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Corte di Cassazione 19/01/2007

Compiere manovre azzardate con intento insidioso può essere sanzionato con una condanna penale - Violenza privata tagliare la strada in auto

(Cassazione 42276/2006)

 

Linea dura della Cassazione contro i bulli al volante: tagliare strada con l’automobile può costare una condanna penale per ingiuria e violenza privata. Lo ha stabilito la Quinta Sezione Penale dichiarando inammissibile il ricorso di un automobilista di Udine condannato dal Tribunale a 15 giorni di reclusione per aver tenuto, in occasione di un sorpasso, un comportamento ingiurioso e violento nei confronti di un altro automobilista, che aveva minacciato con gestacci tagliandogli più volte la strada e costringendolo a brusche frenate. La Corte di Appello di Trieste aveva confermato la condanna, contro la quale l’automobilista aveva fatto ricorso in Cassazione, contestando il reato attribuitogli. La Suprema Corte ha invece confermato la condanna per violenza privata, ritenendo punibile “la condotta del conducente di autoveicolo il quale compia deliberatamente manovre insidiose al fine di interferire la condotta di guida di un altro utente della strada, realizzando così una privazione della libertà di determinazione e di azione della persona offesa”, nonché quella per ingiuria determinata da un gestaccio don il dito medio. Anche se la vicenda richiama alla mente la celebre scena de “Il sorpasso” del compianto Dino Risi, da ora in poi gli automobilisti prepotenti sono avvertiti. (17 gennaio 2007)

 

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza n.42276/2006 (Presidente: P. Marini; Relatore: M. Rotella)

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

 

SEZIONE V PENALE

SENTENZA

La corte di Trieste ha confermato la condanna inflitta a T.S. dal tribunale di Udine a gg. 15 per violenza privata, ed euro 300 di multa per ingiuria[1], nei confronti di B.M.
Si è ritenuto che i reati sono stati commessi in autostrada da T. che, alla guida di autovettura porche, costringeva l’offeso alla guida di altra vettura a rinunciare al sorpasso e ad operare brusche frenate, esponendolo a rischio di tamponamento, e gli faceva un gesto con il dito medio della mano.
La corte ricostruisce in dettaglio che, mentre B. stava compiendo manovra di sorpasso sopraggiungeva la porche, che lampeggiava per ottenere strada.
Rientrava a destra e la porche lo superava e rientrava anch’essa bruscamente, tagliandogli la strada e frenando repentinamente, si da costringerlo a frenata di emergenza per evitare il tamponamento.
La porche proseguiva alla modesta velocità di 50/60 Km orari, e B. decideva di sorpassarla.
Ma iniziata la manovra, la porche riaccelerava e si riportava sulla corsia di sorpasso, tagliandogli di nuovo la strada e costringendolo ancora a brusca frenata e rientro a destra.
La porche rientrava a sua volta, frenando senza motivo.
B. suonava il clacson, ed a questo punto il guidatore della porche alzava il dito medio, cominciando a zigzagare in tutte le corsie per parecchi chilometri.
Il guidatore della porche, di cui erano passeggeri una donna ed un ragazzino sul retro, è stato indicato di sesso maschile, ed identificato per l’imputato quale figlio della proprietaria del veicolo, perché il suo passaggio in quel tempo ed in quel tratto di autostrada è attestato dal pagamento del pedaggio dalla banca di cui era correntista al casello indicato dall’offeso, che lo ha riconosciuto in fotografia.
Quanto al reato di ingiuria, la sentenza risponde a questione circa il momento storico del comportamento censurato, in particolare dimostrandolo inequivoco nella sua connessione con il fatto di violenza privata.
Il ricorso deduce violazione di legge: per nullità del decreto di citazione a giudizio; dell’art. 610 c.p., per insussistenza della condotta del reato di violenza privata; per insussistenza dell’evento; per insussistenza dell’ingiuria; per mancata applicazione dell’art. 599 c.p.p.; per travisamento della prova acquisita in particolare circa l’identificazione dell’autore dei fatti; dell’art. 81/2 c.p.; dell’art. 62 bis c.p.; degli artt. 53 e 59 L. 689/81.
Con memoria difensiva, si rettifica il primo motivo, rapportandolo all’art. 606/1 lett. c, e non b;: e si approfondiscono: il 2° e il 3° motivo; il 4° e 6° motivo.
Si aggiunge il decimo motivo, di vizio di motivazione in punto di violenza privata.
Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Per diritto vivente la nullità denunciata, sia che si tratti di mancata enunciazione, che di insufficiente determinazione dell’imputazione, è relativa (cfr. Cass. 7/11/99, Merendino, CED rv. 212193, 11/11/98, Cucciniello, 212537; 9/3/00, Tancredi; 30/3/00, Hamidovic, 216091), ed è connessa alla menomazione dell’esercizio di difesa.
Questa, secondo le sezioni unite (16/6/96, Di Francesco), può ritenersi solo in presenza di una trasformazione radicale dell’imputazione, che ictu oculi non risulta.
All’evidenza, nella specie l’imputazione era enunciata in maniera inequivoca su fatto, tempo e luogo del commesso reato, e le sostenute imprecisioni (nella specie che la p.o. avrebbe in udienza attestato che l’imputato era uscito dall’autostrada bensì dallo stesso casello, ma in direzione di Lignano Sabbiadoro, non di La tisana) sono state ritenute e si confermano del tutto irrilevanti.
Ne vale a posteriori insistere nell’eccezione, facendone ipoteticamente scaturire incertezza sulla competenza territoriale, posto che nessuna eccezione al riguardo risulta mai sollevata.
Finalmente, prima ancora di rilevare la manifesta infondatezza di questioni analoghe, con riferimento al reato di ingiuria, data la natura indicata della nullità, va rilevato che risultano inammissibili, già perché proposte per la prima volta in questa sede (606/3° co. c.p.p.).
I motivi di merito sono del pari inammissibili.
Va premesso che non risulta già nei motivi d’appello, e conseguentemente in quelli di ricorso alcun ancoramento a ragioni di difesa sostanziale dell’imputato, che si nega essere autore del fatto.
La censura della sentenza circa la sua ritenuta identificazione quale autore dei fatti è non consentita, perché prospetta e su basi ipotetiche un errore percettivo del teste persona offesa, con ciò chiedendo un nuovo giudizio di merito, e trascura del tutto il perché motivato della ritenuta gravità, precisione e concordanza delle altre acquisizioni.
Su questa base, i motivi di ricorso in punto di responsabilità travisano che la prova dei fatti si fonda esclusivamente su dichiarazioni dei testi a carico, ed emergenze obiettive.
Risulta innanzitutto ignorato il principio di diritto cui si attiene la sentenza impugnata, ovvero che (cfr. in particolare Cass., sez. VI, n. 32001/02, Cabiale, CED rv. 222349) integra il reato di violenza privata la condotta del conducente di autoveicolo, il quale compia deliberatamente manovre insidiose al fine di interferire con la condotta di giuda di altro utente della strada, realizzando così una privazione della libertà di determinazione e di azione della persona offesa…
E, comunque qualificati negli enunciati, i motivi 2 e 3 offrono minuziose interpretazioni alternative di fatto dello stesso materiale probatorio (fatto) o censure meramente lessicali della sentenza impugnata.
In altri termini prospettano una diversa ricostruzione ipotetica dell’accaduto (senza alcun ancoramento a fonti diverse da quelle già poste a carico) o, formulando concessive, giustificano la condotta ed escludono in via teorica l’evento.
Del pari, fermo quanto si è detto sulle fonti di prova, i motivi circa il reato di ingiuria, meno che dimostrare carenze motivazionali, fanno riferimenti di principio che non vi è ragione di mettere in campo, laddove prospettano in fatto astratte possibilità di erronea percezione o giustificazioni del gesto, inteso dai giudici in senso inequivocabile.
Ogni altra questione risulta o viziata per le stesse ragioni (in particolare il 5° circa l’art. 599 c.p., del tutto gratuito), o non già specificamente proposta in appello (ancora motivo 5°, e 7°, 8°, 9° ed in parte il 10°), e come tale sottratta a verifica di legittimità.
Finalmente il motivo 10° che, nuovo, già non serve per diritto vivente a sanare l’inammissibilità del ricorso, ripropone questione di fatto in particolare circa la violenza privata, con l’argomento chiave che non tutti i dati sarebbero stati considerati.
Ma trascura innanzitutto il dovere di concisione del giudice in sentenza (artt. 544 e 546 c.p.p.), ed in particolare l’obbligo di quello d’appello di rispondere alle questioni, se dedotte e decisive.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed alla somma di euro 500 alla cassa delle ammende.

Roma, 22/11/2006.

Depositata in Cancelleria il 22 dicembre 2006.

da CittadinoLex

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Venerdì, 19 Gennaio 2007
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