Linea dura della Cassazione contro i bulli al
volante: tagliare strada con l’automobile può costare una condanna penale per
ingiuria e violenza privata. Lo ha stabilito la Quinta Sezione Penale
dichiarando inammissibile il ricorso di un automobilista di Udine condannato
dal Tribunale a 15 giorni di reclusione per aver tenuto, in occasione di un sorpasso,
un comportamento ingiurioso e violento nei confronti di un altro automobilista,
che aveva minacciato con gestacci tagliandogli più volte la strada e
costringendolo a brusche frenate. La Corte di Appello di Trieste aveva
confermato la condanna, contro la quale l’automobilista aveva fatto ricorso in
Cassazione, contestando il reato attribuitogli. La Suprema Corte ha invece
confermato la condanna per violenza privata, ritenendo punibile “la condotta
del conducente di autoveicolo il quale compia deliberatamente manovre insidiose
al fine di interferire la condotta di guida di un altro utente della strada,
realizzando così una privazione della libertà di determinazione e di azione
della persona offesa”, nonché quella per ingiuria determinata da un gestaccio
don il dito medio. Anche se la vicenda richiama alla mente la celebre scena de
“Il sorpasso” del compianto Dino Risi, da ora in poi gli automobilisti
prepotenti sono avvertiti. (17 gennaio 2007)
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza
n.42276/2006 (Presidente: P. Marini; Relatore: M. Rotella) LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE V
PENALE
SENTENZA
La corte
di Trieste ha confermato la condanna inflitta a T.S. dal tribunale di Udine a
gg. 15 per violenza privata, ed euro 300 di multa per ingiuria[1],
nei confronti di B.M. Si è
ritenuto che i reati sono stati commessi in autostrada da T. che, alla guida di
autovettura porche, costringeva l’offeso alla guida di altra vettura a
rinunciare al sorpasso e ad operare brusche frenate, esponendolo a rischio di
tamponamento, e gli faceva un gesto con il dito medio della mano. La corte
ricostruisce in dettaglio che, mentre B. stava compiendo manovra di sorpasso
sopraggiungeva la porche, che lampeggiava per ottenere strada. Rientrava
a destra e la porche lo superava e rientrava anch’essa bruscamente,
tagliandogli la strada e frenando repentinamente, si da costringerlo a frenata
di emergenza per evitare il tamponamento. La porche
proseguiva alla modesta velocità di 50/60 Km orari, e B. decideva di
sorpassarla. Ma
iniziata la manovra, la porche riaccelerava e si riportava sulla corsia di
sorpasso, tagliandogli di nuovo la strada e costringendolo ancora a brusca
frenata e rientro a destra. La porche
rientrava a sua volta, frenando senza motivo. B.
suonava il clacson, ed a questo punto il guidatore della porche alzava il dito
medio, cominciando a zigzagare in tutte le corsie per parecchi chilometri. Il
guidatore della porche, di cui erano passeggeri una donna ed un ragazzino sul
retro, è stato indicato di sesso maschile, ed identificato per l’imputato quale
figlio della proprietaria del veicolo, perché il suo passaggio in quel tempo ed
in quel tratto di autostrada è attestato dal pagamento del pedaggio dalla banca
di cui era correntista al casello indicato dall’offeso, che lo ha riconosciuto
in fotografia. Quanto al
reato di ingiuria, la sentenza risponde a questione circa il momento storico
del comportamento censurato, in particolare dimostrandolo inequivoco nella sua
connessione con il fatto di violenza privata. Il
ricorso deduce violazione di legge: per nullità del decreto di citazione a
giudizio; dell’art. 610 c.p., per insussistenza della condotta del reato di
violenza privata; per insussistenza dell’evento; per insussistenza
dell’ingiuria; per mancata applicazione dell’art. 599 c.p.p.; per travisamento
della prova acquisita in particolare circa l’identificazione dell’autore dei
fatti; dell’art. 81/2 c.p.; dell’art. 62 bis c.p.; degli artt. 53 e 59 L.
689/81. Con
memoria difensiva, si rettifica il primo motivo, rapportandolo all’art. 606/1
lett. c, e non b;: e si approfondiscono: il 2° e il 3° motivo; il 4° e 6°
motivo. Si
aggiunge il decimo motivo, di vizio di motivazione in punto di violenza
privata. Il primo motivo
di ricorso è manifestamente infondato. Per
diritto vivente la nullità denunciata, sia che si tratti di mancata
enunciazione, che di insufficiente determinazione dell’imputazione, è relativa
(cfr. Cass. 7/11/99, Merendino, CED rv. 212193, 11/11/98, Cucciniello, 212537;
9/3/00, Tancredi; 30/3/00, Hamidovic, 216091), ed è connessa alla menomazione
dell’esercizio di difesa. Questa,
secondo le sezioni unite (16/6/96, Di Francesco), può ritenersi solo in
presenza di una trasformazione radicale dell’imputazione, che ictu oculi non
risulta. All’evidenza,
nella specie l’imputazione era enunciata in maniera inequivoca su fatto, tempo
e luogo del commesso reato, e le sostenute imprecisioni (nella specie che la
p.o. avrebbe in udienza attestato che l’imputato era uscito dall’autostrada
bensì dallo stesso casello, ma in direzione di Lignano Sabbiadoro, non di La
tisana) sono state ritenute e si confermano del tutto irrilevanti. Ne vale a
posteriori insistere nell’eccezione, facendone ipoteticamente scaturire incertezza
sulla competenza territoriale, posto che nessuna eccezione al riguardo risulta
mai sollevata. Finalmente,
prima ancora di rilevare la manifesta infondatezza di questioni analoghe, con
riferimento al reato di ingiuria, data la natura indicata della nullità, va
rilevato che risultano inammissibili, già perché proposte per la prima volta in
questa sede (606/3° co. c.p.p.). I motivi
di merito sono del pari inammissibili. Va
premesso che non risulta già nei motivi d’appello, e conseguentemente in quelli
di ricorso alcun ancoramento a ragioni di difesa sostanziale dell’imputato, che
si nega essere autore del fatto. La
censura della sentenza circa la sua ritenuta identificazione quale autore dei
fatti è non consentita, perché prospetta e su basi ipotetiche un errore
percettivo del teste persona offesa, con ciò chiedendo un nuovo giudizio di
merito, e trascura del tutto il perché motivato della ritenuta gravità,
precisione e concordanza delle altre acquisizioni. Su questa
base, i motivi di ricorso in punto di responsabilità travisano che la prova dei
fatti si fonda esclusivamente su dichiarazioni dei testi a carico, ed emergenze
obiettive. Risulta
innanzitutto ignorato il principio di diritto cui si attiene la sentenza
impugnata, ovvero che (cfr. in particolare Cass., sez. VI, n. 32001/02,
Cabiale, CED rv. 222349) integra il reato di violenza privata la condotta del
conducente di autoveicolo, il quale compia deliberatamente manovre insidiose al
fine di interferire con la condotta di giuda di altro utente della strada,
realizzando così una privazione della libertà di determinazione e di azione
della persona offesa… E,
comunque qualificati negli enunciati, i motivi 2 e 3 offrono minuziose
interpretazioni alternative di fatto dello stesso materiale probatorio (fatto) o
censure meramente lessicali della sentenza impugnata. In altri
termini prospettano una diversa ricostruzione ipotetica dell’accaduto (senza
alcun ancoramento a fonti diverse da quelle già poste a carico) o, formulando
concessive, giustificano la condotta ed escludono in via teorica l’evento. Del pari,
fermo quanto si è detto sulle fonti di prova, i motivi circa il reato di
ingiuria, meno che dimostrare carenze motivazionali, fanno riferimenti di
principio che non vi è ragione di mettere in campo, laddove prospettano in
fatto astratte possibilità di erronea percezione o giustificazioni del gesto,
inteso dai giudici in senso inequivocabile. Ogni
altra questione risulta o viziata per le stesse ragioni (in particolare il 5°
circa l’art. 599 c.p., del tutto gratuito), o non già specificamente proposta
in appello (ancora motivo 5°, e 7°, 8°, 9° ed in parte il 10°), e come tale
sottratta a verifica di legittimità. Finalmente
il motivo 10° che, nuovo, già non serve per diritto vivente a sanare
l’inammissibilità del ricorso, ripropone questione di fatto in particolare
circa la violenza privata, con l’argomento chiave che non tutti i dati
sarebbero stati considerati. Ma
trascura innanzitutto il dovere di concisione del giudice in sentenza (artt.
544 e 546 c.p.p.), ed in particolare l’obbligo di quello d’appello di
rispondere alle questioni, se dedotte e decisive.
P.Q.M.
Dichiara
inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del
procedimento ed alla somma di euro 500 alla cassa delle ammende.
Roma,
22/11/2006.
Depositata
in Cancelleria il 22 dicembre 2006.
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