492 cod. proc. pen. non si
conforma, pertanto, al canone della necessaria ragionevolezza. A tal fine, non
è pertinente – come fa l’Avvocatura dello Stato – né sottolineare la
circostanza che si tratta di «inizio del momento del pieno contraddittorio», né
invocare il principio di «non dispersione della prova», essendo evidente che
l’apertura del dibattimento individua un momento prima del quale, di norma, non
sono state compiute attività processuali suscettibili di essere vanificate.
In conclusione, la libertà di scelta, di cui il legislatore dispone in subiecta
materia, non è stata esercitata ragionevolmente.
8.— Pertanto la norma in esame – in quanto limita in modo non ragionevole il
principio della retroattività della legge penale più mite – viola l’art. 3
della Costituzione.
Essa deve essere quindi dichiarata costituzionalmente illegittima limitatamente
alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la
dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché».
per
questi motivi
LA
CORTE COSTITUZIONALE
dichiara
l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n.
251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in
materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle
circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), limitatamente
alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la
dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché».
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della
Consulta, il 23 ottobre 2006.
F.to:
Franco BILE, Presidente
Alfonso QUARANTA, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 23 novembre 2006.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA
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