La
prevalenza dell’obesità è in aumento in tutti paesi occidentali, e colpisce
fino ad un terzo della popolazione adulta, con un’incidenza in aumento in età
pediatrica, tanto da far nascere in molti paesi addirittura l’esigenza di
interventi normativi e campagne di informazione. Non soltanto, infatti,
l’obesità costituisce di per sé una malattia ed un grave fattore di rischio per
mortalità e morbilità, ma è anche la causa o la concausa di altre serie
patologie, quali il diabete mellito, l’ipertensione arteriosa, l’iperlipidemia,
la calcolosi della colecisti, l’osteoartrosi. Negli Stati Uniti contribuisce a
300.000 morti/anno, diventando in tal modo la seconda causa di morte dopo il
fumo. L’obesità è una malattia complessa dovuta a fattori genetici, ambientali
ed individuali che comportano alterazioni del bilancio energetico ed accumulo
eccessivo di tessuto adiposo nell’organismo; è determinata, cioè, da uno
squilibrio tra eccessiva introduzione calorica, assoluta o relativa, e dispendio energetico. Con il cibo si assorbono
sostanze che producono energia attraverso reazioni chimiche con l’ossigeno
della respirazione. Queste sostanze vengono immagazzinate in varie forme
nell’organismo, divenendo fonti di energia più o meno prontamente disponibile,
come il glucosio ematico, il glicogeno epatico e cellulare, e gli acidi grassi
del tessuto adiposo. In un soggetto adulto medio, il tessuto adiposo può
contenere una quantità di energia che va dalle 100.000 alle 200.000 kcal e
mobilizzare rapidamente energia tramite una scissione chimica dei trigliceridi
in glicerolo ed acidi grassi liberi. L’obesità può essere frutto di diete ad
elevato tenore di grassi, che, rispetto a carboidrati e proteine, stimolano
meno il senso di sazietà, rendono i cibi più appetibili, e, a parità di
calorie, inducono un maggiore aumento del peso corporeo attraverso un minor
dispendio termoenegetico, o ancora può essere conseguenza di disfunzioni della
tiroide o di altri disturbi ormonali. L’influenza genetica è responsabile delle
anomalie metaboliche che faciliterebbero l’insorgenza dell’obesità, in presenza
di elevata ingestione di alimenti e sedentarismo. Alcuni fattori possono
contribuire all’eccessiva introduzione di cibo: comportamenti impulsivi o compulsivi
per sindromi ansioso-depressive, l’utilizzo di farmaci (antipsicotici,
antidepressivi, antiepilettici, glucocorticoidi, insulina, etc.), influenze
etniche e socio-culturali. Si può parlare di obesità quando si ha un eccesso di
massa grassa di circa il 17% nel maschio ed il 25% nella femmina. La massa
grassa è composta da soli lipidi, e si differenzia, perciò, dal tessuto adiposo
che è composto oltre che da lipidi anche da acqua (14%) e proteine (2%). Per
quantificare il rapporto tra la massa grassa e la massa adiposa vengono
utilizzate alcune tecniche dirette ed indirette, quali la densitometria, la
tomografia computerizzata, la risonanza magnetica, l’impedenziometria, la
plicometria cutanea, ed indici di misurazione, tra i quali il più affidabile è
l’indice di massa corporea (IMC) o Body Mass Index (BMI), che si ottiene
dividendo il peso corporeo (in Kg) per il quadrato dell’altezza (in metri).
Recentemente l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha fissato nuovi criteri
che permettono di classificare l’obesità in base al BMI: vengono definiti
sovrappeso o obesi di I grado i soggetti con indice di massa corporea tra 25 e
29,9, ed obesi di II e III grado quelli con valore di BMI rispettivamente tra
30 e 39,9 e maggiore di 40. In base al rapporto tra la circonferenza della vita
e quella dei fianchi l’obesità si distingue, poi, in androide (addominale)
e ginoide (gluteofemorale). Frequentemente l’approccio terapeutico
all’obesità è riduttivo e semplicistico, e si limita alla prescrizione di una
dieta e al generico invito all’esercizio muscolare; perciò, spesso i risultati
non sono coronati da successo, a causa della cronicità della malattia e della
complessità della sua patogenesi, e l’insuccesso costituisce un ulteriore
problema per il paziente obeso, che si affida, poi, a terapie incongrue ed, a
volte, pericolose. È importante, in primo luogo, perseguire un obiettivo
realisticamente raggiungibile, mirando non al “peso ideale”, ma ad un “peso
ragionevole” mantenuto senza sforzo, e che garantisca buone condizioni di
salute psico-fisica. Si è
dimostrato, infatti, che basta una riduzione del 10-15% del peso iniziale per
indurre miglioramenti significativi in soggetti affetti da ipertensione,
diabete e patologie cardiovascolari. Per raggiungere lo scopo è necessario in
molti casi un trattamento integrato, che coinvolga diverse branche
specialistiche, l’internista, il nutrizionista, lo psicologo ed il chirurgo, e
che si affidi a differenti protocolli terapeutici, ampiamente valutati in
termini di sicurezza ed efficacia. Il controllo dell’alimentazione rappresenta
sempre il perno di ogni terapia per la riduzione del peso corporeo, e si fonda
su diete ipocaloriche, che devono però garantire il fabbisogno
giornaliero di proteine, vitamine e sali minerali, e per questo devono essere
condotte, in particolare quelle più restrittive, sotto stretto controllo
medico. Le diete moderatamente ipocaloriche utilizzate nell’obesità di medio
grado inducono un calo ponderale più lento rispetto a quelle fortemente
ipocaloriche, ma comportano una minore riduzione della massa magra e del
dispendio energetico a riposo, garantendo maggiore efficacia nel tempo. In
molti casi è utile associare interventi psicocomportamentali che tendono
a normalizzare il comportamento alimentare al fine di ridurre l’introito
calorico, e prevedono anche esercizi muscolari di tipo aerobico, che hanno un
ruolo fondamentale nel migliorare le funzioni cardiocircolatoria, respiratoria
e motoria, e nel combattere la sedentarietà propria del paziente in sovrappeso.
La terapia farmacologica, generalmente attuata con anoressizzanti
(sibutramina) o con farmaci ad azione sull’apparato gastrointestinale
(orlistat), comporta significativi effetti collaterali senza un persistente
effetto sul peso corporeo; per questo dovrebbe essere impiegata solo in
pazienti in cui l’indice di massa corporea sia superiore a 30 Kg/m2, ed in
associazione con la terapia dieteticocomportamentale Sono, invece, da evitare
trattamenti con diuretici, ormoni, preparati anfetamino-simili ed associazioni
di farmaci dimagranti. Per i casi di obesità di alto grado, resistente a
qualsiasi tipo di trattamento medico, può essere indicato ricorrere alla terapia
chirurgica, che si basa su due diversi approcci, quello restrittivo e
quello malassorbitivo. Il primo mira al calo ponderale attraverso la
riduzione della capacità di introito di cibo, cioè obbligando il soggetto a
mangiare molto di meno. A tal fine si suddivide lo stomaco, con varie tecniche,
in più “tasche gastriche”, riducendone così il volume, con la sola conseguenza
del vomito, se vi è una rapida o eccessiva introduzione di cibi solidi. Il
malassorbimento si ottiene, invece, attraverso l’intervento di diversione
bilio-pancreatica, che crea un doppio condotto intestinale, ritardando
l’incontro tra cibo e succhi digestivi, così gli alimenti non possono essere
adeguatamente digeriti e quindi assorbiti. Questa tecnica ha dato un buon
risultato a lungo termine nel mantenimento del peso corporeo, anche se
complicata da carenza di ferro, calcio, vitamine e proteine, che possono, però,
essere integrati con un’ appropriata supplementazione.
*Medico Capo Polizia di Stato Ufficio Sanitario – Questura di Ragusa
da "il Centauro n.
108"
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