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Corte di Cassazione 16/12/2006

Orientamenti interpretativi diversi fra le sezioni della Corte di Cassazione
COMPETENZA PER MATERIA – REATO DI GUIDA SOTTO L’EFFETTO DI SOSTANZE STUPEFACENTI - ART. 187 DEL C.D.S. - COMPETENZA DEL TRIBUNALE O DEL GIUDICE DI PACE?

(Cass. Pen., sez. IV, 14 giugno 2006, n. 20248 – Contra: Cass. Pen., sez. I, 3 ottobre 2005, n. 35628)

I. 
Giurisprudenza di legittimità

Corte di Cassazione Penale
Sezione IV, 14 giugno 2006,  n. 20248

Competenza penale – Tribunale – Reato di guida in stato di ebbrezza – Attribuzione - Reato di guida sotto l’effetto di sostanza stupefacenti – Estensione. 

A seguito dell’entrata in vigore del D. L. 27 giugno 2003 n. 151, conv. Con modif. in legge 1 agosto 2003 n. 214, che ha attribuito al tribunale, togliendo al giudice di pace, la competenza per il reato di guida in stato di ebbrezza, deve ritenersi attribuita al tribunale anche la competenza per il reato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, prevista dall’187 c.s.      


II. 
Giurisprudenza di legittimità

Corte di Cassazione Penale
Sezione I , 3 ottobre 2005, n. 35628

 Competenza penale – Competenza per materia - Giudice di pace – Reato di guida sotto l’effetto di sostanza stupefacente – Disciplina introdotta dal D.L. n. 151/03 – Attribuzione al giudice di pace – Sussistenza – Differenza dal reato di guida in stato di ebbrezza di competenza del tribunale. 

Il reato previsto dall’art. 187 del codice della strada (guida in stato di alterazione per uso di alterazione per uso di sostanze stupefacenti) a differenza del reato previsto dall’art. 186 (guida in stato di ebbrezza), anche dopo la modifica introdotta dall’art. 6 D. L. 27 giugno 2003 n. 151, resta attribuito alla competenza per materia del giudice di pace, in quanto il settimo comma del novellato art. 187 richiama l’art. 186escusivamente per la parte relativa all’applicazione delle sanzioni e pertanto l’omessa riferimento alla disposizione attributiva della competenza al tribunale preclude un’interpretazione estensiva.

Giurisprudenza di legittimità
Corte di Cassazione Penale
Sezione IV, 14 giugno 2006, n. 20248

Competenza penale – Tribunale – Reato di guida in stato di ebbrezza – Attribuzione _ Reato di guida sotto l’effetto di sostanza stupefacenti – Estensione.  

A seguito dell’entrata in vigore del D. L. 27 giugno 2003 n. 151, conv. Con modif. in legge 1 agosto 2003 n. 214, che ha attribuito al tribunale, togliendo al giudice di pace, la competenza

per il reato di guida in stato di ebbrezza, deve ritenersi attribuita al tribunale anche la competenza per il reato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, prevista dall’187 c.s.
 

Svolgimento del processo. – C. C. B. è stato condannato con sentenza del 28 maggio 2004 dal Giudice di pace di Rovereto alla pena di euro 800,00 di ammenda per il reato di guida in stato di alterazione psico-fisica dovuta all’ingestione di sostanze stupefacenti.

Avverso detta sentenza è stato proposto appello, deducendo quali motivi la violazione dell’art. 187 c.s., giacché non poteva essere sottoposto ad accertamento sanitario, in quanto non vi era un sinistro, condizione cui è subordinato il predetto al fine di accertare la presenza di sostanze stupefacenti assunte, la nullità del decreto di citazione, poiché, in violazione dell’art. 37 D.L.vo n. 274 del 2000, era stata indicata in maniera erronea la disposizione relativa alla sanzione (comma quarto dell’art. 187 c.s., riferentesi all’obbligo dell’accertamento sanitario per il soggetto coinvolto in un incidente stradale, mai verificatosi), la carenza di motivazione circa la commissione del reato, perché l’esame delle urine dimostra solo l’assunzione di sostanze stupefacenti, ma non la guida del veicolo in stato di alterazione, tanto più che la presenza della droga nelle urine dimostra un0assunzione avvenuta molto tempo prima, giacché è possibile rintracciare dette sostanze per un periodo molto lungo, mentre l’osservazione dei carabinieri circa il suo stato di alterazione è vaga, e l’eccessività della pena.

Il Tribunale di Rovereto in data 4 novembre 2004 dichiarava inammissibile l’appello per essere stato proposto avverso sentenza di condanna  a pena pecuniaria senza che esistesse alcuna condanna impugnata al risarcimento del danno ed il C. proponeva ricorso avverso dette pronuncia, deducendo quale motivo la violazione dell’art. 568 c.p.p., poiché non vi era proceduto l’impugnazione a trasmetter l’impugnazione al giudice competente per la sua decisione. 

Motivi della decisione. – Assume valore assorbente non dedotta dal ricorrente, ma rilevabile ex officio in ogni stato e grado del giudizio ex art. 21 c.p.p., l’incompetenza per materia del giudice di pace.

Infatti, la competenza per materia, in virtù dei principi tempus regit actum e perpetuatio jurisdictionis, va determinata, in assenza di norme transitorie, al momento in cui il P.M. esercita l’azione (cfr. ex plurimis Cass., sez I, 25 marzo 2005, n. 12148, RV 231844 e Cass., sez. I, 19 luglio 2005, n. 26787, RV 231845 in termini), sicché, poiché il decreto di citazione è stato emesso in epoca successiva all’entrata in vigore della legge n. 214 del 2003 (13 agosto 2003) e precisamente il 6 febbraio 2004, la competenza a decidere spetta al tribunale, anche per il reato contestato.

A tal riguardo non ignora il collegio il recente orientamento della prima sezione penale di questa Corte in sede di risoluzione di un conflitto di competenza (Cass., sez. I, 3 ottobre 2005 n. 35628), secondo cui competenza a decidere sarebbe il giudice di pace, in quanto il novellato art. 187 c.s. richiama il precedente articolo esclusivamente per la parte relativa all’applicazione della sanzioni ed al traino del veicolo fino al  luogo indicato dall’interessato o fino alla più vicina autorimessa (art. 186 secondo comma ultimo periodo c.s.).

Tuttavia, detta esegesi eccessivamente legata alla lettera della norma, non sembra condivisibile, ove si consideri l’obbligo del giudice di prescegliere tra due interpretazioni in astratto possibile quella che fa escludere ogni dubbio di costituzionalità.

Infatti, a parte il riferimento alle sanzioni dell’art. 186 comma 2 c.s., non può sottacersi che la stessa novella, operata con D.L. n. 151 del 2003, convertito in legge n. 214 del 2003, al richiamato precetto nel suo secondo comma dopo aver descritto la fattispecie della guida in stato di ebbrezza aggiunge la pena, individuata nell’arresto fino ad un mese e nell’ammenda da euro 258,00 ad euro 1.032,00 e subito dopo stabilisce dopo stabilisce che «per l’irrogazione della pena è competente il tribunale» con norma aggiunta dalla legge di conversione, dopo che il relatore aveva ritenuto ultronea detta specificazione, poiché era stata «ripristinata» la pena congiunta dell’ammenda e dell’arresto, la cui applicazione era sottratta al giudice di pace.

Pertanto, il riferimento alle «sanzioni dell’art. 186 comma 2» potrebbe dimostrare o un collegamento sostanziale tra competenza e modificazioni della pena ovvero una più includere pure l’organo competente, indicato subito dopo i limiti edittali della pena congiunta, modificata dal decreto legge n. 151 del 2003 per entrambi i reati.

Infatti, per quanto concerne il primo argomento (cfr. Cass., sez. IV, 5 ottobre 2004, PG. in proc. Granelli e Cass., sez. IV, 29 settembre 2004, PG. In proc. Simeoni), potrebbe sostenersi che la competenza appare mutata in via indiretta in seguito all’inasprimento del regime sanzionatorio, onde pure sotto questo profilo, sussiste la competenza del tribunale (Cass., sez. I, 21 novembre 1994, n. 4419, confl. Comp Gup e Pret. Savona in proc. Bocca, RV 199657 cui adde Cass., sez. I, confl. Comp. Gip e Pret. Marsala in proc Scandagliato, RV 201274), giacchè l’ultima connessione esistente tra regime sanzionatorio e competenza giustifica il mutamento di quest’ultima.

Tuttavia, detta impostazione, seguita sia per il delitto di usura sia quello di abuso di ufficio, è stata espressamente disattesa dalla recente decisione delle Sezioni Unite proprio in tema di competenza a giudicare del reato di guida in stato di ebbrezza (31 gennaio 2006 n. 3821), sicché non appare utilizzabile, anche se non tiene conto delle molte imprecisioni del legislatore.

Peraltro, non può negarsi che tutto il trend legislativo di questa fine di legislatura è caratterizzato da un maggior rigore in genere sull’uso di sostanze stupefacenti, sicché sembrerebbe eccentrica ed ingiustificata la previsione di un regime sanzionatorio e di una disciplina per la guida in stato di ebbrezza e di alterazione da sostanze psicotrope e stupefacenti.

Non sembra neppure richiamabile una nota ordinanza della Corte costituzionale (n. 277 del 2004), con la quale si sono giustificate le differenti modalità tecniche di accertamento dei due reati suddetti sulla base del necessario riscontro con analisi di laboratorio alla luce delle attuali conoscenze tecnico-scientifiche, introducendo una prova legale per la contravvenzione ex art. 187 c.s., giacché nella medesima ordinanza non solo si assume la concretizzazione di una condotta di pericolo per la circolazione nella guida di un veicolo sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, ma anche si esclude ogni rilevazione al dato quantitativo, rilevante invece per la guida in stato di ebbrezza, anche se ora sfumato ad appena 0,5 gr.

Inoltre proprio l’innovativa norma su indicata ha richiesto l’obbligatoria accertamento anche per la guida di un veicolo sotto l’effetto dell’ingestione di sostanze alcoliche, sicché sembrano ulteriormente ridursi le caratteristiche differenziali dei due reati (cfr. circolare 29 dicembre 2005 n. 300/A1/42175/109/45 del Ministero dell’interno, che afferma la competenza del giudice di pace), mentre il pericolo per la circolazione e la possibilità di incidenti derivanti da dette situazioni ha indotto il legislatore a prevedere, in entrambi i reati, il traino del veicolo nel luogo indicato dall’interessato o fino alla più vicina autorimessa, sicché l’equiparazione tra le due situazioni appare sempre più pregnante con un’eguale rilevanza dell’alterazione psicofisica.

Pertanto, ad avviso del collegio, una differente competenza a giudicare detti due reati, comportando una diversità del giudice competente ed in conseguenza di ciò una difformità del regime sanzionatorio e/o della disciplina processuale molto marcata farebbe sorgere non infondati dubbi di costituzionalità in relazione al principio di ragionevolezza e di eguaglianza, sicché deve prediligersi un’esegesi ampia del richiamo al secondo comma dell’art. 186 c.s. contenuta nell’art. 187 settimo comma c.s., includendo non solo il riferimento al regime sanzionatorio in senso stretto, ma anche all’argano competente all’«irrogazione della pena».

Peraltro, l’analisi ermeneutica non condivisa in ordine all’attribuzione della competenza a decidere sui reati di cui all’art. 187 c.s. al giudice di pace è costretta a forzare lo stesso dato letterale degli artt. 5 e 6 del decreto legge n. 151 del 2003 convertito in legge n. 214 del 2003, su cui fonda la sua interpretazione, in quanto non considera alcune analogie testuali e dimenticanze legislative.

Infatti, l’art. 4 primo comma lett. q) D.L.vo n. 274 del 2000, a differenza di quanto avvenuto in base all’art. 3 della legge n. 72 del 2003, che, nel riattribuire al tribunale la competenza a giudicare per il reato di cui all’art. 189 sesto comma c.s., aveva espressamente espunto dalla citata lettera il riferimento al predetto precetto, non ha attuato una simile modifica.

Perciò, volendo attenersi alla lettera della legge e seguendo la tesi di uno studiosi e di qualche giudice di merito, dovrebbe sostenersi che solo la contravvenzione, contemplata al secondo comma dell’art. 186 c.s. è stata sottratta alla competenza del giudice di pace, giacché la lettera q) dell’art. 4 D.L.vo cit. è rimasta immutata, sicché la modifica della competenza intervenuta con la legge di conversione ha determinato un’abrogazione implicita da parte della su riferita disposizione solo in relazione alla contravvenzione di guida in stato di ebbrezza.

Ed invero, per sostenere l’estensione di detta competenza anche al reato di rifiuto di sottoporsi all’alcoltest, autonomo rispetto a quello di guida in stato di ebbrezza per i differenti interessi tutelati (pubblica incolumità per quest’ultimo e rispetto della normativa e dei poteri dello Stato nell’altro cioè in senso ristrettivi sicurezza pubblica)(cfr. Cass., sez. IV, 2 luglio 1997, n. 6355, RV 028222), occorrerebbe sostenere che, come sembra faccia la pronuncia non condivisa, l’intervenuto spostamento della contravvenzione di rifiuto a sottoporsi ad alcoltest dal sesto al settimo comma dell’art. 186 c.s. determinerebbe l’abrogazione pure dell’indicazione effettuata dalla predetta lettera q) dell’art. 4 D. L.vo cit. al sesto comma dell’art. 186 c.s., perché ormai incongrua con un ulteriore legame alla lettera della legge senza considerare come, molto spesso, la mutata collocazione di una norma, rimasta immutata, non abbia comportato la modificazione del regime processuale e sostanziale.

Tuttavia, una simile impostazione dovrebbe comportare anche l’abrogazione di tutta la lettera q) della norma in esame, poiché è mutata pure la collocazione normativa dei reati contemplati dall’art. 187 c.s. cioè guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti o psicotrope e rifiuto di sottoporsi agli accertamenti sanitari ivi previsti, giacché le condotte, prima contemplate ai richiamati quarto e quinto comma dell’art. 187 c.c., sono state allocate al sesto ed al settimo comma di detta ultima disposizione, sicché la medesima argomentazione utilizzata per ritenere modificata la competenza a decidere in ordine al reato di rifiuto di sottoporsi ad alcoltest potrebbe essere utilizzata per quelli inclusi nell’art. 187 cit., altrimenti, gli stessi sarebbe sottratti, in maniera del tutto irrazionale, alla decisione di qualsiasi giudice in conseguenza del «vuoto» legislativo determinatosi a causa della poca attenta formulazione delle complessive modifiche.

Inoltre, questa esegesi testuale, ponendosi sul medesimo criterio utilizzato dalla pronuncia non condivisa, giustifica l’attribuzione della competenza a decidere su detti reati al tribunale.

Pertanto, sotto il profilo logico ed uniformandosi all’angolo visuale dell’analisi ermeneutica condotta dagli orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, tesi ad un’interpretazione ad litteram, contrasta, nelle sue affermazioni generali, dalla migliore dottrina e dalla più attenta giurisprudenza, appare più convincente la conclusione di chi ritiene permanere la competenza del giudice di pace pure per il reato di rifiuto di sottoporsi all’alcoltest.

Infatti, solo la guida in stato di ebbrezza alcolica è stata espressamente attribuita alla competenza del tribunale e per tutti gli altri reati in parola è utilizzata la medesima locuzione «(il conducente è) punito, salvo che (ove) il fatto non costituisca più grave reato, con le sanzioni di cui al comma secondo» (art. 186 settimo comma, art. 187 settimo ed ottavo comma c.s.), anche se per la guida in condizioni di alterazione fisica e psicotrope è aggiunto il riferimento alle «disposizioni del comma 2, ultimo periodo, dell’art. 186», sicché non è possibile attribuire all’identico ristagna «con le sanzioni di cui al comma 2» una differente valenza ai fini di individuare il giudice competente.

Tuttavia, una simile soluzione ermeneutica aggiunge incongruenza ad altra, poiché determina una differente competenza con diversificazione del sistema processuale e sanzionatorio per un reato (il rifiuto di sottoporsi all’alcoltest ed agli accertamenti, contemplati dal secondo, terzo e quarto comma dell’art. 186 c.s.), che, seppure autonomo rispetto alla guida in stato di ebbrezza alcolica, è con questo funzionalmente e strumentalmente collegato e riguarda la medesima situazione.

Tale aporia non può essere risolta neppure ricorrendo all’istituto della competenza per connessione eterogenea cioè dinanzi a giudici ordinari diversi, poiché l’art. 6 D.L.vo n. 274 del 2000 fornisce una nozione riduttiva di detto criterio, limitando soltanto al caso «di persona imputata di più reati commessi con una sola azione o omissione» (primo comma) (c.d. concorso formale di reati) e disponendo l’attrazione dei procedimenti al giudice superiore in detta ipotesi (secondo comma), purché sia possibile e non discrezionale la riunione dei procedimenti, in modo da escludere, con un’interpretazione adeguatrice, possibili dubbi di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 25 Cost. sul giudice naturale precostituito per legge, e la competenza per l’altro non sia di un giudice speciale (ex. Gr. Tribunale per i minorenni o tribunale militare).

Una simile normativa della connessione c.d. eterogenea, limitata alle sole ipotesi di concorso formale di reati soltanto ai procedimenti, in cui è possibile la riunione e non sussista la competenza di un giudice speciale, esalta la specialità della giurisprudenza del giudice di pace, secondo quanto afferma la stessa Relazione governativa, giacché la sua finalità conciliativa, orientata più a promuovere condotte socialmente utili che a reprimere ed a stabilire sanzioni, è caratterizzata dalla singolarità delle sanzioni che ne costituiscono l’oggetto e dalla particolarità delle soluzioni procedurali, sicché appare giustificata detta competenza quasi esclusiva.

La soluzione legislativa trova ulteriore conferma nell’art. 48 D. L.vo n. 274 del 2000, in cui, in qualsiasi stato e grado del giudizio, se il giudice ritiene che il reato appartenga alla competenza del giudice di pace, dichiara con sentenza la propria incompetenza con i provvedimenti consequenziali, purché non sia ravvisabile l’unica ipotesi di connessione di cui all’art. 6 D.L.vo cit., sicché si è voluto anche evitare il rischio che procedimenti riguardanti «reati minori» di più facile definizione subiscano le vicissitudini di quelli di maggiore gravità e di più difficile accertamento e che i procedimenti di competenza del giudice di pace diminuiscono per l’applicazione dell’istituto della connessione, modulato in materia diversa da quella contemplata dal codice di rito.

Queste osservazioni sulla peculiarità della giurisdizione del giudice di pace e della disciplina predisposta in tema di connessione eterogenea di procedimenti dimostrano come appaia, pure sotto questo aspetto, non molto razionale ed in contrasto con il sistema predisposto l’applicazione di pene congiunte dell’ammenda e dell’arresto da parte del giudice di pace, giacché la guida in stato di ebbrezza alcolica ed il rifiuto degli accertamenti previsti ai commi 2, 3 o 4 dell’art. 186 e dall’art. 187 c.s. non sono commessi con una sola azione, mentre il concorso formale dei reati di guida in stato di ebbrezza alcolica e di quella in stato di alterazione psico-fisica dovuta all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, raramente possibile, ove si accedesse all’esegesi non condivisa, determinerebbe l’attrazione del procedimento per questi soli reati alla competenza del tribunale, comportando disomogeneità del complesso normativo.

Pertanto, anche sotto questi ulteriori profili, è possibile una differente lettura della norma attributiva della competenza del tribunale a giudicare dei reati di cui agli artt. 186 e 187 c.s.

L’esegesi avanzata in sede di interpretazione costituzionalmente orientata non può, poi, a parere del collegio, essere esclusa dalla prospettazione di un’eventuale dichiarazione d’inammissibilità della questione costituzionale da parte della Corte costituzionale, in quanto si verrebbe a proporre un dubbio di costituzionalità risolvibile con una consentita analogia in malam partem in sede penale oppure si invaderebbe il campo riservato alla discrezionalità legislativa.

A tal riguardo, un’analisi approfondita con riferimenti alla giurisprudenza costituzionale ed ai principi ed alle implicazioni sottesi a dette tipologie di decisioni ed alla necessità dell’interpretazione adeguatrice ed ai suoi determinerebbe uno studio monografico ed trattazione ed una tematiche ampie con le differenti teorie dottrinali e con diversi approdi della Corte costituzionale tali da esulare da una pronuncia giurisdizionale, sicché si daranno per presupposte molte problematiche, alcune saranno solamente accennate con l’indicazione della soluzione accolta ed altre verranno svolte solo nei limiti in cui interessano l’argomento trattato, soffermandoci maggiormente ad illustrare le diverse tesi dottrinali in relazione alla giurisprudenza costituzionale, il cui evolversi verrà, a volte, sinteticamente posto in luce.

I principi della completezza dell’ordinamento e della norma esclusiva implicata, di ragionevolezza e di bilanciamento degli interessi e le problematiche dei rapporti tra giudice delle leggi e quelli ordinari e tra questi ed il legislatore, dell’esegesi diretta da parte del giudice ordinario, attraverso i suoi poteri ermeneutici, della norma costituzionale e dei poteri della Corte costituzionale sono sottesi alla tematica dell’interpretazione adeguatrice e fondano la sua necessità.

La Corte costituzionale ritiene che, una volta correttamente individuata la norma denunciabile, verificati i requisiti di astratta sindacabilità della questione di legittimità costituzionale tramite l’accertamento della rilevanza e della non manifesta infondatezza e indicati i parametri di costituzionalità in ipotesi configgenti con la norma da applicare al caso concreto, il giudice ordinario, prima di investire la Corte costituzionale dell’esame della relativa questione, non possa sottrarsi ad un ulteriore necessario, preliminare ed indefettibile adempimento, che è quello di verificare se la norma stessa non sia suscettibile, tra quelle possibile, di un’interpretazione conferme alla Costituzione, giacché, in questo caso, il giudice è tenuto ad operare quella interpretazione costituzionalmente adeguata, conformando direttamente la norma ai principi della Carta fondamentale, «attraverso una sorta di controllo diffuso di costituzionalità di primo livello», secondo quanto affermato da acuta dottrina, ormai pressoché unanime.

In questa prospettiva la dichiarazione di inammissibilità della questione diventa lo strumento con cui la Corte costituzionale sanziona l’omessa tentativo di interpretazione «adeguatrice» tale da non essere limitata all’assegnare la prevalenza, tra più alternative ermeneutiche, a quella conforme a Costituzione, ma da ricomprendere la possibilità di riformulare alla luce dei principi costituzionali il contenuto di norme che, in origine, ne erano assai distanti.

L’interpretazione adeguatrice, contrariamente a quanto paventato da una parte della dottrina, legata ancora alla vecchia concezione del «giudice ordinario “apriporta” del giudizio incidentale», non determina alcuna forma indebita di esercizio di «discrezionalità politica» e di giurisprudenza «creativa», in quanto non è praticabile a discrezione del giudice e trova alcuni limiti quali l’esistenza di possibili letture alternative della norma, non legate più al dato lessicale polisenso (cfr. Corte cost. ord. N. 89 el 2002 ed ord. N. 198 del 2003, nella quale ultima espressamente si legge che «una interpretazione meramente letterale… condurrebbe ad un sicuro conflitto con … la nostra Costituzione… ma… eventuali residue incertezze sono destinate dissolversi una volta che sia adottato quale canone ermeneutico preminente, il principio di supremazia costituzionale che impone all’interprete di optare, fra più soluzioni astrattamente possibili, per quella che rende la disposizione conforme a Costituzione») e l’obbligo di addivenire a detta esegesi costituzionalmente orientata senza coinvolgere la Corte costituzionale nel circolo dell’interpretazione giudiziaria riservata al giudice ordinario in una delimitazione dei compiti e dei ruoli attribuiti dalla Carta.

Un ulteriore limite all’interpretazione adeguatrice è dato rinvenire nella dottrina del diritto vivente, venutasi a formare verso la fine degli anni sessanta (vedi ord. N. 314 del 1999) per risolvere contrasti insorti con il giudice di legittimità sede penale alla fine degli anni sessanta, secondo cui una giurisprudenza, orientata in modo univoco e costante, non contrasta dalla Corte di cassazione, determina un «diritto vivente», cui il giudice deve prestare ossequio o sollevare la questione di legittimità, qualora ritenga la norma, così interpretata, contrastante con parametri costituzionali, sicché l’insussistenza di questo per l’esistenza di contrasti giurisprudenziali nell’ermeneusi della norma (ord. N. 57 del 2000) o per la recente formulazione della disposizione legittima una tale interpretazione «adeguatrice» (ord. N. 89 del 2002), purché l’esegesi proposta dal giudice a quo non sia poco «persuasiva» o «implausibile» alla stregua della medesima legislazione ordinaria interpretata (cfr. fra le tante ord. nn. 453 del 2000 e 295 del 2001), costituente un ulteriore limite alla predetta.

Tuttavia, di recente, la Corte costituzionale, ricongiungendosi ad un altro indirizzo, risalente nel tempo, ma ancora ripreso (ord. n. 233 del 2000) sull’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale «meramente interpretative» ed avvalorando quello sempre presente, che esclude l’ammissibilità di quelle proposte con esegesi formulate in termini «perplessi» (ord. n. 7 del 2000) ha sostenuto che «non è precluso al giudice di pervenire ad una lettura secundum Costitutionem anche in presenza di un orientamento giurisprudenziale univoco» (ord. n. 3 del 2002, ma ord. n. 336 del 2002 dichiara solo la manifesta infondatezza della questione e non l’inammissibilità, perché il giudice a quo si è attenuto ad un’interpretazione consolidata in termini di diritto vivente), giacché «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» (sent. n. 356 del 1996, che ha ulteriormente precisato i principi da seguire in tema di interpretazione adeguatrice).

Peraltro, questo indirizzo giurisprudenziale, che esalta il ruolo del giudice ed il suo obbligo di pervenire ad un’interpretazione della legge conforme alla Costituzione, pur in presenza di un diritto vivente contrario, per l’affermata autonomia del giudice e del controllo diffuso di costituzionalità (ord. nn. 158 del 2000 e 367 del 2001) e che si pone in linea con l’altro, secondo cui non assume carattere vincolante l’esegesi della Cassazione ai fini della definizione dell’oggetto del giudizio di costituzionalità, dovrà essere rivisto alla luce del D. L.vo n. 40 del 2006, con cui è stata dettata una nuova disciplina del giudizio per cassazione in sede civile, potenziando la funzione nomofilattica della Corte ed attribuendo più forza al dictum delle Sezione Unite.

Pertanto, ove si accedesse ad una considerazione molto rigorosa dell’obbligo di interpretazione adeguatrice, preliminare a qualsiasi altra indagine, escluso l’esame dei requisiti di astratta sindacabilità della norma, ivi compresa la sua natura legislativa, sarebbe inutile discutere su un’eventuale inammissibilità della questione di legittimità, perché propone una «analogia in malam partem» non consentita o contrasta con la discrezionalità del legislatore.

Tuttavia, ove si volesse includere tra i compiti del giudice a quo quello di saggiare eventuali inammissibilità della questione da sollevare ovvero, con maggiore aderenza agli stessi presupposti dell’interpretazione adeguatrice, la necessità che questa si conformi a tutti i precetti costituzionali e quindi anche al principio di legalità ed al rispetto della divisione dei poteri delineato dalla carta fondamentale, fondanti il divieto di analogia in malam partem in materia penale e l’insindacabilità delle disposizioni espressione della discrezionalità legislativa non sembra, alla luce della dottrina prevalente e della giurisprudenza costituzionale, potersi prospettare detta inammissibilità.

Ed invero, per quanto attiene al limite della considerazione della discrezionalità legislativa, rilevato come si tratti in un tema a schema aperto, indocile a lasciarsi inquadrare entro moduli stabilmente conformativi, secondo quanto risulta dalle differenti tipologie di decisioni adottate dalla Corte costituzionale da quelle di inammissibilità a quelle di rigetto, da quelle di accoglimento alle altre manipolative, additive ed interpretative di rigetto o di accoglimento, la nozione stessa di discrezionalità legislative assume un duplice significato tale da influenzare l’elaborazione giurisprudenziale della Consulta.

Infatti, in un primo senso, il concetto di discrezionalità legislativa si riferisce all’attività finalizzata al perseguimento degli obiettivi fissati nei principi costituzionali o in norme interposte, sicché, essendo l’attività del legislatore ancorata al perseguimento di determinati fini, il sindacato di legittimità si svolge secondo gli schemi del vizio di accesso di potere, mentre, in base ad una diversa ricostruzione, la predetta discrezionalità si atteggia come libertà di determinazione del legislatore sul fondamento di «valutazioni di opportunità del tutto insuscettibili di essere verificate sotto il profilo della loro conformità ai precetti costituzionali», seguendo la teoria di un Chiaro Autore.

Il polisenso significato della nozione di discrezionalità legislativa si riflette sull’eterogeneità delle argomentazioni, poste a base delle ordinanze di inammissibilità, spesso collegate alla specialità delle situazioni esaminate o alla necessaria flessibilità della decisione per evitare  «vuoti normativi».

Perciò vi sono ordinanze di inammissibilità in cui si afferma o la tendenziale incostituzionalità della norma, suscettibile di una molteplicità di diverse scelte (ex. Gr. N. 133 e n. 270 del 1993), riservate al legislatore, o l’esistenza di valori fondamentali diversi, insuscettibili di realizzarsi congiuntamente, sicché è il legislatore l’unico organo deputato ad attuare detto contemperamento, altre volte, invece, effettuato dalla stessa Corte (ord. n. 235 del 1993) oppure si ritiene di formulare un monito al legislatore affinché provveda con una disciplina adeguata.

Non interessa soffermarsi in maniera approfondita sulle varie tipologie delle ordinanze di inammissibilità che precludono l’esame nel merito della questione di legittimità costituzionale per la sua insindacabilità per essere la norma esercizio di potestà discrezionale legislativa, notando soltanto che accanto a decisione basate solo sull’affermazione di detta preclusione senza ulteriori specificazioni (ex. Gr. Nn. 111 e 335 del 1996) ve ne sono altre in cui l’inammissibilità consegue alla pluralità di soluzioni diverse, la cui scelta incombe sul legislatore, comportando un bilanciamento di interessi (cfr. ord. n. 377 del 1994) senza che nessuna sia costituzionalmente imposta (cfr. ord. nn. 51 e 94 del 1997 e n. 12 del 1998) ovvero senza una possibile soluzione esegetica (sent. n. 183 del 2000) ed altre ancora nelle quali la scelta legislativa è ritenuta non arbitraria o ragionevole in generale (ex. Gr. N. 272 del 1994 e n. 298 del 1995) oppure perché si è in presenza di situazioni disomogenee (ex. Gr. N. 102 del 1998) o perché non è individuato o è stato erroneamente indicato il tertium comparationis (ord. n. 386 del 1997).

Il limite all’insindacabilità dell’esercizio del potere discrezionale da parte del legislatore della scelta (cfr. ord. n. 459 del 2002, n. 75 e n. 193 del 2003), sicché è opportuno, sia pure in maniera sintetica, illustrare detta problematica e le nozioni su richiamate in uno con quelle dell’adeguatezza e della congruità logica, costituenti sinonimi di un’unica tematica, giacché la già evidenziata manifesta irragionevolezza della soluzione accolta nella questione in esame, relativa alla diversificata competenza in tema di guida in stato di alterazione psico-fisica dovuta all’ingestione di alcolici o di sostanze stupefacenti o psicotrope, derivante dall’esegesi letterale non condivisa, dimostrerebbe l’impossibilità di invocare detta discrezionalità.

Il criterio della ragionevolezza, dell’adeguatezza e della razionalità e logicità della soluzione  legislativa accolta trova il suo referente costituzionale nell’art. 3 Cost., il cui contenuto non è limitato alle valutazioni concernenti trattamenti discriminatori sulla base dei sette elementi enunciati dal primo comma, ma si esprime anche nella diversificazione di trattamenti normativi operata dal legislatore sul presupposto di una differenza oggettiva o soggettiva esistente nelle fattispecie disciplinate, sicché il vizio di legittimità sindacabile ex art. 3 Cost. si configura come vincolo posto alla discrezionalità del legislatore in termini di osservanza della c.d. «razionalità comparativa» tramite un giudizio ternario, basato sull’assunzione di un termine di raffronto rispetto al quale valutare la razionalità della diversificazione attuata dal legislatore.

Tale approdo proprio dei termini dei primi anni di vita della Corte costituzionale trova successive evoluzioni con riferimento alla coerenza interna della legge, riferibile, a sua volta, all’adeguatezza rispetto al fine perseguito o alla congruità rispetto al sistema normativo considerato nel suo complesso o in relazione al singolo «statuto» (ex. gr. quello proprietario) e, poi, con riguardo alla valutazione del ragionevole bilanciamento tra valori ed interessi protetti dalla norma.

La prospettiva del bilanciamento dei valori e la valutazione della razionalità nell’attuare una norma o un principio costituzionali costituiscono un percorso evolutivo da sganciare il criterio della ragionevolezza dal principio di eguaglianza, anche se concorre con quest’ultimo a circoscrivere «le possibili ragionevoli disuguaglianze».

Orbene, alla luce di detta evoluzione, a parere del collegio, appare evidente o comunque plausibile l’impossibilità di ritenere rientrante nella discrezionalità legislativa una così palese ed irrazionale diversificazione del giudice competente in relazione a reati similari.

Esclusa la possibilità di prospettare un’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale in virtù della configurabilità di una razionale e ragionevole discrezionalità legislativa, non sembra potersi far riferimento, neppure, al divieto di analogia in malam partem nella materia penale.

A tal proposito, nonostante la polisemia del dato letterale dell’art. 25 Cost. e l’equivocità delle referenze testuali, l’espressione «in forza di legge», lungi dal ricomprendere anche le norme che disciplinano la modalità con cui è stato esercitato il potere punitivo, sembra riferirsi alla previsione dei reati e del loro regime sanzionatorio.

Peraltro, sebbene l’esercizio della giurisdizione penale si sia emancipato dal ruolo rispetto al diritto sostanziale e la dottrina più accredita ritenga esistente un’osmosi funzionalistica tra questi due rami per la relazione esistente tra diritto penale e processo in modo da considerare in modo unitario il fenomeno punitivo nel suo complesso dell’art. 25 Cost. non sembra attagliarsi ad ogni norma processuale, anche perché non a tutte il principio di irretroattività della norma è applicabile per la difficoltà di individuare in alcuni casi la norma processuale più favorevole per i connotati tipici delle stesse, tese a calibrare reciprocamente doveri e facoltà delle parti, poteri del giudice e beni diritti sacrificati da istituti cautelari, sicché la dottrina e la giurisprudenza consolidate ritengono applicabile il principio diverso tempus regit actus ove non siano state stabilite norme per regolare il regime transitorio.

L’esegesi restrittiva dell’art. 25 secondo comma Cot. E l’elaborazione dottrinale nell’individuazione della materia penale sostanziale sia tramite le note strutturali individuate nel differente tipo di sanzione che presidia il precetto e nei diversi destinatari delle norme sia per mezzo del classico criterio discretivo del difforme oggetto (potestà punitiva ed accertamento in concreto del fatto) comporterebbero già l’impossibilità di riferire il predetto divieto di analogia in malam partem, basato sulla citata norma costituzionale, a questioni attinenti alla competenza.

Del resto la giurisprudenza della Corte costituzionale, in un primo tempo, aveva largamente utilizzato decisioni manipolative, interpretative di rigetto o di accoglimento, o additive per ricondurre nell’alveo della Costituzione norme promulgate in un differente regime (sentenze n. 31 del 1969 sullo sciopero economico; n. 66 del 1970 sull’apologia di reato e n. 15 del 1973 sulla «sedizione»), ma ha, successivamente, riferito il divieto in parola alle sole norme che disciplinano la fattispecie sostanziale, non anche a quelle che attengono, a titolo esemplificativo, a condizioni di procedibilità (sent. n. 449 del 1991 ed ord. n. 178 del 2003), giungendo, pur nell’ambito su individuato, ad ammettere decisioni di illegittimità costituzionale, ove si tratti di correggere un mero errore materiale nella redazione di un testo legislativo (sent. n. 185 del 1992), e, soprattutto, nel caso di norme penali «di favore» (ex. Gr. sent. n. 440 del 1995 in tema di bestemmia) ed. in un caso, a ritenere non praticabile una decisione additiva in senso sfavorevole al reo solo quando la normativa non risulti «palesemente arbitraria» (ord. n. 413 del 1998).

Il richiamo al canone della razionalità contiene un’ulteriore evoluzione della razionalità costituzionale, giacché, in alcune pronunce emblematiche, il divieto in parola si coniuga con la congruità della scelta del legislatore (cfr. ord. n. 317 del 2000 in tema di prescrizioni ed ord. n. 175 del 2001 in relazione al tentativo di reintroduzione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale) o con il contrasto con la linea di politica criminale seguita dal legislatore in occasione di una riforma (ex. Gr. quella tributaria sent. n. 49 del 2002), sicché l’analogia in malam partem è esclusa solo per i precetti penali sostanziali (sent. n. 161 del 2004, in cui la Corte costituzionale per applicare questo divieto inquadra le soglie punibilità contemplate nel reato di cui all’art. 2621 c.c. tra i requisiti essenziali di tipicità del fatto e non fra le condizioni di procedibilità o tra le norme penali di favore).

La problematica del divieto di analogia in malam partem, nella fattispecie in esame, poi potrebbe apparire del tutto irrilevante con riferimento alla disciplina sanzionatoria, perché il reato è stato commesso prima dell’attribuzione della competenza a decidere al tribunale, decorrente dal 13 agosto 2003, in virtù dell’art. 8 della legge di conversione n. 214 del 2003, pubblicata nel supplemento ordinario della G.U. n. 186 del 12 agosto 2003, ma dopo l’entrata in vigore del decreto legge n. 151 del 2003, pubblicata in G.I. n. 149 del 30 giugno 2003).

Infatti, secondo una condivisibile opinione, l’art. 52 secondo comma lett. c) del D. L.vo n. 274 del 2000 ha modificato le pene per i reati di competenza del giudice di pace puniti con l’ammenda e l’arresto in quella pecuniaria delle specie corrispondente alternativa ad altre paradentite, sicché fino all’attribuzione del reato alla competenza del tribunale era applicabile il regime sanzionatorio ed il sistema processuale delineato per il giudice di pace.

Peraltro, secondo quanto si trae dalla pronuncia delle Sezione Unite, che si è occupata della questione attinente alla competenza in tema del reato di guida in stato di ebbrezza alcolica (Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2006, n. 3821, RV 232592), in base alla quale (punto 7) «la competenza del tribunale in ordine alla contravvenzione di guida in stato di ebbrezza» non si trae «esclusivamente dall’aggravamento della pena e» non si può attribuire «alla disposizione di legge che ha modificato l’art. 186 del codice della strada esclusivamente di norma sostanziale», deve ritenersi che la modificazione introdotta dal D.L. n. 151 del 2003 della pena non ha comportato alcuna modificazione della competenza intervenuta solo in seguito alla legge di conversione, nella quale è contenuta espressamente la locuzione «per l’irrogazione della pena è competente il tribunale».

Pertanto, a norma dell’art. 52 secondo comma lett. c) del D.L.vo n. 274 del 2000, contenente disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace in attuazione della legge delega n. 478 del 1999, «quando il reato è punito con la pena della reclusione o dell’arresto congiunta con quella della multa o dell’ammenda, si applica la pena pecuniaria della specie corrispondente… o la pena della permanenza domiciliare… ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità» (c.d. pene paradetentive), è possibile applicare la pregressa disciplina.

Peraltro, secondo uniforme giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. III, 19 maggio 2004, n. 23274, RV 228728) in tema d successione di leggi penali, ai fini dell’individuazione della normativa di favore, per il reo, non si può procedere a una combinazione delle disposizioni più favorevoli della nuova legge con quelle più favorevoli della vecchia, in quanto ciò comporterebbe la creazione di una terza legge, diversa sia da quella abrogata, sia da quella in vigore, ma occorre applicare integralmente quella delle due che, nel suo complesso, risulti, in relazione alla vicenda concreta oggetto di giudizio, più vantaggiosa al reo, mentre, ove il legislatore prevede dopo una legge più rigorosa altra più favorevole e, quindi, renda successivamente il regime sanzionatorio più rigido deve applicarsi la normativa più vantaggiosa (Cass., sez. IV, 20 maggio 2004, n. 23613, RV 228786).

Peraltro, ove si volesse ritenere che, in conformità con i principi generalmente riconosciuti dalla giurisprudenza e dalla dottrina costituzionale, la direttiva in tema di sanzioni, contenuta nell’art. 16 della legge delega n. 468 del 1999, non risulta violata dalla successiva normativa del 2003, sicché è ammissibile prevedere differenti sanzioni sin dal 30 giugno 2003, si verrebbero ad introdurre nel sistema della competenza penale del giudice di pace, sia pure per un periodo di tempo ristretto dal 30 giugno al 12 agosto 2003, reti punibili con pena detentiva a quella pecuniaria in netto contrasto con la stessa ratio sottesa alla funzione di detto magistrato, alcuni dei quali, addirittura, permarrebbero di competenza di detto giudice, sicché sotto questo particolare aspetto, la esegesi costituzionalmente orientata seguita sembra preferibile.

Tuttavia, ove si volesse considerare in base alla tesi da ultimo indicata, immediatamente applicabile, anche dal giudice di pace, a partire dal 30 giugno 2003 le nuove sanzioni, e, quindi, ancora rilevante la questione del divieto di analogia in malam partem e si superassero le altre argomentazioni già illustrate, richiamando, in rapporto alla fattispecie esaminate, una decisione della Consulta (n. 817 del 2005), con la quale è stata dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione al delitto di lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale, punito con le sanzioni previste per i reati di competenza del giudice di pace, in riferimento al medesimo delitto connesso a colpa professionale o commesso in violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro o che abbiano determinato una malattia professionale, per i quali sono applicabili le sanzioni previste dal codice penale, non sembra al collegio che, neppure in questo caso, possa farsi applicazione di detto principio in considerazione della diversità delle due fattispecie.

 Ed invero, nell’ordinanza di remissione il giudice a quo evidenzia che la distribuzione di competenza tra giudice di pace e quello ordinario determinerebbe un’irragionevole diversificazione del trattamento sanzionatorio per condotte che offendono il medesimo bene e possono produrre danni di pari gravità, sicché verrebbe applicata al reato di lesioni colpose commesse con violazione delle norme in materia di circolazione stradale una pena non adeguata alla gravità del fatto e tale da non assolvere alla funzione rieducativa e deterrente e non assicurerebbe in eguale misura la tutela del diritto alla salute, sicché erano richiamati i parametri di cui agli artt. 3, 27 e 32 Cost.

La Corte costituzionale fa rilevare come il giudice a quo non solo non ha indicato quale oggetto del giudizio di costituzionalità la norma fondamentale sulla competenza (art. 4 D. L.vo n. 274 del 2000) sicché un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità degli artt. 52, 63 e 64 D. L.vo cit. determinerebbe il venir meno della sanzione per il delitto di lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla circolazione stradale, creando un vuoto legislativo inspiegabile, ma anche come il rimettente si basi solo sul sistema sanzionatorio, sicché richiama la sua giurisprudenza sull’inammissibilità di una sentenza additiva in malam partem in materia penale in forza del principio della riserva di legge (sentenza n. 161 del 2004 e n. 49 del 2002, n. 30 del 2001, n. 508 del 2000 ed ord. n. 175 del 2001).

Peraltro la Consulta sembra riferirsi a detto divieto per l’erronea individuazione dell’oggetto del giudizio di costituzionalità, sicché non utilizza neppure l’argomentazione dell’Avvocatura, secondo cui la diversità di disciplina, in quel caso, non sarebbe manifestamente irrazionale, tanto più che, propria causa di detto errore, il problema centrale e dirimente è quello della creazione di un vuoto sanzionatorio e dell’inconferenza della questione sollevata.

Pertanto, ad avviso del collegio, individuata la preminenza della problematica processuale inerente l’individuazione del giudice competente, non sarebbe configurabile l’inammissibilità palese della questione di legittimità, sicché, pure sotto questo profilo, indagato in maniera ampia pere la sua rilevanza, l’interpretazione adeguatrice proposta, fondata non solo sul dato letterale, ma su un’esegesi logico-sistematica, teologica e storica, sembra accoglibile.

Pertanto, devono essere annullate senza rinvio le sentenze del giudice di pace e del Tribunale di Rovereto rispettivamente del 28 maggio e del 4 novembre 2004, disponendosi la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rovereto per nuovo giudizio. (Omissis). [RIV-1006P911]

II.

 Giurisprudenza di legittimità
Corte di Cassazione Penale
Sezione I , 3 ottobre 2005, n. 35628

Competenza penale – Competenza per materia - Giudice di pace – Reato di guida sotto l’effetto di sostanza stupefacente – Disciplina introdotta dal D.L. n. 151/03 – Attribuzione al giudice di pace – Sussistenza – Differenza dal reato di guida in stato di ebbrezza di competenza del tribunale. 

Il reato previsto dall’art. 187 del codice della strada (guida in stato di alterazione per uso di alterazione per uso di sostanze stupefacenti) a differenza del reato previsto dall’art. 186 (guida in stato di ebbrezza), anche dopo la modifica introdotta dall’art. 6 D. L. 27 giugno 2003 n. 151, resta attribuito alla competenza per materia del giudice di pace, in quanto il settimo comma del novellato art. 187 richiama l’art. 186escusivamente per la parte relativa all’applicazione delle sanzioni e pertanto l’omessa riferimento alla disposizione attributiva della competenza al tribunale preclude un’interpretazione estensiva.

 
Svolgimento del processo e motivi della decisione.- Con ordinanza del 17 marzo 2004, il Gip del Tribunale di Sant’Angelo dei Lombardi, cui il P.M. aveva richiesto l’emissione di decreto penale di condanna nei confronti di M. e A. N., dichiarava la propria incompetenza per materia a decidere in ordine al reato di cui all’art. 187,

Sabato, 16 Dicembre 2006
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