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Articoli 21/02/2007

Maschere sulla strada

da "il Centauro"
Maschere sulla strada

di Michele Leoni*



E’ tutt’ora vigente l’art. 85 TULPS, il quale stabilisce che “è vietato comparire mascherato in un luogo pubblico”, e che “è vietato l’uso della maschera nei teatri e negli altri luoghi aperti al pubblico, tranne nelle epoche e con l’osservanza delle condizioni che possono essere stabilite dall’autorità locale con apposito manifesto”. Chi contravviene, e chi, invitato, non si toglie la maschera, è punito con la sanzione amministrativa da euro 10,00 a euro 103,00. Si tratta di fattispecie che fino al 1981 ha avuto rilievo penale, e che la legge 689/1981 depenalizzò. La giurisprudenza su questa norma, peraltro, risale al solo periodo in cui girare mascherati in pubblico senza autorizzazione costituiva reato. E’ quindi assai remota, la più recente risale agli anni Settanta, ed era comunque assai univoca. La Corte di Cassazione, nel 1976 (sentenza n. 11339 dell’8.6.1976) affermava che “il divieto di comparire mascherati in luogo pubblico ha carattere assoluto, essendo diretto ad impedire che mediante il mascheramento possano compiersi reati. A tal fine il mascheramento è vietato ogni qualvolta il travisamento o il travestimento siano effettuati in modo da precludere l’immediato e sicuro riconoscimento del soggetto: ciò avviene, ad esempio, nel caso in cui un uomo si travesta e si trucchi da donna con alterazione dei connotati essenziali del sesso e della persona fisica”. Addirittura concludeva la Cassazione (a quell’epoca) dicendo: “ricorrendo le condizioni a cui si è appena accennato, l’uso di abbigliamento unisex non esclude la configurabilità del reato”. Evidentemente, grande preoccupazione, allora, risiedeva nel pericolo che il viandante, o comunque l’utente della strada (in moto o in auto) non fosse innanzitutto classificabile quanto al sesso, perché questo già pregiudicava la sua riconoscibilità. Tra parentesi, doveva trattarsi di un abbigliamento unisex di pregevolissima fattura, che, soprattutto, annullasse del tutto i contorni dei fianchi e impedisse di farli tipicamente risalire al maschio o alla femmina. Oggi sarebbe difficile porre all’indice tuniche e quant’altro, all’ordine del giorno per chi proviene da paesi arabi e africani. Nulla quaestio, allora, doveva essere per il chador, che viene indossato solo dalle donne (se non fosse che, però, il chador nasconde i connotati). La Cassazione, affermando il divieto “assoluto” stabilito dall’art. 85 TULPS, aveva comunque posto l’accento sul fatto che il mascheramento potesse aiutare, in caso di reati, ad “eludere le indagini e le ricerche della polizia a causa dell’impossibilità e della difficoltà di un immediato e sollecito riconoscimento dell’agente”. Specificava la Corte (in maniera invero tautologica) che si aveva mascheramento “ogni volta che il travisamento o il travestimento del soggetto siano effettuati in modo tale da impedirne il sicuro riconoscimento” (Cass. 2.3.1973, n. 5516). Ma, di nuovo, la Cassazione aveva puntualizzato che comparire mascherati in luogo pubblico significava porsi “in condizioni atte a dissimulare la propria personalità nei caratteri esteriori immediatamente percepibili”, e ciò era possibile “sia occultando i dati somatici del viso con uso di maschera vera e propria, sia mediante travestimento e travisamento delle caratteristiche della persona in maniera da impedirne il riconoscimento”. Pertanto, “dissimulare il proprio sesso (caratteristica della personalità fisica normalmente di sicura acquisizione attraverso i caratteri somatici e l’abito) indossando abiti femminili in modo da apparire di sesso diverso, realizza quella situazione di pericolo sanzionata penalmente
 dell’art. 85 TULPS” (Cass. 23.2.1973, n. 4904). Tanto accanimento sui particolari dell’abbigliamento (e forse anche del trucco) fa pensare che travestiti e viados, allora forse fenomeni incipienti, fossero duramente contrastati. Con sentenza 12.2.1971 n. 151, la Cassazione aveva anche offerto una lettura “autentica” di questa disposizione, affermando che la norma del primo comma dell’art. 85 “ha carattere assoluto, essendo diretta a impedire che mediante il mascheramento, che può attuarsi anche nella forma del travestimento della persona in abiti femminili (ancora!), possano compiersi azioni criminose o illecite, tra le quali vanno annoverate quelle contro il buon costume”, mentre il terzo comma ha carattere relativo, in quanto “consente soltanto in casi eccezionali e con modalità espressamente stabilite, l’uso della maschera vera e propria, quella cioè che copra il viso, che è cosa ben diversa dal travestimento o dal travisamento”. Tanta insistenza sull’ipotesi che, per commettere reati, ci si dovesse travestire con abiti femminili (e perché non anche l’inverso?) forse tradiva una visione un po’ maschilista della criminalità, nel senso che sarebbero i maschi che più facilmente delinquono, e per sviare sospetti o attenzioni mentre lo fanno, si travestono da donne. Anche questi, forse, erano retaggi dell’epoca. Significativo, in ogni caso, era il riferimento ai travestimenti con abiti femminili che meglio consentivano reati contro il buon costume, e che era forse tipico di una non sopita demonizzazione della femmina in quanto tale. In questi termini, più esplicita ancora era un’altra pronuncia, ove si diceva che il travestimento con abiti femminili era “correlativo alla maggiore facilità di commissione di reati o di attentati alla pubblica moralità” (Cass. 20.10.1969, n. 1311). Dichiaratamente, poi, un’altra sentenza aveva affrontato il problema, adducendo a chiare lettere che “nelle ipotesi di travestimento o travisamento vietato rientrava il fatto dell’omosessuale che, per esercitare la prostituzione, si presenta in luogo pubblico accuratamente travestito da donna rendendosi facilmente riconoscibile” (Cass. 17.3.1969, n. 423). Oggi, veramente, pare del tutto superata un’ottica di questo genere. La prostituzione dell’omosessuale (maschio) non sembra abbisognare di travestimenti tesi a dissimulare la propria identità per non essere scoperti dalle forze dell’ordine, quanto, più prosaicamente, a rendersi più appetibili in relazione alle multiformi perversioni possibili. L’avversione per questo genere di messe in scena aveva portato anche ad affermare che rispondeva del reato di cui al primo comma dell’art. 85 (ossia, di contravvenzione al c. d. “divieto assoluto”) chi si travestiva “in abiti donneschi senza maschera sul viso” (Cass. 7.11.1967, n. 1644). Insomma, il corpo era più espressivo della faccia. Come si vede, una simile fioritura di giurisprudenza di legittimità su un reato di importanza così secon- daria da essere di lì a poco depenalizzato, si spiegava con una particolare e peculiare idiosincrasia per i travestimenti e la commistione dei sessi. Anche perché, come detto, razionalmente, un uomo vestito con abiti femminili, ma a volto scoperto, scrutando bene la sua faccia, dovrebbe essere riconoscibile (a meno che non ci si trovi di fronte a un trasformista di professione alla Leopoldo Fregoli, ma questa è solo un’ipotesi di scuola). E’ molto più pericoloso un guappo in motorino col casco, che si dedica agli scippi nei violetti, ad esempio. E poi, di nuovo, occorre chiedersi perché una donna travestita da uomo (magari con barba e baffi finti) non potesse essere egualmente pericolosa, o forse più. Tutta questa ansia e preoccupazione per l’uomo mascherato (rectius, travestito) da donna, poi, nemmeno si conciliava con un’austera e tassativa pronuncia della Corte Costituzionale intervenuta proprio in quegli anni (sentenza n. 39 dell’11.3.1970), ove si dichiarava la illegittimità costituzionale dell’art. 220 TULPS nella parte in cui imponeva l’arresto obbligatorio di chi contravveniva al divieto di comparire mascherato in luogo pubblico, in quanto, affermava la Corte, “di per sé, la mascheratura non denota alcuna pericolosità del soggetto attivo”. Oggi, forse, una simile visuale andrebbe riveduta e corretta. Con il proliferare delle occasioni di feste mascherate (non solo Carnevale, ma anche Halloween e varie saghe più o meno paesane), le occasioni per delinquere approfittando della mascheratura consentita da usi e consuetudini è un rischio reale (la cronaca anche recente lo conferma). Occorrerebbe, allora, una regolamentazione seria, che andasse al di là della semplice sopravvivenza di un articoletto depenalizzato che stabilisce una piccola sanzione pecuniaria. Anche perché, seriamente, se un soggetto mascherato invitato a togliersi la maschera non ottempera all’invito, come si fa a contestargli immediatamente l’infrazione, come prescritto dall’art. 14 legge 689/1981? Lo si identifica mentre lui mostra i documenti tenendo la maschera? Impossibile, in questo modo potrebbe presentare i documenti di chiunque. Occorrerà, allora, mettergli le mani addosso, cioè togliergli la maschera coattivamente, attraverso una perquisizione ai sensi dell’art. 352 cpp, ritenendo che questo indebito rifiuto sia funzionale a qualcosa di grave (la commissione di un reato), oppure, ai sensi dell’art. 349 c. 4 cpp, condurlo al più vicino comando di polizia per identificarlo compiutamente, e dove egli potrà essere trattenuto fino a dodici ore. Nel caso poi il soggetto volesse tenere la maschera per tutte le dodici ore, sarebbe veramente da perquisire. E allora, sarebbe meglio regolamentare in maniera più penetrante e coerente l’uso della maschera, anche (e soprattutto) in occasione nelle feste comandate (per la maschera).
 

*Gip presso il Tribunale di Forlì
da "il Centauro n. 109" 
 

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Mercoledì, 21 Febbraio 2007
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