Dall’ingresso della donna nelle caserme ad oggi a Polizia di Stato conosce la donna da
relativamente poco tempo. Prima della legge 121/81, che ha sancito la
smilitarizzazione del Corpo delle Guardie di P.S., gli uffici di polizia erano
abitati da soli uomini, solo una limitata aliquota di appartamenti alla Polizia
Femminile formata negli anni ‘60 e ‘70. La guerra è un mestiere da
maschi, si sa. Ci vogliono muscoli e cattiveria per confrontarsi con l’avversario,
per non farsi impietosire nel momento in cui, per applicare la legge, si “fa
del male” al cittadino. La Polizia di Stato che vivo ogni giorno vede integrato
(anche se non perfettamente, e vedremo oltre in quali termini) il genere
femminile. Ho trovato colleghe poliziotte ed impiegate dei ruoli civili quando
mi sono arruolato nel 1993 e per me la cosa era perfettamente normale. Ma
quando agli inizi degli anni ’80 le prime donne varcarono le soglie delle
caserme, la reazione del maschile non fu esattamente buona. Dai racconti dei
colleghi che erano già in servizio alla riforma, immagino che il vissuto che
prese ad abitare i neo-smilitarizzati fosse essenzialmente quello dell’intrusione,
della violazione di un privilegio. Simbolicamente, la divisa è in via
primaria un inequivocabile carattere
sessuale secondario che fa gioco nella lotta per la dominanza sugli altri
maschi, ma allo stesso tempo esercita sul femminile il fascino di una colorata
ruota di pavone. Ma se anche il pavone femmina facesse la ruota, non
presterebbe tanta attenzione a quella del maschio. Per questo, dare un pene
simbolico alla donna equivaleva all’altrettanto simbolica diminuzione del
proprio. La reazione che si innescò allora non fu quella che si potrebbe
osservare all’ingresso di una donna in un bar popolato da uomini, dove i petti
comincerebbero a gonfiarsi e dove si accenderebbe una serrata competizione per
lo sfoggio di caratteristiche personali auspicabilmente appetibili. La reazione
fu di superiorità, di distacco, di mortificazione del femminile, che aveva
osato mettere piede dove fino ad allora le era stato impedito. Dietro a tutto
ciò non poteva che esserci la paura, l’angoscia per un’altra grossa fetta di potere
che il già troppo potente genere procreante era riuscito a conquistare.
Implicitamente, all’uomo veniva chiesto di sminuire la propria mascolinità,
perché da quel momento il valoroso lavoro di poliziotto non era più un lavoro
prettamente maschile. Possiamo
immaginare, dunque, che la riforma abbia rappresentato un momento di crisi,
soprattutto per chi aveva radicato nella divisa le fondamenta della propria
identità sessuale maschile. La reazione successiva più naturale per i poliziotti
minacciati fu allora quella di ostentazione dei tratti maschili, attraverso
un iperutilizzo di quello che viene usualmente chiamato linguaggio da
caserma, e di esclusione delle donne da attività e conversazioni. Ma da
tempo ci si è abituati alla presenza del femminile negli uffici di polizia.
L’eco della rivoluzione sessuale è rimbalzata anche sui muri delle caserme e
l’uomo ha pian piano dovuto familiarizzare con l’idea di essere un pò meno
uomo. Negli uffici non si parla più solo di calcio e di automobili, ma anche di
cosmesi e di ricette, ed il giovane poliziotto che la mattina indossa la
divisa, con buone probabilità la sera precedente ha indossato il grembiule da
cucina. Questo però non vuol dire che la sessualità si sia appiattita. A mio
avviso, la sessualità che viene vissuta oggi all’interno di una caserma di
polizia ha due dimensioni: quella istituzionale e quella interpersonale.
La prima risente fortemente del contesto in cui viene vissuta, dei ruoli
gerarchici degli attori e del mandato cui l’istituzione è preposta. Nel momento
in cui lo scambio relazionale tra operatori di sesso diverso si verifica per
fini d’ufficio, da cui il fine prettamente sessuale è ben lontano, riaffiora,
anche se in sordina, il clima della riforma. Spesso l’uomo tende a svalutare
(talvolta a sottovalutare…) la controparte, indipendentemente dal fatto che sia
gerarchicamente sottoposta o meno. Questo fenomeno si verifica non tanto
relativamente ai lavori di ufficio, quanto più ai lavori di tipo operativo,
dove l’uomo si sente generalmente più sicuro ad avere a fianco un altro uomo.
Rispetto ai tempi della riforma c’è una differenza, però: adesso molte donne
sono gerarchicamente superiori a gran parte degli uomini, e sporadicamente
capita di assistere ad una sorta di necessità di riscatto del femminile, che fa
valere il proprio grado sull’uomo. Col tempo, il pene della donna è
cresciuto, ma nonostante sia piuttosto giovane di questo privilegio, la donna
sembra abbia imparato ad usarlo più saggiamente, soltanto quando vi è
costretta, e non per dimostrare chissà cosa. In questa sessualità che ho
chiamato istituzionale, l’indossare una divisa ed avere un grado giocano
dunque ruoli fondamentali, risultando caratteri di dominanza importanti. La
sessualità che ho chiamato interpersonale è invece quella più classica,
quella del corteggiamento, della conquista. Qui la divisa non conta, né tanto
meno il grado. Un ispettore vale quanto un agente, ciò che conta è il sesso dei
due. È questa la sessualità di cui parlano gli etologi, quella del linguaggio
non verbale, della postura del maschio, della sinuosità della donna. È la
sessualità sensuale, del corteggiamento classico, delle attenzioni,
degli incontri fissi al distributore di caffé. Una sessualità che pur essendo
esperita all’interno di un’istituzione non risente di questa se non per il
semplice fatto che gli attori vi
appartengono. È quindi la sessualità che si può osservare in qualsiasi altro
contesto lavorativo più o meno omogeneo dal punto di vista sessuale.
C’è infine
un altro tipo di sessualità che ha a che fare con l’istituzione Polizia di
Stato ed è quella che si esprime attraverso i suoi operatori, soprattutto di
sesso maschile, all’esterno però del contesto istituzionale, fuori cioè dalle
mura della caserma, nella relazione con l’utente. Chiamerò questo tipo di
sessualità istituzionale- interpersonale, dato che pur esprimendosi in
contesti puramente interpersonali, tra operatore ed utente, risente del mandato
dell’istituzione stessa nell’aspetto della tutela dell’incolumità del
cittadino, quindi della protezione. Questa sessualità si esprime nello
stesso modo di quella interpersonale, ed è dunque anch’essa la
sessualità del corteggiamento e della conquista, ma in questo caso, l’operatore
di polizia, soprattutto quello di sesso maschile, trova un vantaggio in termini
evolutivi dall’indossare la divisa. La divisa è potere, è forza, è comando, è
un rappresentante simbolico di dominanza. Sappiamo bene come evolutivamente la
donna sia più favorevolmente attratta dal maschio che possa garantire
protezione, a lei ed alla prole. Ma se un tempo la protezione era garantita
dall’uomo guerriero, muscoloso ed aggressivo, nella cultura dei nostri giorni
questo archetipo si esprime metaforicamente attraverso altri segni di potere.
La divisa dunque è uno strumento di esaltazione del maschile, perché è in
relazione con la forza e non con la tenerezza, con l’attività e non con la
passività. E la donna? La donna con la divisa è ben lontana da tutte queste
dinamiche. A mio avviso, la donna non usa la divisa per la conquista, ma
al limite per difesa. La può usare come scudo nel caso che qualche
audace pretendente indesiderato si spinga oltre i limiti. Difficile che una
donna usi la divisa per una conquista sessuale, e dunque per fini
personali. E questo non certo perché teme l’accusa di peculato.
*Dottore in psicologia, Operatore di Polizia Stradale
da "il Centauro n. 108"
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