I. Competenza penale –
Tribunale – Reato di guida in stato di ebbrezza – Attribuzione - Reato di guida
sotto l’effetto di sostanza stupefacenti – Estensione. A seguito
dell’entrata in vigore del D. L. 27 giugno 2003 n. 151, conv. Con modif. in
legge 1 agosto 2003 n. 214, che ha attribuito al tribunale, togliendo al
giudice di pace, la competenza per il reato di guida in stato di ebbrezza, deve
ritenersi attribuita al tribunale anche la competenza per il reato di guida
sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, prevista dall’187 c.s. II. Il reato previsto
dall’art. 187 del codice della strada (guida in stato di alterazione per uso di
alterazione per uso di sostanze stupefacenti) a differenza del reato previsto
dall’art. 186 (guida in stato di ebbrezza), anche dopo la modifica introdotta
dall’art. 6 D. L. 27 giugno 2003 n. 151, resta attribuito alla competenza per
materia del giudice di pace, in quanto il settimo comma del novellato art. 187
richiama l’art. 186escusivamente per la parte relativa all’applicazione delle
sanzioni e pertanto l’omessa riferimento alla disposizione attributiva della
competenza al tribunale preclude un’interpretazione estensiva.
Competenza penale –
Tribunale – Reato di guida in stato di ebbrezza – Attribuzione _ Reato di guida
sotto l’effetto di sostanza stupefacenti – Estensione. A seguito dell’entrata
in vigore del D. L. 27 giugno 2003 n. 151, conv. Con modif. in legge 1 agosto
2003 n. 214, che ha attribuito al tribunale, togliendo al giudice di pace, la
competenza per il reato di
guida in stato di ebbrezza, deve ritenersi attribuita al tribunale anche la
competenza per il reato di guida sotto l’effetto di sostanze stupefacenti,
prevista dall’187 c.s. Svolgimento del processo. – C. C. B. è stato condannato con
sentenza del 28 maggio 2004 dal Giudice di pace di Rovereto alla pena di euro
800,00 di ammenda per il reato di guida in stato di alterazione psico-fisica
dovuta all’ingestione di sostanze stupefacenti. Avverso detta sentenza è stato
proposto appello, deducendo quali motivi la violazione dell’art. 187 c.s.,
giacché non poteva essere sottoposto ad accertamento sanitario, in quanto non
vi era un sinistro, condizione cui è subordinato il predetto al fine di
accertare la presenza di sostanze stupefacenti assunte, la nullità del decreto
di citazione, poiché, in violazione dell’art. 37 D.L.vo n. 274 del 2000, era
stata indicata in maniera erronea la disposizione relativa alla sanzione (comma
quarto dell’art. 187 c.s., riferentesi all’obbligo dell’accertamento sanitario
per il soggetto coinvolto in un incidente stradale, mai verificatosi), la
carenza di motivazione circa la commissione del reato, perché l’esame delle
urine dimostra solo l’assunzione di sostanze stupefacenti, ma non la guida del
veicolo in stato di alterazione, tanto più che la presenza della droga nelle
urine dimostra un0assunzione avvenuta molto tempo prima, giacché è possibile
rintracciare dette sostanze per un periodo molto lungo, mentre l’osservazione
dei carabinieri circa il suo stato di alterazione è vaga, e l’eccessività della
pena. Il Tribunale di Rovereto in data 4
novembre 2004 dichiarava inammissibile l’appello per essere stato proposto
avverso sentenza di condanna a pena
pecuniaria senza che esistesse alcuna condanna impugnata al risarcimento del
danno ed il C. proponeva ricorso avverso dette pronuncia, deducendo quale
motivo la violazione dell’art. 568 c.p.p., poiché non vi era proceduto
l’impugnazione a trasmetter l’impugnazione al giudice competente per la sua
decisione. Motivi
della decisione. –
Assume valore assorbente non dedotta dal ricorrente, ma rilevabile ex officio in
ogni stato e grado del giudizio ex art. 21 c.p.p., l’incompetenza per materia
del giudice di pace. Infatti, la competenza per
materia, in virtù dei principi tempus
regit actum e perpetuatio jurisdictionis, va determinata, in assenza di
norme transitorie, al momento in cui il P.M. esercita l’azione (cfr. ex
plurimis Cass., sez I, 25 marzo 2005, n. 12148, RV 231844 e Cass., sez. I, 19
luglio 2005, n. 26787, RV 231845 in termini), sicché, poiché il decreto di
citazione è stato emesso in epoca successiva all’entrata in vigore della legge
n. 214 del 2003 (13 agosto 2003) e precisamente il 6 febbraio 2004, la
competenza a decidere spetta al tribunale, anche per il reato contestato. A tal riguardo non ignora il
collegio il recente orientamento della prima sezione penale di questa Corte in
sede di risoluzione di un conflitto di competenza (Cass., sez. I, 3 ottobre
2005 n. 35628), secondo cui competenza a decidere sarebbe il giudice di pace,
in quanto il novellato art. 187 c.s. richiama il precedente articolo esclusivamente
per la parte relativa all’applicazione della sanzioni ed al traino del veicolo
fino al luogo indicato dall’interessato
o fino alla più vicina autorimessa (art. 186 secondo comma ultimo periodo
c.s.). Tuttavia, detta esegesi
eccessivamente legata alla lettera della norma, non sembra condivisibile, ove
si consideri l’obbligo del giudice di prescegliere tra due interpretazioni in
astratto possibile quella che fa escludere ogni dubbio di costituzionalità. Infatti, a parte il riferimento
alle sanzioni dell’art. 186 comma 2 c.s., non può sottacersi che la stessa
novella, operata con D.L. n. 151 del 2003, convertito in legge n. 214 del 2003,
al richiamato precetto nel suo secondo comma dopo aver descritto la fattispecie
della guida in stato di ebbrezza aggiunge la pena, individuata nell’arresto
fino ad un mese e nell’ammenda da euro 258,00 ad euro 1.032,00 e subito dopo
stabilisce dopo stabilisce che «per l’irrogazione della pena è competente il
tribunale» con norma aggiunta dalla legge di conversione, dopo che il relatore
aveva ritenuto ultronea detta specificazione, poiché era stata «ripristinata»
la pena congiunta dell’ammenda e dell’arresto, la cui applicazione era
sottratta al giudice di pace. Pertanto, il riferimento alle
«sanzioni dell’art. 186 comma 2» potrebbe dimostrare o un collegamento
sostanziale tra competenza e modificazioni della pena ovvero una più includere
pure l’organo competente, indicato subito dopo i limiti edittali della pena congiunta, modificata
dal decreto legge n. 151 del 2003 per entrambi i reati. Infatti, per quanto concerne il
primo argomento (cfr. Cass., sez. IV, 5 ottobre 2004, PG. in proc. Granelli e
Cass., sez. IV, 29 settembre 2004, PG. In proc. Simeoni), potrebbe sostenersi
che la competenza appare mutata in via indiretta in seguito all’inasprimento
del regime sanzionatorio, onde pure sotto questo profilo, sussiste la
competenza del tribunale (Cass., sez. I, 21 novembre 1994, n. 4419, confl. Comp
Gup e Pret. Savona in proc. Bocca, RV 199657 cui adde Cass., sez. I, confl. Comp. Gip e Pret. Marsala in proc
Scandagliato, RV 201274), giacchè l’ultima connessione esistente tra regime
sanzionatorio e competenza giustifica il mutamento di quest’ultima. Tuttavia, detta impostazione,
seguita sia per il delitto di usura sia quello di abuso di ufficio, è stata
espressamente disattesa dalla recente decisione delle Sezioni Unite proprio in
tema di competenza a giudicare del reato di guida in stato di ebbrezza (31
gennaio 2006 n. 3821), sicché non appare utilizzabile, anche se non tiene conto
delle molte imprecisioni del legislatore. Peraltro, non può negarsi che
tutto il trend legislativo di questa fine di legislatura è caratterizzato da un
maggior rigore in genere sull’uso di sostanze stupefacenti, sicché sembrerebbe
eccentrica ed ingiustificata la previsione di un regime sanzionatorio e di una
disciplina per la guida in stato di ebbrezza e di alterazione da sostanze
psicotrope e stupefacenti. Non sembra neppure richiamabile
una nota ordinanza della Corte costituzionale (n. 277 del 2004), con la quale
si sono giustificate le differenti modalità tecniche di accertamento dei due
reati suddetti sulla base del necessario riscontro con analisi di laboratorio
alla luce delle attuali conoscenze tecnico-scientifiche, introducendo una prova
legale per la contravvenzione ex art. 187 c.s., giacché nella medesima
ordinanza non solo si assume la concretizzazione di una condotta di pericolo
per la circolazione nella guida di un veicolo sotto l’effetto di sostanze
stupefacenti, ma anche si esclude ogni rilevazione al dato quantitativo,
rilevante invece per la guida in stato di ebbrezza, anche se ora sfumato ad
appena 0,5 gr. Inoltre proprio l’innovativa norma
su indicata ha richiesto l’obbligatoria accertamento anche per la guida di un
veicolo sotto l’effetto dell’ingestione di sostanze alcoliche, sicché sembrano
ulteriormente ridursi le caratteristiche differenziali dei due reati (cfr.
circolare 29 dicembre 2005 n. 300/A1/42175/109/45 del Ministero dell’interno,
che afferma la competenza del giudice di pace), mentre il pericolo per la
circolazione e la possibilità di incidenti derivanti da dette situazioni ha
indotto il legislatore a prevedere, in entrambi i reati, il traino del veicolo
nel luogo indicato dall’interessato o fino alla più vicina autorimessa, sicché
l’equiparazione tra le due situazioni
appare sempre più pregnante con un’eguale rilevanza dell’alterazione
psicofisica. Pertanto, ad avviso del collegio,
una differente competenza a giudicare detti due reati, comportando una
diversità del giudice competente ed in conseguenza di ciò una difformità del
regime sanzionatorio e/o della disciplina processuale molto marcata farebbe sorgere non infondati
dubbi di costituzionalità in relazione al principio di ragionevolezza e di
eguaglianza, sicché deve prediligersi un’esegesi ampia del richiamo al secondo
comma dell’art. 186 c.s. contenuta nell’art. 187 settimo comma c.s., includendo
non solo il riferimento al regime sanzionatorio in senso stretto, ma anche
all’argano competente all’«irrogazione della pena». Peraltro, l’analisi ermeneutica
non condivisa in ordine all’attribuzione della competenza a decidere sui reati
di cui all’art. 187 c.s. al giudice di pace è costretta a forzare lo stesso
dato letterale degli artt. 5 e 6 del decreto legge n. 151 del 2003 convertito in legge n. 214
del 2003, su cui fonda la sua interpretazione, in quanto non considera alcune
analogie testuali e dimenticanze legislative. Infatti, l’art. 4 primo comma
lett. q) D.L.vo n. 274 del 2000, a differenza di quanto avvenuto in base
all’art. 3 della legge n. 72 del 2003, che, nel riattribuire al tribunale la
competenza a giudicare per il reato di cui all’art. 189 sesto comma c.s., aveva
espressamente espunto dalla citata lettera il riferimento al predetto precetto,
non ha attuato una simile modifica. Perciò, volendo attenersi alla
lettera della legge e seguendo la tesi di uno studiosi e di qualche giudice di
merito, dovrebbe sostenersi che solo la contravvenzione, contemplata al secondo
comma dell’art. 186 c.s. è stata sottratta alla competenza del giudice di pace,
giacché la lettera q) dell’art. 4 D.L.vo cit. è rimasta immutata, sicché la
modifica della competenza intervenuta con la legge di conversione ha
determinato un’abrogazione implicita da parte della su riferita disposizione
solo in relazione alla contravvenzione di guida in stato di ebbrezza. Ed invero, per sostenere
l’estensione di detta competenza anche
al reato di rifiuto di sottoporsi all’alcoltest, autonomo rispetto a quello di
guida in stato di ebbrezza per i differenti interessi tutelati (pubblica
incolumità per quest’ultimo e rispetto della normativa e dei poteri dello Stato
nell’altro cioè in senso ristrettivi sicurezza pubblica)(cfr. Cass., sez. IV, 2
luglio 1997, n. 6355, RV 028222), occorrerebbe sostenere che, come sembra
faccia la pronuncia non condivisa, l’intervenuto spostamento della contravvenzione
di rifiuto a sottoporsi ad alcoltest dal sesto al settimo comma dell’art. 186
c.s. determinerebbe l’abrogazione pure dell’indicazione effettuata dalla
predetta lettera q) dell’art. 4 D. L.vo cit. al sesto comma dell’art. 186 c.s.,
perché ormai incongrua con un ulteriore legame alla lettera della legge senza
considerare come, molto spesso, la mutata collocazione di una norma, rimasta
immutata, non abbia comportato la modificazione del regime processuale e
sostanziale. Tuttavia, una simile impostazione
dovrebbe comportare anche l’abrogazione di tutta la lettera q) della norma in
esame, poiché è mutata pure la collocazione normativa dei reati contemplati
dall’art. 187 c.s. cioè guida sotto l’influenza di sostanze stupefacenti o
psicotrope e rifiuto di sottoporsi agli accertamenti sanitari ivi previsti,
giacché le condotte, prima contemplate ai richiamati quarto e quinto comma
dell’art. 187 c.c., sono state allocate al sesto ed al settimo comma di detta
ultima disposizione, sicché la medesima argomentazione utilizzata per ritenere
modificata la competenza a decidere in ordine al reato di rifiuto di sottoporsi
ad alcoltest potrebbe essere utilizzata per quelli inclusi nell’art. 187 cit.,
altrimenti, gli stessi sarebbe sottratti, in maniera del tutto irrazionale,
alla decisione di qualsiasi giudice in conseguenza del «vuoto» legislativo
determinatosi a causa della poca attenta formulazione delle complessive
modifiche. Inoltre, questa esegesi testuale,
ponendosi sul medesimo criterio utilizzato dalla pronuncia non condivisa,
giustifica l’attribuzione della competenza a decidere su detti reati al
tribunale. Pertanto, sotto il profilo logico
ed uniformandosi all’angolo visuale dell’analisi ermeneutica condotta dagli
orientamenti dottrinali e giurisprudenziali, tesi ad un’interpretazione ad litteram, contrasta, nelle sue
affermazioni generali, dalla migliore dottrina e dalla più attenta giurisprudenza,
appare più convincente la conclusione di chi ritiene permanere la competenza
del giudice di pace pure per il reato di rifiuto di sottoporsi all’alcoltest. Infatti, solo la guida in stato di
ebbrezza alcolica è stata espressamente attribuita alla competenza del
tribunale e per tutti gli altri reati in parola è utilizzata la medesima
locuzione «(il conducente è) punito, salvo che (ove) il fatto non costituisca
più grave reato, con le sanzioni di cui al comma secondo» (art. 186 settimo
comma, art. 187 settimo ed ottavo comma c.s.), anche se per la guida in
condizioni di alterazione fisica e psicotrope è aggiunto il riferimento alle
«disposizioni del comma 2, ultimo periodo, dell’art. 186», sicché non è
possibile attribuire all’identico ristagna «con le sanzioni di cui al comma 2»
una differente valenza ai fini di individuare il giudice competente. Tuttavia, una simile soluzione
ermeneutica aggiunge incongruenza ad altra, poiché determina una differente
competenza con diversificazione del sistema processuale e sanzionatorio per un
reato (il rifiuto di sottoporsi all’alcoltest ed agli accertamenti, contemplati
dal secondo, terzo e quarto comma dell’art. 186 c.s.), che, seppure autonomo
rispetto alla guida in stato di ebbrezza alcolica, è con questo funzionalmente
e strumentalmente collegato e riguarda la medesima situazione. Tale aporia non può essere risolta
neppure ricorrendo all’istituto della competenza per connessione eterogenea
cioè dinanzi a giudici ordinari diversi, poiché l’art. 6 D.L.vo n. 274 del 2000
fornisce una nozione riduttiva di detto criterio, limitando soltanto al caso
«di persona imputata di più reati commessi con una sola azione o omissione»
(primo comma) (c.d. concorso formale di reati) e disponendo l’attrazione dei
procedimenti al giudice superiore in detta ipotesi (secondo comma), purché sia possibile e non
discrezionale la riunione dei procedimenti, in modo da escludere, con un’interpretazione
adeguatrice, possibili dubbi di legittimità costituzionale per violazione
dell’art. 25 Cost. sul giudice naturale precostituito per legge, e la
competenza per l’altro non sia di un giudice speciale (ex. Gr. Tribunale per i
minorenni o tribunale militare). Una simile normativa della
connessione c.d. eterogenea, limitata alle sole ipotesi di concorso formale di
reati soltanto ai procedimenti, in cui è possibile la riunione e non sussista
la competenza di un giudice speciale, esalta la specialità della giurisprudenza
del giudice di pace, secondo quanto afferma la stessa Relazione governativa,
giacché la sua finalità conciliativa, orientata più a promuovere condotte
socialmente utili che a reprimere ed a stabilire sanzioni, è caratterizzata
dalla singolarità delle sanzioni che ne costituiscono l’oggetto e dalla
particolarità delle soluzioni procedurali, sicché appare giustificata detta
competenza quasi esclusiva. La soluzione legislativa trova
ulteriore conferma nell’art. 48 D. L.vo n. 274 del 2000, in cui, in qualsiasi
stato e grado del giudizio, se il giudice ritiene che il reato appartenga alla
competenza del giudice di pace, dichiara con sentenza la propria incompetenza
con i provvedimenti consequenziali, purché non sia ravvisabile l’unica ipotesi
di connessione di cui all’art. 6 D.L.vo cit., sicché si è voluto anche evitare
il rischio che procedimenti riguardanti «reati minori» di più facile
definizione subiscano le vicissitudini di quelli di maggiore gravità e di più
difficile accertamento e che i procedimenti di competenza del giudice di pace
diminuiscono per l’applicazione dell’istituto della connessione, modulato in
materia diversa da quella contemplata dal codice di rito. Queste osservazioni sulla peculiarità
della giurisdizione del giudice di pace e della disciplina predisposta in tema
di connessione eterogenea di procedimenti dimostrano come appaia, pure sotto
questo aspetto, non molto razionale ed in contrasto con il sistema predisposto
l’applicazione di pene congiunte dell’ammenda e dell’arresto da parte del
giudice di pace, giacché la guida in stato di ebbrezza alcolica ed il rifiuto
degli accertamenti previsti ai commi 2, 3 o 4 dell’art. 186 e dall’art. 187
c.s. non sono commessi con una sola azione, mentre il concorso formale dei
reati di guida in stato di ebbrezza alcolica e di quella in stato di
alterazione psico-fisica dovuta all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope,
raramente possibile, ove si accedesse all’esegesi non condivisa, determinerebbe
l’attrazione del procedimento per questi soli reati alla competenza del
tribunale, comportando disomogeneità del complesso normativo. Pertanto, anche sotto questi ulteriori
profili, è possibile una differente lettura della norma attributiva della
competenza del tribunale a giudicare dei reati di cui agli artt. 186 e 187 c.s. L’esegesi avanzata in sede di
interpretazione costituzionalmente orientata non può, poi, a parere del
collegio, essere esclusa dalla prospettazione di un’eventuale dichiarazione
d’inammissibilità della questione costituzionale da parte della Corte costituzionale,
in quanto si verrebbe a proporre un dubbio di costituzionalità risolvibile con
una consentita analogia in malam partem
in sede penale oppure si invaderebbe il campo riservato alla discrezionalità legislativa. A tal riguardo, un’analisi
approfondita con riferimenti alla giurisprudenza costituzionale ed ai principi
ed alle implicazioni sottesi a dette tipologie di decisioni ed alla necessità
dell’interpretazione adeguatrice ed ai suoi determinerebbe uno studio
monografico ed trattazione ed una tematiche ampie con le differenti teorie
dottrinali e con diversi approdi della Corte costituzionale tali da esulare da
una pronuncia giurisdizionale, sicché si daranno per presupposte molte
problematiche, alcune saranno solamente accennate con l’indicazione della
soluzione accolta ed altre verranno svolte solo nei limiti in cui interessano
l’argomento trattato, soffermandoci maggiormente ad illustrare le diverse tesi
dottrinali in relazione alla giurisprudenza costituzionale, il cui evolversi
verrà, a volte, sinteticamente posto in luce. I principi della completezza
dell’ordinamento e della norma esclusiva implicata, di ragionevolezza e di
bilanciamento degli interessi e le problematiche dei rapporti tra giudice delle
leggi e quelli ordinari e tra questi ed il legislatore, dell’esegesi diretta da
parte del giudice ordinario, attraverso i suoi poteri ermeneutici, della norma
costituzionale e dei poteri della Corte costituzionale sono sottesi alla
tematica dell’interpretazione adeguatrice e fondano la sua necessità. La Corte costituzionale ritiene
che, una volta correttamente individuata la norma denunciabile, verificati i
requisiti di astratta sindacabilità della questione di legittimità
costituzionale tramite l’accertamento della rilevanza e della non manifesta
infondatezza e indicati i parametri di costituzionalità in ipotesi configgenti
con la norma da applicare al caso concreto, il giudice ordinario, prima di
investire la Corte costituzionale dell’esame della relativa questione, non possa
sottrarsi ad un ulteriore necessario, preliminare ed indefettibile adempimento,
che è quello di verificare se la norma stessa non sia suscettibile, tra quelle
possibile, di un’interpretazione conferme alla Costituzione, giacché, in questo
caso, il giudice è tenuto ad operare quella interpretazione costituzionalmente
adeguata, conformando direttamente la norma ai principi della Carta
fondamentale, «attraverso una sorta di controllo diffuso di costituzionalità di
primo livello», secondo quanto affermato da acuta dottrina, ormai pressoché
unanime. In questa prospettiva la
dichiarazione di inammissibilità della questione diventa lo strumento con cui
la Corte costituzionale sanziona l’omessa tentativo di interpretazione «adeguatrice»
tale da non essere limitata all’assegnare la prevalenza, tra più alternative ermeneutiche,
a quella conforme a Costituzione, ma da ricomprendere la possibilità di
riformulare alla luce dei principi costituzionali il contenuto di norme che, in
origine, ne erano assai distanti. L’interpretazione adeguatrice,
contrariamente a quanto paventato da una parte della dottrina, legata ancora
alla vecchia concezione del «giudice ordinario “apriporta” del giudizio
incidentale», non determina alcuna forma indebita di esercizio di «discrezionalità
politica» e di giurisprudenza «creativa», in quanto non è praticabile a
discrezione del giudice e trova alcuni
limiti quali l’esistenza di possibili letture alternative della norma, non
legate più al dato lessicale polisenso (cfr. Corte cost. ord. N. 89 el 2002 ed
ord. N. 198 del 2003, nella quale ultima espressamente si legge che «una
interpretazione meramente letterale… condurrebbe ad un sicuro conflitto con …
la nostra Costituzione… ma… eventuali residue incertezze sono destinate dissolversi una volta che sia adottato quale
canone ermeneutico preminente, il principio di supremazia costituzionale che
impone all’interprete di optare, fra più soluzioni astrattamente possibili, per
quella che rende la disposizione conforme a Costituzione») e l’obbligo di
addivenire a detta esegesi costituzionalmente orientata senza coinvolgere la
Corte costituzionale nel circolo dell’interpretazione giudiziaria riservata al
giudice ordinario in una delimitazione dei compiti e dei ruoli attribuiti dalla
Carta. Un ulteriore limite
all’interpretazione adeguatrice è dato rinvenire nella dottrina del diritto
vivente, venutasi a formare verso la fine degli anni sessanta (vedi ord. N. 314
del 1999) per risolvere contrasti insorti con il giudice di legittimità sede
penale alla fine degli anni sessanta, secondo cui una giurisprudenza, orientata
in modo univoco e costante, non contrasta dalla Corte di cassazione, determina
un «diritto vivente», cui il giudice deve prestare ossequio o sollevare la
questione di legittimità, qualora ritenga la norma, così interpretata,
contrastante con parametri costituzionali, sicché l’insussistenza di questo per
l’esistenza di contrasti giurisprudenziali nell’ermeneusi della norma (ord. N.
57 del 2000) o per la recente formulazione della disposizione legittima una
tale interpretazione «adeguatrice» (ord. N. 89 del 2002), purché l’esegesi
proposta dal giudice a quo non sia poco «persuasiva» o «implausibile» alla stregua
della medesima legislazione ordinaria interpretata (cfr. fra le tante ord. nn.
453 del 2000 e 295 del 2001), costituente un ulteriore limite alla predetta. Tuttavia, di recente, la Corte
costituzionale, ricongiungendosi ad un altro indirizzo, risalente nel tempo, ma
ancora ripreso (ord. n. 233 del 2000) sull’inammissibilità delle questioni di
legittimità costituzionale «meramente interpretative» ed avvalorando quello sempre
presente, che esclude l’ammissibilità di quelle proposte con esegesi formulate
in termini «perplessi» (ord. n. 7 del 2000) ha sostenuto che «non è precluso al
giudice di pervenire ad una lettura secundum
Costitutionem anche in presenza di un orientamento giurisprudenziale
univoco» (ord. n. 3 del 2002, ma ord. n. 336 del 2002 dichiara solo la
manifesta infondatezza della questione e non l’inammissibilità, perché il
giudice a quo si è attenuto ad un’interpretazione consolidata in termini di
diritto vivente), giacché «le leggi non si dichiarano costituzionalmente
illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali, ma
perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali» (sent. n. 356 del
1996, che ha ulteriormente precisato i principi da seguire in tema di
interpretazione adeguatrice). Peraltro, questo indirizzo
giurisprudenziale, che esalta il ruolo del giudice ed il suo obbligo di
pervenire ad un’interpretazione della legge conforme alla Costituzione, pur in
presenza di un diritto vivente contrario, per l’affermata autonomia del giudice
e del controllo diffuso di costituzionalità (ord. nn. 158 del 2000 e 367 del
2001) e che si pone in linea con l’altro, secondo cui non assume carattere
vincolante l’esegesi della Cassazione ai fini della definizione dell’oggetto
del giudizio di costituzionalità, dovrà essere rivisto alla luce del D. L.vo n.
40 del 2006, con cui è stata dettata una nuova disciplina del giudizio per
cassazione in sede civile, potenziando la funzione nomofilattica della Corte ed
attribuendo più forza al dictum delle
Sezione Unite. Pertanto, ove si accedesse ad una
considerazione molto rigorosa dell’obbligo di interpretazione adeguatrice,
preliminare a qualsiasi altra indagine, escluso l’esame dei requisiti di
astratta sindacabilità della norma, ivi compresa la sua natura legislativa,
sarebbe inutile discutere su un’eventuale inammissibilità della questione di
legittimità, perché propone una «analogia in
malam partem» non consentita o contrasta con la discrezionalità del
legislatore. Tuttavia, ove si volesse includere
tra i compiti del giudice a quo quello di saggiare eventuali inammissibilità
della questione da sollevare ovvero, con maggiore aderenza agli stessi
presupposti dell’interpretazione adeguatrice, la necessità che questa si
conformi a tutti i precetti costituzionali e quindi anche al principio di
legalità ed al rispetto della divisione dei poteri delineato dalla carta
fondamentale, fondanti il divieto di analogia in malam partem in materia penale e l’insindacabilità delle
disposizioni espressione della discrezionalità legislativa non sembra, alla
luce della dottrina prevalente e della giurisprudenza costituzionale, potersi
prospettare detta inammissibilità. Ed invero, per quanto attiene al
limite della considerazione della discrezionalità legislativa, rilevato come si
tratti in un tema a schema aperto, indocile a lasciarsi inquadrare entro moduli
stabilmente conformativi, secondo quanto risulta dalle differenti tipologie di
decisioni adottate dalla Corte costituzionale da quelle di inammissibilità a
quelle di rigetto, da quelle di accoglimento alle altre manipolative, additive
ed interpretative di rigetto o di accoglimento, la nozione stessa di
discrezionalità legislative assume un duplice significato tale da influenzare
l’elaborazione giurisprudenziale della Consulta. Infatti, in un primo senso, il
concetto di discrezionalità legislativa si riferisce all’attività finalizzata
al perseguimento degli obiettivi fissati nei principi costituzionali o in norme
interposte, sicché, essendo l’attività del legislatore ancorata al
perseguimento di determinati fini, il sindacato di legittimità si svolge
secondo gli schemi del vizio di accesso di potere, mentre, in base ad una
diversa ricostruzione, la predetta discrezionalità si atteggia come libertà di
determinazione del legislatore sul fondamento di «valutazioni di opportunità
del tutto insuscettibili di essere verificate sotto il profilo della loro
conformità ai precetti costituzionali», seguendo la teoria di un Chiaro Autore. Il polisenso significato della
nozione di discrezionalità legislativa si riflette sull’eterogeneità delle
argomentazioni, poste a base delle ordinanze di inammissibilità, spesso
collegate alla specialità delle situazioni esaminate o alla necessaria
flessibilità della decisione per evitare «vuoti normativi». Perciò vi sono ordinanze di
inammissibilità in cui si afferma o la tendenziale incostituzionalità della
norma, suscettibile di una molteplicità di diverse scelte (ex. Gr. N. 133 e n.
270 del 1993), riservate al legislatore, o l’esistenza di valori fondamentali
diversi, insuscettibili di realizzarsi congiuntamente, sicché è il legislatore
l’unico organo deputato ad attuare detto contemperamento, altre volte, invece, effettuato
dalla stessa Corte (ord. n. 235 del 1993) oppure si ritiene di formulare un
monito al legislatore affinché provveda con una disciplina adeguata. Non interessa soffermarsi in
maniera approfondita sulle varie tipologie delle ordinanze di inammissibilità
che precludono l’esame nel merito della questione di legittimità costituzionale
per la sua insindacabilità per essere la norma esercizio di potestà
discrezionale legislativa, notando soltanto che accanto a decisione basate solo
sull’affermazione di detta preclusione senza ulteriori specificazioni (ex. Gr.
Nn. 111 e 335 del 1996) ve ne sono altre in cui l’inammissibilità consegue alla
pluralità di soluzioni diverse, la cui scelta incombe sul legislatore,
comportando un bilanciamento di interessi (cfr. ord. n. 377 del 1994) senza che
nessuna sia costituzionalmente imposta (cfr. ord. nn. 51 e 94 del 1997 e n. 12
del 1998) ovvero senza una possibile soluzione esegetica (sent. n. 183 del
2000) ed altre ancora nelle quali la scelta legislativa è ritenuta non
arbitraria o ragionevole in generale (ex. Gr. N. 272 del 1994 e n. 298 del 1995)
oppure perché si è in presenza di situazioni disomogenee (ex. Gr. N. 102 del
1998) o perché non è individuato o è stato erroneamente indicato il tertium comparationis (ord. n. 386 del
1997). Il limite all’insindacabilità
dell’esercizio del potere discrezionale da parte del legislatore della scelta
(cfr. ord. n. 459 del 2002, n. 75 e n. 193 del 2003), sicché è opportuno, sia
pure in maniera sintetica, illustrare detta problematica e le nozioni su
richiamate in uno con quelle dell’adeguatezza e della congruità logica,
costituenti sinonimi di un’unica tematica, giacché la già evidenziata manifesta
irragionevolezza della soluzione accolta nella questione in esame, relativa
alla diversificata competenza in tema di guida in stato di alterazione
psico-fisica dovuta all’ingestione di alcolici o di sostanze stupefacenti o
psicotrope, derivante dall’esegesi letterale non condivisa, dimostrerebbe
l’impossibilità di invocare detta discrezionalità. Il criterio della ragionevolezza,
dell’adeguatezza e della razionalità e logicità della soluzione legislativa accolta trova il suo referente
costituzionale nell’art. 3 Cost., il cui contenuto non è limitato alle
valutazioni concernenti trattamenti discriminatori sulla base dei sette
elementi enunciati dal primo comma, ma si esprime anche nella diversificazione
di trattamenti normativi operata dal legislatore sul presupposto di una
differenza oggettiva o soggettiva esistente nelle fattispecie disciplinate,
sicché il vizio di legittimità sindacabile ex art. 3 Cost. si configura come
vincolo posto alla discrezionalità del legislatore in termini di osservanza
della c.d. «razionalità comparativa» tramite un giudizio ternario, basato
sull’assunzione di un termine di raffronto rispetto al quale valutare la
razionalità della diversificazione attuata dal legislatore. Tale approdo proprio dei termini
dei primi anni di vita della Corte costituzionale trova successive evoluzioni
con riferimento alla coerenza interna della legge, riferibile, a sua volta,
all’adeguatezza rispetto al fine perseguito o alla congruità rispetto al
sistema normativo considerato nel suo complesso o in relazione al singolo «statuto»
(ex. gr. quello proprietario) e, poi, con riguardo alla valutazione del
ragionevole bilanciamento tra valori ed interessi protetti dalla norma. La prospettiva del bilanciamento
dei valori e la valutazione della razionalità nell’attuare una norma o un
principio costituzionali costituiscono un percorso evolutivo da sganciare il
criterio della ragionevolezza dal principio di eguaglianza, anche se concorre
con quest’ultimo a circoscrivere «le possibili ragionevoli disuguaglianze». Orbene, alla luce di detta
evoluzione, a parere del collegio, appare evidente o comunque plausibile
l’impossibilità di ritenere rientrante nella discrezionalità legislativa una
così palese ed irrazionale diversificazione del giudice competente in relazione
a reati similari. Esclusa la possibilità di
prospettare un’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale in
virtù della configurabilità di una razionale e ragionevole discrezionalità
legislativa, non sembra potersi far riferimento, neppure, al divieto di
analogia in malam partem nella
materia penale. A tal proposito, nonostante la
polisemia del dato letterale dell’art. 25 Cost. e l’equivocità delle referenze
testuali, l’espressione «in forza di legge», lungi dal ricomprendere anche le
norme che disciplinano la modalità con cui è stato esercitato il potere
punitivo, sembra riferirsi alla previsione dei reati e del loro regime
sanzionatorio. Peraltro, sebbene l’esercizio
della giurisdizione penale si sia emancipato dal ruolo rispetto al diritto
sostanziale e la dottrina più accredita ritenga esistente un’osmosi
funzionalistica tra questi due rami per la relazione esistente tra diritto
penale e processo in modo da considerare in modo unitario il fenomeno punitivo
nel suo complesso dell’art. 25 Cost. non sembra attagliarsi ad ogni norma
processuale, anche perché non a tutte il principio di irretroattività della
norma è applicabile per la difficoltà di individuare in alcuni casi la norma
processuale più favorevole per i connotati tipici delle stesse, tese a
calibrare reciprocamente doveri e facoltà delle parti, poteri del giudice e
beni diritti sacrificati da istituti cautelari, sicché la dottrina e la giurisprudenza
consolidate ritengono applicabile il principio diverso tempus regit actus ove non siano state stabilite norme per regolare
il regime transitorio. L’esegesi restrittiva dell’art. 25
secondo comma Cot. E l’elaborazione dottrinale nell’individuazione della
materia penale sostanziale sia tramite le note strutturali individuate nel
differente tipo di sanzione che presidia il precetto e nei diversi destinatari
delle norme sia per mezzo del classico criterio discretivo del difforme oggetto
(potestà punitiva ed accertamento in concreto del fatto) comporterebbero già
l’impossibilità di riferire il predetto divieto di analogia in malam partem,
basato sulla citata norma costituzionale, a questioni attinenti alla
competenza. Del resto la giurisprudenza della
Corte costituzionale, in un primo tempo, aveva largamente utilizzato decisioni
manipolative, interpretative di rigetto o di accoglimento, o additive per
ricondurre nell’alveo della Costituzione norme promulgate in un differente
regime (sentenze n. 31 del 1969 sullo sciopero economico; n. 66 del 1970
sull’apologia di reato e n. 15 del 1973 sulla «sedizione»), ma ha,
successivamente, riferito il divieto in parola alle sole norme che disciplinano
la fattispecie sostanziale, non anche a quelle che attengono, a titolo
esemplificativo, a condizioni di procedibilità (sent. n. 449 del 1991 ed ord.
n. 178 del 2003), giungendo, pur nell’ambito su individuato, ad ammettere
decisioni di illegittimità costituzionale, ove si tratti di correggere un mero
errore materiale nella redazione di un testo legislativo (sent. n. 185 del
1992), e, soprattutto, nel caso di norme penali «di favore» (ex. Gr. sent. n.
440 del 1995 in tema di bestemmia) ed. in un caso, a ritenere non praticabile
una decisione additiva in senso sfavorevole al reo solo quando la normativa non
risulti «palesemente arbitraria» (ord. n. 413 del 1998). Il richiamo al canone della
razionalità contiene un’ulteriore evoluzione della razionalità costituzionale,
giacché, in alcune pronunce emblematiche, il divieto in parola si coniuga con
la congruità della scelta del legislatore (cfr. ord. n. 317 del 2000 in tema di
prescrizioni ed ord. n. 175 del 2001 in relazione al tentativo di
reintroduzione del delitto di oltraggio a pubblico ufficiale) o con il
contrasto con la linea di politica criminale seguita dal legislatore in
occasione di una riforma (ex. Gr. quella tributaria sent. n. 49 del 2002),
sicché l’analogia in malam partem è
esclusa solo per i precetti penali sostanziali (sent. n. 161 del 2004, in cui
la Corte costituzionale per applicare questo divieto inquadra le soglie
punibilità contemplate nel reato di cui all’art. 2621 c.c. tra i requisiti
essenziali di tipicità del fatto e non fra le condizioni di procedibilità o tra
le norme penali di favore). La problematica del divieto di
analogia in malam partem, nella
fattispecie in esame, poi potrebbe apparire del tutto irrilevante con
riferimento alla disciplina sanzionatoria, perché il reato è stato commesso
prima dell’attribuzione della competenza a decidere al tribunale, decorrente
dal 13 agosto 2003, in virtù dell’art. 8 della legge di conversione n. 214 del
2003, pubblicata nel supplemento ordinario della G.U. n. 186 del 12 agosto
2003, ma dopo l’entrata in vigore del decreto legge n. 151 del 2003, pubblicata
in G.I. n. 149 del 30 giugno 2003). Infatti, secondo una condivisibile
opinione, l’art. 52 secondo comma lett. c) del D. L.vo n. 274 del 2000 ha
modificato le pene per i reati di competenza del giudice di pace puniti con
l’ammenda e l’arresto in quella pecuniaria delle specie corrispondente
alternativa ad altre paradentite, sicché fino all’attribuzione del reato alla
competenza del tribunale era applicabile il regime sanzionatorio ed il sistema
processuale delineato per il giudice di pace. Peraltro, secondo quanto si trae
dalla pronuncia delle Sezione Unite, che si è occupata della questione
attinente alla competenza in tema del reato di guida in stato di ebbrezza
alcolica (Cass., Sez. Un., 31 gennaio 2006, n. 3821, RV 232592), in base alla
quale (punto 7) «la competenza del tribunale in ordine alla contravvenzione di
guida in stato di ebbrezza» non si trae «esclusivamente dall’aggravamento della
pena e» non si può attribuire «alla disposizione di legge che ha modificato
l’art. 186 del codice della strada esclusivamente di norma sostanziale», deve
ritenersi che la modificazione introdotta dal D.L. n. 151 del 2003 della pena
non ha comportato alcuna modificazione della competenza intervenuta solo in
seguito alla legge di conversione, nella quale è contenuta espressamente la
locuzione «per l’irrogazione della pena è competente il tribunale». Pertanto, a norma dell’art. 52
secondo comma lett. c) del D.L.vo n. 274 del 2000, contenente disposizioni
sulla competenza penale del giudice di pace in attuazione della legge delega n.
478 del 1999, «quando il reato è punito con la pena della reclusione o
dell’arresto congiunta con quella della multa o dell’ammenda, si applica la
pena pecuniaria della specie corrispondente… o la pena della permanenza
domiciliare… ovvero la pena del lavoro di pubblica utilità» (c.d. pene
paradetentive), è possibile applicare la pregressa disciplina. Peraltro, secondo uniforme
giurisprudenza di questa Corte (Cass., sez. III, 19 maggio 2004, n. 23274, RV
228728) in tema d successione di leggi penali, ai fini dell’individuazione
della normativa di favore, per il reo, non si può procedere a una combinazione
delle disposizioni più favorevoli della nuova legge con quelle più favorevoli
della vecchia, in quanto ciò comporterebbe la creazione di una terza legge,
diversa sia da quella abrogata, sia da quella in vigore, ma occorre applicare
integralmente quella delle due che, nel suo complesso, risulti, in relazione
alla vicenda concreta oggetto di giudizio, più vantaggiosa al reo, mentre, ove
il legislatore prevede dopo una legge più rigorosa altra più favorevole e,
quindi, renda successivamente il regime sanzionatorio più rigido deve
applicarsi la normativa più vantaggiosa (Cass., sez. IV, 20 maggio 2004, n.
23613, RV 228786). Peraltro, ove si volesse ritenere
che, in conformità con i principi generalmente riconosciuti dalla giurisprudenza
e dalla dottrina costituzionale, la direttiva in tema di sanzioni, contenuta
nell’art. 16 della legge delega n. 468 del 1999, non risulta violata dalla
successiva normativa del 2003, sicché è ammissibile prevedere differenti
sanzioni sin dal 30 giugno 2003, si verrebbero ad introdurre nel sistema della
competenza penale del giudice di pace, sia pure per un periodo di tempo
ristretto dal 30 giugno al 12 agosto 2003, reti punibili con pena detentiva a
quella pecuniaria in netto contrasto con la stessa ratio sottesa alla funzione
di detto magistrato, alcuni dei quali, addirittura, permarrebbero di competenza
di detto giudice, sicché sotto questo particolare aspetto, la esegesi costituzionalmente
orientata seguita sembra preferibile. Tuttavia, ove si volesse
considerare in base alla tesi da ultimo indicata, immediatamente applicabile,
anche dal giudice di pace, a partire dal 30 giugno 2003 le nuove sanzioni, e,
quindi, ancora rilevante la questione del divieto di analogia in malam partem e si superassero le
altre argomentazioni già illustrate, richiamando, in rapporto alla fattispecie esaminate,
una decisione della Consulta (n. 817 del 2005), con la quale è stata dichiarata
inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata in relazione
al delitto di lesioni colpose commesso con violazione delle norme sulla
circolazione stradale, punito con le sanzioni previste per i reati di
competenza del giudice di pace, in riferimento al medesimo delitto connesso a
colpa professionale o commesso in violazione delle norme sulla prevenzione
degli infortuni sul lavoro o che abbiano determinato una malattia
professionale, per i quali sono applicabili le sanzioni previste dal codice
penale, non sembra al collegio che, neppure in questo caso, possa farsi
applicazione di detto principio in considerazione della diversità delle due
fattispecie. Ed invero, nell’ordinanza di remissione il giudice a quo evidenzia che
la distribuzione di competenza tra giudice di pace e quello ordinario
determinerebbe un’irragionevole diversificazione del trattamento sanzionatorio
per condotte che offendono il medesimo bene e possono produrre danni di pari
gravità, sicché verrebbe applicata al reato di lesioni colpose commesse con
violazione delle norme in materia di circolazione stradale una pena non
adeguata alla gravità del fatto e tale da non assolvere alla funzione
rieducativa e deterrente e non
assicurerebbe in eguale misura la tutela del diritto alla salute, sicché erano
richiamati i parametri di cui agli artt. 3, 27 e 32 Cost. La Corte costituzionale fa
rilevare come il giudice a quo non solo non ha indicato quale oggetto del
giudizio di costituzionalità la norma fondamentale sulla competenza (art. 4 D.
L.vo n. 274 del 2000) sicché un’eventuale dichiarazione di incostituzionalità
degli artt. 52, 63 e 64 D. L.vo cit. determinerebbe il venir meno della
sanzione per il delitto di lesioni colpose commesso con violazione delle norme
sulla circolazione stradale, creando un vuoto legislativo inspiegabile, ma
anche come il rimettente si basi solo sul sistema sanzionatorio, sicché
richiama la sua giurisprudenza sull’inammissibilità di una sentenza additiva in malam partem in materia penale in
forza del principio della riserva di legge (sentenza n. 161 del 2004 e n. 49
del 2002, n. 30 del 2001, n. 508 del 2000 ed ord. n. 175 del 2001). Peraltro la Consulta sembra
riferirsi a detto divieto per l’erronea individuazione dell’oggetto del
giudizio di costituzionalità, sicché non utilizza neppure l’argomentazione
dell’Avvocatura, secondo cui la diversità di disciplina, in quel caso, non
sarebbe manifestamente irrazionale,
tanto più che, propria causa di detto errore, il problema centrale e dirimente
è quello della creazione di un vuoto sanzionatorio e dell’inconferenza della
questione sollevata. Pertanto, ad avviso del collegio,
individuata la preminenza della problematica processuale inerente
l’individuazione del giudice competente, non sarebbe configurabile
l’inammissibilità palese della questione di legittimità, sicché, pure sotto
questo profilo, indagato in maniera ampia pere la sua rilevanza,
l’interpretazione adeguatrice proposta, fondata non solo sul dato letterale, ma
su un’esegesi logico-sistematica, teologica e storica, sembra accoglibile. Pertanto, devono essere annullate
senza rinvio le sentenze del giudice di pace e del Tribunale di Rovereto
rispettivamente del 28 maggio e del 4 novembre 2004, disponendosi la
trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il Tribunale di
Rovereto per nuovo giudizio. (Omissis). [RIV-1006P911] II.
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