Fra le tante storielle fiorite con la vittoria della nostra
nazionale nel mondiale di calcio, eccone una degna di nota. Un tifoso talmente
inebriato dalla vittoria e desideroso di sfogare il suo (antisportivo) malanimo
contro i francesi a tutti i livelli, dopo la finale è sceso in strada e ha
sfregiato la propria auto, una Peugeot. Ha fatto una cosa del genere
legittimamente e senza incorrere in nessun rischio con la legge. L’auto era la
sua e nessuno poteva contestargli il danneggiamento (aggravato) di cosa altrui.
Da questa “bravata” sembrerebbe desumersi un principio, che una persona con la
propria auto possa fare quello che vuole, anche se questa si trova in un luogo
pubblico o in un luogo aperto al pubblico. Ebbene, non è così. In certi casi,
non è così. Lo ha ribadito di recente la Corte di Cassazione con la sentenza n.
2340 del 02/02/2006 (rv. 589702), la cui massima recita: “dal combinato
disposto degli artt. 2, comma primo, e 3, n. 33, del codice della strada, i
quali definiscono rispettivamente come strada ‘l’area ad uso pubblico destinata
alla circolazione dei pedoni, dei veicoli e degli animali’, e come marciapiede
la ‘parte della strada, esterna alla carreggiata, rialzata o altrimenti
delimitata e protetta, destinata ai pedoni’, si desume che, ai fini
dell’accertamento della violazione dell’art. 158, comma primo, lett. h), del
medesimo codice, che vieta la sosta ‘sui marciapiedi, salvo diversa
segnalazione’, è decisiva soltanto la rilevazione della utilizzazione del
suolo, sul quale la sosta è avvenuta, quale componente del sistema viario
destinata alla circolazione dei pedoni, senza che assuma rilievo la proprietà
dell’area (e, in particolare, la circostanza che essa eventualmente appartenga
allo stesso autore della contestata infrazione), non essendo essenziale il suo
assoggettamento a diritto di passaggio a favore della collettività o la sua
appartenenza al demanio”. In altre parole, quando un’area privata è aperta al
pubblico, in particolare alla circolazione dei veicoli in toto, anche il suo
proprietario deve adeguarsi alle regole dell’uso pubblico, e non può fruire di
un trattamento peculiare dovuto al suo status di proprietario, in quanto ciò si
risolverebbe in un’indebita situazione di privilegio, e quindi in una
violazione del principio di uguaglianza. La devoluzione all’uso pubblico, e
quindi la soggezione all’interesse pubblico, affievolisce qualsiasi pretesa
derivante dalla proprietà singola, in accordo con i principi superiori che
regolano la res publica. Quindi, io non posso parcheggiare impunemente
su un marciapiede sito nella mia proprietà, se questa soggiace in tutto e per
tutto alle regole del codice della strada. Peraltro, è un principio di facile
intuizione, in quanto, in tale situazione, la proprietà regredisce allo stato
della nudità e viene meno uno dei suoi contenuti tipici, ossia il diritto al
godimento esclusivo. Il caso di un proprietario di area, però, è
decisamente minoritario, e concerne una ristretta cerchia di (facoltosi)
possidenti. Maggiore richiamo invece può avere il caso, diverso, ma affine, del
titolare di licenza di passo carrabile (condizione ormai massificata), sì da
chiedersi se costui può “impunemente” parcheggiare i propri mezzi all’imbocco
del “proprio” passo carraio. Qui la giurisprudenza non sembra univoca. Con una
pronuncia del 1996 (n. 8082 del 5.9.1986) la Suprema Corte ha stabilito che il
divieto esiste anche per il titolare della licenza. Questa la massima: “la licenza
di accesso ai fondi e fabbricati laterali alla strada (passi carrabili), a
norma degli articoli 4 e 5 del T.U. approvato con R.D. 8 dicembre 1933 n. 1740
(norme a tutela delle strade), non comprende anche la facoltà di sosta dei
veicoli nell’area pubblica corrispondente al relativo ‘sbocco’, e ciò per la
ragione che l’uso del suolo stradale per la sosta, come uso generale del bene
demaniale, non può essere riservato a ‘determinati veicoli’ se non per motivi
di pubblico interesse (art. 4, primo comma, sub b d.P.R. 15 giugno 1959 n.
393), con la conseguenza che il divieto di sosta posto dall’art. 115, quinto
comma, sub B del citato D.P.R. n. 393 del 1959 ‘allo sbocco dei passi
carrabili’ è operante anche nei confronti dei titolari delle relative licenze”.
Il principio stabilito è quello espresso dalla sentenza dianzi citata in
materia di violazioni sul “proprio” terreno (pubblico). Una volta che l’area è
assoggettata alle norme, di diritto pubblico, della circolazione stradale,
queste devono coerentemente operare per tutti, in nome di generalissimi
principi.
Per inciso, nella giurisprudenza di merito, una sentenza del Pretore
di Bologna (11.5.1993, Mucci), in tempi non recenti, si orientò nello stesso
modo, ritenendo che “la prescrizione del divieto di sosta, per l’apposizione
del segnale di passo carraio, ha un’applicazione generale, includente anche il
concessionario della facoltà di inibizione del passaggio sull’accesso tutelato
(in Arc. giur. circ. sin. strad. 94, 637). Ma una sentenza più recente della Suprema
Corte (n. 18557 del 04/12/2003) è invece parsa affermare il contrario. Ha
infatti rilevato la Cassazione che: “in tema di tassa per l’occupazione di
spazi ed aree pubbliche (TOSAP), ai sensi dell’art. 44, comma 8, del d.lgs. 15
novembre 1993, n. 507, gli accessi, carrabili o pedonali, posti a filo con il
manto stradale, per i quali sia stato rilasciato apposito cartello segnaletico
di divieto di sosta, sono soggetti alla tassa, determinata con tariffa
ordinaria, ridotta fino al 10 per cento. Da un lato, infatti, l’art. 3, comma
60, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, nell’abrogare il comma 7 del citato
art. 44, ha soltanto inteso eliminare (per evitare dubbi interpretativi) la
regola generale della non imponi bilità degli accessi a filo con il manto
stradale, ma, mantenendo fermo il comma 8 (che richiama il comma precedente),
ne ha conservato l’imponibilità nel caso del rilascio del cartello di divieto
di sosta, e, dall’altro, siffatti accessi a raso, muniti del detto cartello,
configurano una sottrazione del bene all’uso pubblico (e, quindi,
un’occupazione tassabile), con correlativo vantaggio per il proprietario,
derivante dall’esistenza del divieto di sosta per gli altri”. Ossia, la
concessione del passaggio (esclusivo) che deriva dalla necessità di accedere
alla propria casa (e quindi, nella sostanza, il riconoscimento di una servitù
di passaggio al singolo proprietario, che non può non essere esclusiva)
implica, de plano, la facoltà di occupare, sempre in via esclusiva, l’area di
passaggio. Di conseguenza, parcheggiare davanti al passaggio (non sul
marciapiede, fatto che impedirebbe il transito pedonale) non lede alcun
interesse pubblico, in quanto non pregiudica l’interesse, privato ma con
riflesso pubblicistico, per il quale è stata data la concessione al passaggio.
Non essendovi alcuna lesione di interesse pubblico, ne consegue, in via logica,
anche la facoltà di occupazione dell’area devoluta al passaggio. Chi altri,
infatti, avrebbe interesse a passare da lì? Anzi, a occupare tale area (fatto che,
anzi è vietato)? Diverso, in effetti, è il caso in cui si parcheggi su un
marciapiede, fatto che sottrae all’uso pubblico un’area che a tale uso è invece
destinata in via incondizionata. Confidiamo quindi che, nel caso in cui un
ignaro (e quindi scusabile) operatore di polizia elevi un’infrazione per
divieto di sosta nei nostri confronti per aver trovato un’auto (la nostra)
davanti a un passo carrabile (il nostro), l’infrazione ci possa essere, come
prosaicamente si dice, “tolta”, in nome di un rudimentale principio di
ragionevolezza.
* Gip presso il Tribunale di Forlì
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