Oggi sono trent’anni da quegli spari sordi risuonati in crepitanti raffiche sullo svincolo di Dalmine. Fanno 360 mesi, scanditi dal martelletto dei tribunali, dal ciclo delle rotative, dalle troppe inutili chiacchiere che hanno alimentato odio e risentimento nei confronti di una persona che malgrado noi, malgrado il sangue versato, malgrado la segatura sparsa sul selciato come sulle piastrelle del pavimento delle banche, qualcuno ha voluto far passare per eroe.
Trent’anni fa morivano a Dalmine il brigadiere Luigi D’Andrea e l’agente Renato Barborini della Polizia Stradale, ammazzati dal capo di una delle più spietate bande che la storia moderna d’Italia possa ricordare.
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Il brigadiere Luigi D’Andrea
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L’agente della Polizia Stradale Renato Barborini
Delle loro vite, non c’è quasi traccia nella storia di questo paese, come non ce n’è di Bruno Lucchesi, altro poliziotto della Stradale massacrato nella piana di Montecatini Terme dalla stessa mano.
Le loro medaglie invecchiano, quasi senza menzione sui libri di storia, mentre qualcuno – purtroppo – farà l’ennesima fiction col protagonista sbagliato. L’ennesimo schiaffo ce lo dà proprio il servizio pubblico, visto che sarà Rai Uno a produrla..
Perché non girare un film, magari un cortometraggio, sul silenzio attonito e angosciante delle vittime e di chi era loro accanto, puntando la macchina da presa sulle aspettative mancate, sul pianto disperato, sul petto singhiozzante al quale qualcuno aveva apposto una medaglia?
Perché?
Forse perché non fa audience? Forse perché lo share non è assicurato?
Come mai questa differenza di trattamento e perché si vuol mettere a tutti i costi la maschera da Zorro ad un assassino nato?
Cos’è questo fascino perverso del Contro a tutti i costi che attira così tanto?
Lui, l’assassino, ha cercato di intenerirci parlando di “una vita che non ha vissuto”. Ha cercato di piacere, di mostrarsi coerente, ispirandosi alla Ragion Pura che anima il delinquente più spietato, tirando in ballo l’ “io bandito” ed il “tu sbirro”. Ha poi fatto i conti con la vita che gli resta da vivere, con gli anni che passano anche per lui, e che pesano più del piombo vomitato dalla sua calibro 9 con matricola abrasa o fattagli arrivare da qualche corrotto in carcere.
Ha pensato a lungo di avere a che fare solo coi sempliciotti, che poteva abbattere a suo piacimento chiudendo uno dei suoi occhi di ghiaccio da dietro il mirino puntato alle spalle di un inerme o dritto al cuore impazzito di paura di una delle sue vittime colte di sorpresa.
Ha pensato di darsi un contegno da intellettuale, raccontando del viso atterrito di una guardia carceraria (all’epoca si chiamavano così) al quale aveva rivolto un’arma chissà come entrata in galera.
Salvo poi finire quasi abbattuto dai colpi dei poliziotti e dei carabinieri che erano fuori delle mura e che lo hanno inchiodato durante la fuga, meravigliandosi che mentre giaceva inerme col sangue in bocca nessuno gli sparò l’ultimo colpo in testa.
Noi non siamo così. Se non averlo ucciso mentre era inerme a terra significa per lui essere dei sempliciotti, lieti di esserlo.
Ma non attacca più.
Oggi, più che mai, siamo contenti della sua ultratrentennale carcerazione. Le sue fughe, le sue malefatte, le sue esecuzioni avranno anche alimentato la fantasia popolare, ma noi non ci caschiamo.
Lui finalmente invecchia e vive una vita che ha negato agli altri, e del suo fascinoso mistero resta solo una foto sbiadita del suo ghigno beffardo, con una sigaretta pendula dalle labbra socchiuse.
Di Luigi D’Andrea e Renato Barborini, restano le terribili immagini di Dalmine che Gabriella, vedova di Luigi, inchiodata al suo destino dagli stessi spari che uccisero il marito, ci ha concesso ancora una volta di pubblicare.
Noi non dimentichiamo.
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