Nuova legittima difesa: proporzionalità tra offesa e difesa è sempre necessaria L’entrata in vigore della L. 59 del 2006, che, nell’intenzione del legislatore, avrebbe dovuto “modernizzare” l’istituto della legittima difesa, non ha, fortunatamente, spostato il sistema di pesi e contrappesi su cui si è sempre fondato (e che ha sempre sostenuto) il criterio della proporzionalità fra offesa illegittima e reazione difensiva. La Corte Suprema, infatti, con la recente sentenza che si commenta, ha affrontato il caso di una persona che avrebbe fatto fuoco nei confronti di un gruppo di malintenzionati, i quali, dopo aver tentato un furto nell’abitazione dell’imputato, si stavano dando alla fuga. Uno di costoro sarebbe stato attinto alla schiena dal colpo di arma da fuoco esploso e sarebbe deceduto in conseguenza delle lesioni sofferte. La posizione espressa dal Supremo Collegio nella sentenza La Cassazione ha, prima di ogni altra valutazione, inteso sgombrare il campo da qualsivoglia equivoco, ribadendo i capisaldi caratterizzanti la legittima difesa. Essi si rinvengono nell’aggressione ingiusta e nella legittima reazione dell’aggredito, che sono i classici comportamenti contrapposti, costituenti la ratio fondamentale della fattispecie in questione. A) L’azione aggressiva ingiusta L’aggressione, come pacificamente ormai invalso nel villaggio globale giuridico, deve essere condotta idonea a suscitare un concreto ed attuale pericolo di lesione del diritto del soggetto destinatario l’offesa. Questi, quindi, deve agire nell’immediatezza, allo scopo di evitare siffatta conseguenza, che integra un vero vulnus della propria posizione giuridica soggettiva. Il Supremo Collegio, Sez. I, 2 Aprile 1992, Pellini1, definì l’offesa nel seguente modo: “L’esimente della legittima difesa è configurabile quando vi sia un’aggressione ingiusta, che determina l’attualità del pericolo, intesa come l’esistenza di una situazione di attacco illegittimo di un diritto tutelato, la cui cessazione dipende necessariamente dalla reazione difensiva, come atto diretto a rimuovere la causa di imminente pericolo”. L’azione offensiva deve essere, quindi, connotata dall’indubbio carattere dell’ingiustizia, cioè della non tutelabilità da parte dell’ordinamento giuridico; essa deve apparire effettivamente come contra ius. L’offesa risulta, pertanto, intrinsecamente antigiuridica perché scaturisce quale conseguenza di un deliberato “aninums necandi” manifestato dal soggetto aggressore, il quale, inoltre, è consapevole di versare in “re illicita” (donde l’ingiustizia dell’azione in questione). Essa appare condotta, prima ancora che penalmente, socialmente riprovevole. Da tale considerazione di ordine etico deriva la scelta legislativa operata nel nostro ordinamento giuridico. Ingiusto, quindi, è qualsiasi comportamento che si espliciti nella contrarietà a norme imperative e non trovi in un diritto sottostante (o in una posizione equipollente) giustificazione da parte dell’ordinamento, esponendo ad un’arbitaria diminutio un diritto di cui all’aggredito è titolare (Cfr. Sez. II della Corte di Cassazione, sent. 17 novembre 1999, n. 2692, D’Apollo, Cass. Pen., 2001, 478). Tale metus non deve apparire astratto, ma – come detto – deve apparire effettivo, concreto ed attuale. Vale a dire che: il pericolo adombrato con l’aggressione ingiusta non deve essere puramente ipotetico od astratto lo spettro temporale nel quale si consuma l’azione e la reazione correlativa deve essere massimamente compresso, sicchè le due azioni devono presentare il carattere della contestualità. Per quanto attiene al primo profilo soccorre l’intervento della Corte di Cassazione, Sez. IV, del 12 Febbraio 2004, n. 16908, (CED Cassazione, 2004), secondo il quale il presupposto essenziale della legittima difesa, costituito da un’aggressione ingiusta, deve concretarsi in un pericolo concreto di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocia nella lesione del diritto protetto (Conf. Cass. pen., sez. I, 14 Novembre 2002, n.3740, Pg appello Firenze in proc. Vannozzi, Guida al Diritto, 2003, 18, 73). E’ evidente che, nell’istituto in parola, i concetti di attualità ed effettività vengono ad assumere posizioni tra loro assai simili, quasi confondibili, anche se, poi, rimane evidente la distinzione fra gli stessi, atteso che un pericolo, che allo stato esiste (ed è attuale sul piano epocale), potrebbe non avere ancora acquisito il carattere della inevitabilità. Vale a dire che il concetto di concretezza – nella fattispecie – è sinonimo di quello di ineluttabilità intesa come certezza dell’esistenza delle condizioni di pericolo da fronteggiare. Per quanto concerne più specificatamente il concetto di attualità dell’offesa ingiusta, va ripresa l’osservazione del PADOVANI, il quale riconnette alla stessa “il senso stesso della reazione”. L’Autore circoscrive, infatti, il momento temporale della difesa, la quale deve essere esercitata “prima che l’offesa sia compiutamente realizzata, ma non prima che essa si prospetti con un rilevante grado di probabilità”. In giurisprudenza, va, inoltre, ricordato come la Suprema Corte, Sez. I, 15 Aprile 1999, n. 9695, De Rosa2, ha confermato, sul piano giurisprudenziale, tale assunto e cioè l’inoperatività della scriminante rispetto ad un’offesa che si sia esaurita, sancendo che “Poichè la difesa legittima presuppone il pericolo attuale di una offesa ingiusta e consiste in una reazione la cui efficacia scriminante implica l’inevitabilità del pericolo attuale, la necessità di difesa, e la proporzione tra questa e l’offesa, non è giustificabile il fatto commesso quando l’offensiva si è esaurita”. Confirmativa di tale orientamento è, anche, la sentenza della Corte d’Appello, Sezione Minorenni di Roma, del 2 Luglio 1980, per la quale “Non sussiste l’esimente della legittima difesa, neanche putativa o sotto l’aspetto dell’eccesso colposo, quando l’azione dichiarata difensiva sia stata compiuta dopo l’esaurimento dello stato di pericolo e presenti comunque una totale sproporzione rispetto alla offesa.”3 B) La reazione difensiva E’ questa la condotta che maggiormente rileva ed interessa al fine dell’applicazione dell’istituto in parola, in quanto essa attiene alla necessità di sventare la minaccia di cui è fatto oggetto il diritto. La reazione deve apparire come una espressione assolutamente diretta e dovuta rispetto ad un pericolo che – come detto testè – sia attuale e non altrimenti evitabile. Vale a dire che il soggetto, chiamato a difendersi dall’offesa ingiusta, non deve avere avuto altra e differente possibilità difensiva, quale potrebbe essere, ad esempio, il ricorso al commodus discessus. Si tratta di una tesi che ha trovato tranquillizzante riscontro anche in giurisprudenza, in quanto per la Corte di Cassazione, Sez. I, (21/04/1994, De Giovanni)4 “..per poter ritenere legittima la reazione di fronte alla imminenza del pericolo, è indispensabile sussista la necessità di difendersi, che si ha quando il soggetto si trova nell’alternativa tra reagire e subire, nel senso che non può sottrarsi al pericolo senza offendere l’aggressore”. Ed ancora, va segnalato come simile posizione trovi consenso in giurisprudenza, anche con pronunzia recente nella Sez. I, della S.C. (28 Gennaio 2003, n. 5697, Di Giulio)5, la quale ha sancito che “Non è configurabile l’esimente della legittima difesa qualora l’agente abbia avuto la possibilità di allontanarsi dall’aggressore senza pregiudizio e senza disonore”. E’ chiaro il rigore con il quale il principio della sussistenza di alternative rispetto alla scelta operata in concreto va valutato dal giudice, onde evitare che si possa invocare una condotta come necessitata, pur in presenza di valide e concrete possibilità del tutto differenti da quella utilizzata. In dottrina va evidenziato come GROSSO, sullo specifico punto, privilegia la necessità che la condotta difensiva, seppur unica idonea a neutralizzare il pericolo, sia, però, in grado di conseguire un simile risultato provocando all’aggressore il minor nocumento6. In ciò l’Autore si fa portavoce della dottrina prevalente, ANTOLISEI, (in Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 1969, 230 s.), BETTIOL, (in Diritto penale, pt. g., Padova, 1969, 301 s.) e FROSALI, (in Sistema penale italiano, II, Torino, 1958, 302 s.). C) Il requisito dalla proporzionalità Esaurite le rapide premesse metodologiche in ordine agli elementi che dottrina e giurisprudenza costitutivi la legittima difesa, quel che appare maggiormente rilevante nella sentenza in esame è il preciso richiamo che i giudici di legittimità operano nei confronti del criterio di proporzionalità, tanto vituperato dalla controriforma dello scorso febbraio. Questo principio fondamentale, codificato nel testo dell’art. 52 c.p., in maniera assolutamente innovativa rispetto al codice Zanardelli che non lo prevedeva affatto, mira a rapportare fra loro le due condotte contrapposte, onde ricavare un preciso giudizio in ordine al fatto se all’offesa ingiusta, l’aggredito abbia risposto con un comportamento, chiaramente ispirato a canoni defensionali e che appaia equilibrato rispetto alla minaccia. Il GROSSO, con grande lucidità argomentativa, individua la ratio della regola nell’intento “…di superare l’equilibrio fra i beni contrapposti garantendo all’aggredito il diritto di difendere qualunque suo interesse, anche quello soltanto patrimoniale, con una qualunque azione difensiva, anche quella più nociva per l’aggressore, nel caso in cui essa fosse l’unica consentita dalla situazione di fatto…”7. In buona sostanza, la valutazione che l’ermeneuta è chiamato a rendere, ogni qual volta venga invocata la scriminante in parola, deve tenere conto: dei mezzi utilizzati reciprocamente, dei beni giuridici che entrano in conflitto, in forza sia della minaccia che della reazione alla stessa, del livello di ingiustizia perpetrato, dell’effettiva attualità ed inevitabilità dello situazione di pericolo, della presenza di soluzioni alternative a quella prescelta. dell’incolpevolezza dell’aggredito, che non deve avere provocato la minaccia. Si tratta di una valutazione indubbiamente complessa, ma che offre spunti e parametri schematici per la decisione, sul presupposto che se l’aggredito non habet staderam in manu, quanto meno il giurista deve munirsi di tale strumento. Ad essi appare opportuna scelta, quella di aggiungere anche elementi che, possono fungere da complemento a quelli costitutivi la fattispecie e cioè la caratteristiche dell’aggredito stesso e rapporti di forza fra questo e l’aggressore, il tempo ed il luogo dell’azione, il cd. «valore esistenziale» che il bene minacciato dall’aggressore assume per l’aggredito stesso8. La necessità di una delibazione che si fondi su una serie così articolata di parametri, trova conforto nel fatto che il giudizio ammissivo in ordine alla configurabilità della scriminante, si articola in due momenti fondamentali, seppur tra loro diversi9. La posizione assunta nel caso che ci occupa dalla Corte appare significativa ed importante, in quanto nega l’accettazione acritica della presunzione di proporzionalità introdotta dalla L. 59/06. E’ importante rilevare che la sentenza, in questione, infatti, si pone in situazione di conflitto con altra pronunzia della Sez. V che recentemente ha avuto modo di statuire lapidariamente che “In tema di legittima difesa a seguito delle modifiche apportate dalla Legge 13 febbraio 2006 n. 59 all’art. 52 cod. pen., si è stabilita per legge la proporzionalità nel caso di violazione del domicilio da parte dell’aggressore a cui si contrappone, per salvaguardare la propria incolumità o propri beni, l’uso di arma legittimamente detenuta. (Annulla senza rinvio, App. Firenze, 3 novembre 2004)” [Cfr. Cass. pen. Sez. V, 28 Giugno 2006, n. 25339 (rv. 234382) CED Cassazione, 2006]. E’, infatti, di tutta evidenza che il criterio della proporzionalità assume le vestigia di giudizio involgente il rapporto fra le due contrapposte condotte che non si può assolutamente presumere. Esso, come emerge con pregevole chiarezza espositiva dalla pronuncia in commento, presuppone, pertanto, indefettibilmente, una verifica concreta delle condotte tenute e non è casuale che la Corte affermi che “le espressioni normative «necessità di difendere» e «sempre che la difesa sia proporzionale all’offesa», di cui all’art. 52 c.p., vanno intese nel senso che la reazione deve essere, in quella circostanza, l’unica possibile, non sostituibile con altra meno dannosa egualmente idonea alla tutela del diritto proprio o altrui (tra altre, Cass., Sez. I, n. 2554/1996; id., Sez. IV, n. 9256)”. Ma vi è di più. Il Supremo Collegio valuta il criterio della proporzionalità fra offesa ingiusta e difesa reattiva (potenzialmente legittima) come intangibile ed immodificabile dalle modifiche introdotte con l’art. 1 della L. 59/2006. Questo indubbiamente è il profilo di maggior spessore dell’approdo giurisdizionale che si valuta, in quanto, a parere dei giudici di legittimità, la novella normativa non impedisce affatto, (tutt’altro!) di dare corso ad una valutazione che attenga alla situazione in concreto manifestatasi. Ciò a fortiori significa che a. non esiste – in realtà – una presunzione di non punibilità in favore dell’agente per il solo fatto, di avere asseritamente << difeso la propria o altrui incolumità», ovvero «i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione», b. non esiste una facoltà, se non addirittura, un diritto di difendersi nelle citate condizioni di tempo e modo, c. non esiste, per chi usi le armi anche solo per difeso, la possibilità di evitare a priori un giudizio da parte del magistrato in ordine alla correttezza ed irrilevanza penale del proprio operato. E’, invece, vero l’esatto contrario, vale a dire, cioè che preliminare ad ogni altra valutazione concernente quelle ulteriori condizioni di tempo e luogo, oggetto dell’intervento normativo criticato10, deve essere svolta una indagine avente ad oggetto, da un lato, il rapporto fra condotta tenuta da colui che assume di essere vittima dell’aggressione ingiusta e, dall’altro sia la sussistenza di un pericolo attuale di aggressione, che la inevitabilità (o necessità) della difesa posta in essere. Nel caso concreto la sentenza di legittimità rende conto in modo rigoroso dell’attività di scrutinio delle risultanze procedimentali fattuali così come emerse nel corso dei due giudizi di merito. Da tale spolio deve derivare, pertanto, (come in effetti deriva nel caso di specie) una preventiva ricostruzione delle singole contrapposte condotte, dalle quali si può pervenire ad una definitiva ricostruzione del fatto. Si tratta di un procedimento ideativo e percettivo che, nella sua conformità alle norme codicistiche proceduralpenalistiche vigenti, si pone fortunatamente del tutto all’opposto di quello che, stando ai relatori della norma, avrebbe dovuto essere l’iter processuale da seguire in siffatte occasioni. L’idea dominante di chi si è battuto per la modifica dell’istituto della legittima difesa era quella di prevedere una presunzione di proporzionalità (relativa alle specifiche situazioni domestiche) che avrebbe dovuto evitare l’apertura (e la “seccatura” per l’agente), addirittura, dell’indagine preliminare. Tale modus operandi avrebbe dovuto favorire hic et inde l’immediato proscioglimento dell’agente, atteso che i criteri ispirati all’art. 614 c.p. e trasfusi nel testo del nuovo art. 52 c.p., avrebbero dovuto fungere da limite ostativo a qualsiasi tipo di verifica esterna. La decisione della Corte di Cassazione, quindi, va salutata con soddisfazione, in quanto essa si pone come momento di intelligente interpretazione di una norma erronea sul piano prospettico e, come tale, fortemente avversata sia da giudici, che da avvocati. La legittima difesa rimane, pertanto, ancorata – nonostante le tentazioni pseudo-riformiste – a quei principi basilari (e la proporzionalità, né è l’esempio testimoniale più significativo) che ne hanno fatto uno dei fiori all’occhiello del sistema penale sostanziale italiano. (Altalex, 20 dicembre 2006. Nota di Carlo Alberto Zaina) ________________ 1 Mass. Cass. Pen., 1992, fasc.9, 48. SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE IV PENALE Sentenza 29 settembre 2006, n. 32282 A. D. veniva tratto al giudizio del Tribunale di Napoli - Sezione distaccata di Pozzuoli - per rispondere del reato di cui agli artt. 589, 52, 59 c.p.: gli si addebitava di aver cagionato per colpa la morte di M. C., che la sera dell’8 gennaio 1992, con altre due persone rimaste non identificate, si era introdotto nella sua abitazione, previa effrazione di una finestra, eccedendo l’imputato i limiti di legge per la difesa del suo diritto ed esplodendo un colpo di pistola dalla finestra dell’abitazione contro la fuggitiva vittima che ne rimaneva attinta e decedeva per le lesioni riportate. Il primo giudice assolveva l’imputato dalla imputazione contestatagli, perché il fatto non sussiste. Riteneva accertato che in quella circostanza le tre persone si erano introdotte nell’abitazione dell’imputato per impossessarsi di una cospicua somma di denaro; che gli occupanti dell’abitazione erano stati destati dai rumori notturni, avvedendosi della presenza di estranei in casa; che A. D. aveva prelevato una pistola, legittimamente detenuta, inseguendo i tre malfattori; che, nella concitazione del momento, «il trambusto era massimo» e «nel buio si vedevano ombre muoversi»; che andava considerata «la particolare situazione psicologica in cui versava la famiglia D., già vittima di furti (e) ... oggetto di richieste estorsive»; che «non può pretendersi che il D. conosca la giurisprudenza specifica» sulla esimente della legittima difesa, dovendosi «affermare che valga il principio ignorantia legis excusat»; che nel caso specifico «il pericolo era attuale» e «la probabilità di un evento dannoso era, più esattamente, una certezza»; che «la situazione era tale che si era venuta, a creare, per il D., una situazione di pericolo incombente od una situazione che comunque faceva sorgere nel D. la ragionevole opinione di trovarsi in siffatta posizione pericolosa». 1.2 Sul gravame del Procuratore Generale della Repubblica, la Corte di Appello di Napoli, con sentenza del 13 novembre 2003, in riforma della sentenza impugnata, riconosceva la penale responsabilità dell’imputato in ordine all’addebito contestatogli e lo condannava a pena ritenuta di giustizia, nonché al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, in favore della costituita parte civile. Rilevavano i giudici dell’appello - richiamato il «consolidato orientamento giurisprudenziale» in subiecta materia - che «il D. esplose il mortale colpo di pistola contro il C. dall’alto di una delle finestre della sua abitazione quando costui aveva già posto termine al suo tentativo di furto, aveva ormai abbandonato l’abitazione dell’imputato ed aveva raggiunto la strada»; che, quanto alla «ragionevole persuasione di trovarsi nella necessità di difendere la propria persona contro il pericolo di offesa da parte del C.», doveva considerarsi che il possesso di un’arma da parte di uno dei ladri era stato affermato solo dall’imputato e da uno dei testi, S. D., «non essendo stata tale circostanza riferita anche dagli altri testi», e che, «ad ogni modo, non era certamente C. M. il giovane in possesso della pistola giacché nessuna arma gli fu trovata indosso dopo l’uccisione o comunque fu rinvenuta accanto al suo cadavere»; che «il D. non poteva temere alcun pericolo di essere a sua volta sparato, né peraltro l’erronea convinzione contraria poteva essere ingenerata o giustificata da alcun fatto concreto»; che, quanto all’affermazione dell’imputato «che il C. si fosse girato facendo il gesto di chi si accingesse ad impugnare un’arma..., nessuna risultanza processuale conforta il suo racconto sul punto. Anzi le risultanze contrastano gravemente la sua affermazione, ove si consideri che il C. fu attinto alle spalle mentre si dava alla fuga...»; che, «per quanto concerne la frase “spara, spara”, pronunciata da qualcuno che si trovava all’esterno dell’abitazione secondo quanto hanno riferito i testi escussi, non è consentito ritenere con assoluta certezza, come fa invece il primo giudice, che essa contenesse necessariamente un’esortazione a sparare», e «in realtà si tratta di una frase ambigua, che avrebbe potuto esprimere anche un avvertimento dato da uno dei due fuggitivi all’altro in ordine alla circostanza che il D., portatosi ad una finestra della sua abitazione, era in possesso di una pistola e che da un momento all’altro avrebbe potuto sparare, come in realtà poi fece veramente». 2. Avverso tale sentenza ha personalmente proposto ricorso l’imputato, denunciando vizi di violazione di legge e di motivazione. Deduce: a) che all’udienza di primo grado del 23 gennaio 1997 era stato prodotto un atto contenente «l’indicazione delle procure speciali nonché elezione di domicilio presso lo studio del difensore...», e certificazione medica attestante l’impedimento dell’imputato a comparire; il giudice aveva disposto il rinvio del procedimento a nuova udienza, ma la relativa notifica del provvedimento «non avveniva al domicilio eletto bensì a quello reale e non a mani proprie»; che, quindi, illegittimamente egli era stato dichiarato contumace, da tanto derivando «la nullità assoluta del giudizio di primo grado e di tutti gli atti successivi...»; b) che, «in ogni caso», la sentenza impugnata sarebbe affetta da «illogicità e carenza di motivazione, travisamento del fatto». In particolare, «dalle foto dei luoghi allegate agli atti appare evidente che la finestra è posta ad un primo piano basso e che il C. si trovava nel cortile sottostante a pochi metri all’atto dell’esplosione del colpo»; quanto al possesso di una pistola da parte della vittima, avrebbe dovuto considerarsi che «i rapinatori erano ben tre e che pertanto è più che probabile che uno dei complici del C., fuggendo, abbia recuperato l’arma caduta al C.»; illegittimamente non era stata ritenuta attendibile la tesi difensiva dell’imputato, avendo anche la espletata perizia concluso «per la piena compatibilità del movimento di torsione del busto descritto dal D. con l’andamento del tramite lesivo»; quanto alla frase «spara, spara», «tutti i testi hanno riferito la frase come una esortazione, non come un avvertimento»; c) che illegittimamente era stato negato il riconoscimento delle attenuanti generiche, essendosi al riguardo utilizzate «mere disquisizioni dialettiche per coprire la reale esigenza della Corte, ovvero quella di non dichiarare la prescrizione del reato», ed omettendosi di considerare che «il precedente giudiziario, afferente a reato contro la persona, risaliva al 14/8/1960...», e, in sostanza, il contesto in cui era maturato il fatto di reato; d) che illegittimamente era stato negato il beneficio della sospensione condizionale della pena: egli era gravato dal citato precedente del 1960 e da una successiva sentenza di condanna per fatti del 1967, per la quale «non ha fruito della sospensione bensì del condono in quanto all’epoca la seconda sospensione non era concepibile», ed «ottenne tuttavia una seconda sospensione per fatti depenalizzati», sicché - conclude il ricorrente - egli «poteva fruire della sospensione della pena per la presente vicenda». 3. Le proposte doglianze non si palesano condivisibili. Quanto, invero, al primo motivo di ricorso, hanno al riguardo chiarito le Sezioni Unite di questa Suprema Corte che, in tema di notificazione della citazione all’imputato, la nullità assoluta ed insanabile prevista dall’art. 179 c.p.p. ricorre soltanto nel caso in cui la notificazione della citazione sia stata omessa o quando, pur essendo stata eseguita in forme diverse da quelle prescritte, risulti inidonea a determinare la conoscenza dell’atto da parte dell’imputato; la medesima nullità non ricorre invece nei casi in cui vi sia stata esclusivamente la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione, alla quale consegue la applicabilità della sanatoria di cui all’art. 184 c.p.p. (Cass., Sez. Un., 27/10/2004, n. 119/2005, ric. Palumbo). In particolare, la notificazione all’imputato effettuata presso il domicilio reale a mani di persona convivente, anziché presso il domicilio eletto, non integra necessariamente una ipotesi di «omissione» della notificazione ex art. 179 c.p.p., ma dà luogo, di regola, ad una nullità di ordine generale a norma dell’art. 178, lett. c), c.p.p., soggetta alla sanatoria speciale di cui all’art. 184.1, alle sanatorie generali di cui all’art. 183 e alle regole di deducibilità di cui all’art. 182, oltre che ai termini di rilevabilità di cui all’art. 180 stesso codice, sempre che non appaia in astratto o risulti in concreto inidonea a determinare la conoscenza effettiva dell’atto da parte del destinatario, nel qual caso integra invece la nullità assoluta ed insanabile di cui all’art. 179.1 c.p.p., rilevabile dal giudice di ufficio in ogni stato e grado del processo (ibid.). E l’imputato che intenda eccepire la nullità assoluta della citazione o della sua notificazione, non risultante dagli atti, non può limitarsi a denunciare la inosservanza della relativa norma processuale, ma deve rappresentare al giudice di non aver avuto cognizione dell’atto e indicare gli specifici elementi che consentano l’esercizio dei poteri officiosi di accertamento da parte del giudice (ibid.). Nella specie, non risulta, né lo deduce il ricorrente, che sia stata sollevata in precedenza tale eccezione, proposta solo in questa sede di legittimità; né comprova il ricorrente medesimo che la notifica eseguita nel domicilio reale a mani di persona convivente non abbia potuto comportare e comportato la sua cognizione del contenuto dell’atto. Quanto al secondo profilo di censura, in punto di responsabilità, hanno, come di già anticipato, accertato i giudici del merito - e tale accertamento in fatto è insindacabile in sede di legittimità - che l’imputato ebbe ad esplodere il colpo d’arma da fuoco «dall’alto di una delle finestre della sua abitazione», quando la vittima «aveva già posto termine al suo tentativo di furto, aveva ormai abbandonato l’abitazione ed aveva già raggiunto la strada», venendo «il C.... attinto alle spalle mentre si dava alla fuga». Ciò posto, ha più volte chiarito questa Suprema Corte che i presupposti essenziali della legittima difesa sono costituiti da una aggressione ingiusta e da una reazione legittima; la prima deve concretarsi in un pericolo attuale di un’offesa che, se non neutralizzata tempestivamente, sfocerebbe nella lesione del diritto; la seconda deve inerire alla necessità di difendersi, alla inevitabilità del pericolo ed alla proporzione tra difesa ed offesa (ex ceteris, Cass., Sez. IV, n. 16908/2004; id., Sez. I, n. 9695/1999; id., Sez. I, n. 6811/1994); e le espressioni normative «necessità di difendere» e «sempre che la difesa sia proporzionale all’offesa», di cui all’art. 52 c.p., vanno intese nel senso che la reazione deve essere, in quella circostanza, l’unica possibile, non sostituibile con altra meno dannosa egualmente idonea alla tutela del diritto proprio o altrui (tra altre, Cass., Sez. I, n. 2554/1996; id., Sez. IV, n. 9256). La condotta dell’aggressore (valutata ex ante, al momento in cui il ricorrente esplose il colpo di pistola), nel caso di specie, alla stregua delle esplicitate circostanze fattuali, si era già esaurita nella sua aggressività e potenzialità offensiva, la vittima si era data alla fuga (venne attinta dal colpo di pistola alle spalle «mentre si dava alla fuga»), nessun pericolo attuale poteva più sussistere in riferimento alla integrità fisica del ricorrente e degli altri abitanti dell’immobile o del suo diritto patrimoniale. D’altra parte, quanto alla espressione «spara, spara» (della quale i giudici del merito hanno rilevato la ambiguità), essi hanno dato atto che nessuna arma venne rinvenuta riconducibile all’aggressore, e la affermazione gravatoria secondo cui «è più che probabile che uno dei complici del C., fuggendo, abbia recuperato l’arma caduta al C.», è meramente assertiva, non supportata da alcun altro elemento di riscontro che dia contezza di comportamenti o movimenti dei correi in tal senso inducenti; rimane, al postutto, la circostanza che il colpo di arma da fuoco venne esploso dal ricorrente «dall’alto di una delle finestre della sua abitazione», quando la vittima «aveva ormai abbandonato l’abitazione dell’imputato ed aveva raggiunto la strada», sicché anche il paventato pericolo di esplosione di colpi di arma da fuoco da parte della vittima, da quella ormai raggiunta posizione, poteva agevolmente essere affrancato dall’agevole abbandono, da parte del ricorrente, di quella sua postazione alla finestra. Le conclusioni al riguardo logicamente assunte dalla sentenza impugnata non sono inficiate o caducate dalla modifica normativa intervenuta con l’art. 1 della L. n. 59/2006, che ha introdotto un secondo e terzo comma all’art. 52 c.p., «nei casi previsti dall’articolo 614, primo e secondo comma». Anche alla stregua di tale novellato disposto legislativo, difatti, l’uso di un’arma legittimamente detenuta, quanto al rapporto di proporzione di cui al primo comma, concretizza l’esimente in discorso quando è volto a «difendere la propria o altrui incolumità», ovvero «i beni propri o altrui, quando non vi è desistenza e vi è pericolo di aggressione». Dovendosi siffatta valutazione pur sempre operare in relazione alla situazione concreta sussistente nel momento in cui si faccia uso dell’arma, nella specie, per quanto esplicitato dai giudici del merito e testé richiamato, nel momento in cui l’imputato fece uso di quell’anna, colpendo il fuggitivo (che aveva già guadagnato la strada) alle spalle, più non sussisteva la necessità di «difendere la propria o altrui incolumità», e, quanto ai beni, più non sussisteva un «pericolo di aggressione» e la vittima, dandosi alla fuga, aveva in sostanza desistito dal suo iniziale intento aggressivo. Quanto al terzo profilo di censura, i giudici dell’appello hanno negato il riconoscimento delle attenuanti generiche rilevando che la pena irrogata era pari al minimo edittale e che non si apprezzavano «situazioni... che presentino connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva, particolare considerazione ai fini della quantificazione della pena..., ove si consideri che il D., una volta che il C. si era dato alla fuga, non aveva alcuna necessità di affacciarsi appositamente alla finestra della casa e di portare con sé la pistola con cui uccise il giovane», ulteriormente rilevando che né la personalità del colpevole giustifica la concessione delle generiche, «ove si tenga conto che già in passato il D. si è reso autore di reati di violenza su persone». Come si vede, dunque, i giudici del merito sono pervenuti all’espresso divisamento complessivamente valutando le connotazioni fattuali del caso, la gravità dello stesso ed il grado della colpa, con ciò congruamente assolvendo all’obbligo motivazionale loro imposto, nel delibativo apprezzamento che a tale riguardo è dalla legge riservato al giudice del merito. E, premesso che, come risulta dal certificato penale in atti, l’imputato ebbe, in effetti, a subire una sentenza di condanna, in data 19 ottobre 1961 (per fatto del 14 agosto 1960), per lesioni personali volontarie, non illegittimamente i giudici del merito hanno valutato anche tale precedente, ancorché risalente nel tempo, ai fini del complessivo apprezzamento della personalità dell’imputato, in uno alle altre considerazioni argomentative svolte. Quanto, infine, al quarto ed ultimo motivo di doglianza, per come risulta dal certificato penale in atti, l’imputato ebbe a beneficiare una prima volta della sospensione condizionale della pena in relazione alla sentenza in data 19 ottobre 1961 del Tribunale di Napoli, che lo aveva condannato alla pena di mesi due di reclusione per reato di lesioni personali volontarie. Successivamente, con sentenza del 10 ottobre 1973 dello stesso Tribunale di Napoli, ebbe a riportare altra condanna a mesi sei di reclusione per delitto di cui agli artt. 491, 62, n. 4, c.p., ed in riferimento a tale reato non venne reiterato tale beneficio, dichiarandosi condonata la relativa pena ai sensi del D.P.R. n. 283/1970. Ora, pur non dovendosi tener conto della condanna e dell’ulteriore beneficio concesso con sentenza del Pretore di Pozzuoli del 12 giugno 1974 per reato di cui all’art. 32 L. n. 990/1969 (poi depenalizzato) e di altre condanne per lo stesso titolo di reato e per emissione di assegni a vuoto (ex ceteris, Cass., Sez. V, n. 44281/2005; id. Sez. V, n. 28714; id., Sez. V, n. 17660/2004; id., Sez. IV, n. 21730/2004; ecc.; cfr. anche Cass., Sez. Un., n. 4687/2005), quanto ai limiti formali della reiterabilità del beneficio rimane che questo non è reiterabile allorché, come nella specie, dopo una prima concessione dello stesso l’imputato riporti altra condanna a pena detentiva per delitto (ancorché senza concessione del beneficio), intermedia rispetto ad altra successiva per la quale si richieda la reiterazione del beneficio medesimo (Cass., Sez. VI, n. 4090/1998; id., Sez. VI, n. 8167/1996; id., Sez. V, n. 1442/1995; id., Sez. IV, n. 8833/1994; id., Sez. Un., n. 1718/1984), non rilevando a tali effetti che la pena della sentenza intermedia possa essere stata condonata (Cass., Sez. I, n. 2057/1997; id., Sez. Un., n. 23/1995). Non senza, peraltro, considerare, sotto il profilo questa volta prognostico e di merito, che, al riguardo, anche le precedenti condanne per reati poi depenalizzati possono legittimamente essere valutate dal giudice (cfr. Sez. V, n. 34682/2005; id., Sez. V, n. 17660/2004). 4. Il ricorso va, dunque, rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Da Altalex | |