E’ tutt’ora vigente l’art. 85 TULPS, il quale stabilisce che “è vietato
comparire mascherato in un luogo pubblico”, e che “è vietato l’uso della
maschera nei teatri e negli altri luoghi aperti al pubblico, tranne nelle
epoche e con l’osservanza delle condizioni che possono essere stabilite
dall’autorità locale con apposito manifesto”. Chi contravviene, e chi,
invitato, non si toglie la maschera, è punito con la sanzione amministrativa da
euro 10,00 a euro 103,00. Si tratta di fattispecie che fino al 1981 ha avuto
rilievo penale, e che la legge 689/1981 depenalizzò. La giurisprudenza su
questa norma, peraltro, risale al solo periodo in cui girare mascherati in
pubblico senza autorizzazione costituiva reato. E’ quindi assai remota, la più
recente risale agli anni Settanta, ed era comunque assai univoca. La Corte di
Cassazione, nel 1976 (sentenza n. 11339 dell’8.6.1976) affermava che “il
divieto di comparire mascherati in luogo pubblico ha carattere assoluto, essendo
diretto ad impedire che mediante il mascheramento possano compiersi reati. A
tal fine il mascheramento è vietato ogni qualvolta il travisamento o il
travestimento siano effettuati in modo da precludere l’immediato e sicuro
riconoscimento del soggetto: ciò avviene, ad esempio, nel caso in cui un uomo
si travesta e si trucchi da donna con alterazione dei connotati essenziali del
sesso e della persona fisica”. Addirittura concludeva la Cassazione (a
quell’epoca) dicendo: “ricorrendo le condizioni a cui si è appena accennato,
l’uso di abbigliamento unisex non esclude la configurabilità del reato”.
Evidentemente, grande preoccupazione, allora, risiedeva nel pericolo che il
viandante, o comunque l’utente della strada (in moto o in auto) non fosse
innanzitutto classificabile quanto al sesso, perché questo già pregiudicava la
sua riconoscibilità. Tra parentesi, doveva trattarsi di un abbigliamento unisex
di pregevolissima fattura, che, soprattutto, annullasse del tutto i contorni
dei fianchi e impedisse di farli tipicamente risalire al maschio o alla
femmina. Oggi sarebbe difficile porre all’indice tuniche e quant’altro,
all’ordine del giorno per chi proviene da paesi arabi e africani. Nulla
quaestio, allora, doveva essere per il chador, che viene indossato solo dalle
donne (se non fosse che, però, il chador nasconde i connotati). La Cassazione,
affermando il divieto “assoluto” stabilito dall’art. 85 TULPS, aveva comunque
posto l’accento sul fatto che il mascheramento potesse aiutare, in caso di
reati, ad “eludere le indagini e le ricerche della polizia a causa
dell’impossibilità e della difficoltà di un immediato e sollecito
riconoscimento dell’agente”. Specificava la Corte (in maniera invero
tautologica) che si aveva mascheramento “ogni volta che il travisamento o il
travestimento del soggetto siano effettuati in modo tale da impedirne il sicuro
riconoscimento” (Cass. 2.3.1973, n. 5516). Ma, di nuovo, la Cassazione aveva
puntualizzato che comparire mascherati in luogo pubblico significava porsi “in
condizioni atte a dissimulare la propria personalità nei caratteri esteriori
immediatamente percepibili”, e ciò era possibile “sia occultando i dati
somatici del viso con uso di maschera vera e propria, sia mediante
travestimento e travisamento delle caratteristiche della persona in maniera da
impedirne il riconoscimento”. Pertanto, “dissimulare il proprio sesso
(caratteristica della personalità fisica normalmente di sicura acquisizione
attraverso i caratteri somatici e l’abito) indossando abiti femminili in modo
da apparire di sesso diverso, realizza quella situazione di pericolo sanzionata
penalmente dell’art.
85 TULPS” (Cass. 23.2.1973, n. 4904). Tanto accanimento sui particolari
dell’abbigliamento (e forse anche del trucco) fa pensare che travestiti e
viados, allora forse fenomeni incipienti, fossero duramente contrastati. Con
sentenza 12.2.1971 n. 151, la Cassazione aveva anche offerto una lettura
“autentica” di questa disposizione, affermando che la norma del primo comma
dell’art. 85 “ha carattere assoluto, essendo diretta a impedire che mediante il
mascheramento, che può attuarsi anche nella forma del travestimento della
persona in abiti femminili (ancora!), possano compiersi azioni criminose
o illecite, tra le quali vanno annoverate quelle contro il buon costume”,
mentre il terzo comma ha carattere relativo, in quanto “consente soltanto in
casi eccezionali e con modalità espressamente stabilite, l’uso della maschera
vera e propria, quella cioè che copra il viso, che è cosa ben diversa dal
travestimento o dal travisamento”. Tanta insistenza sull’ipotesi che, per
commettere reati, ci si dovesse travestire con abiti femminili (e perché non
anche l’inverso?) forse tradiva una visione un po’ maschilista della
criminalità, nel senso che sarebbero i maschi che più facilmente delinquono, e
per sviare sospetti o attenzioni mentre lo fanno, si travestono da donne. Anche
questi, forse, erano retaggi dell’epoca. Significativo, in ogni caso, era il
riferimento ai travestimenti con abiti femminili che meglio consentivano reati
contro il buon costume, e che era forse tipico di una non sopita demonizzazione
della femmina in quanto tale. In questi termini, più esplicita ancora era
un’altra pronuncia, ove si diceva che il travestimento con abiti femminili era
“correlativo alla maggiore facilità di commissione di reati o di attentati alla
pubblica moralità” (Cass. 20.10.1969, n. 1311). Dichiaratamente, poi, un’altra
sentenza aveva affrontato il problema, adducendo a chiare lettere che “nelle
ipotesi di travestimento o travisamento vietato rientrava il fatto
dell’omosessuale che, per esercitare la prostituzione, si presenta in luogo
pubblico accuratamente travestito da donna rendendosi facilmente riconoscibile”
(Cass. 17.3.1969, n. 423). Oggi, veramente, pare del tutto superata un’ottica
di questo genere. La prostituzione dell’omosessuale (maschio) non sembra
abbisognare di travestimenti tesi a dissimulare la propria identità per non
essere scoperti dalle forze dell’ordine, quanto, più prosaicamente, a rendersi
più appetibili in relazione alle multiformi perversioni possibili. L’avversione
per questo genere di messe in scena aveva portato anche ad affermare che
rispondeva del reato di cui al primo comma dell’art. 85 (ossia, di
contravvenzione al c. d. “divieto assoluto”) chi si travestiva “in abiti
donneschi senza maschera sul viso” (Cass. 7.11.1967, n. 1644). Insomma, il
corpo era più espressivo della faccia. Come si vede, una simile fioritura di
giurisprudenza di legittimità su un reato di importanza così secon- daria da essere di lì a poco depenalizzato, si
spiegava con una particolare e peculiare idiosincrasia per i travestimenti e la
commistione dei sessi. Anche perché, come detto, razionalmente, un uomo vestito
con abiti femminili, ma a volto scoperto, scrutando bene la sua faccia,
dovrebbe essere riconoscibile (a meno che non ci si trovi di fronte a un
trasformista di professione alla Leopoldo Fregoli, ma questa è solo un’ipotesi
di scuola). E’ molto più pericoloso un guappo in motorino col casco, che si
dedica agli scippi nei violetti, ad esempio. E poi, di nuovo, occorre chiedersi
perché una donna travestita da uomo (magari con barba e baffi finti) non
potesse essere egualmente pericolosa, o forse più. Tutta questa ansia e
preoccupazione per l’uomo mascherato (rectius, travestito) da donna, poi,
nemmeno si conciliava con un’austera e tassativa pronuncia della Corte
Costituzionale intervenuta proprio in quegli anni (sentenza n. 39
dell’11.3.1970), ove si dichiarava la illegittimità costituzionale dell’art.
220 TULPS nella parte in cui imponeva l’arresto obbligatorio di chi
contravveniva al divieto di comparire mascherato in luogo pubblico, in quanto,
affermava la Corte, “di per sé, la mascheratura non denota alcuna pericolosità
del soggetto attivo”. Oggi, forse, una simile visuale andrebbe riveduta e
corretta. Con il proliferare delle occasioni di feste mascherate (non solo
Carnevale, ma anche Halloween e varie saghe più o meno paesane), le occasioni
per delinquere approfittando della mascheratura consentita da usi e
consuetudini è un rischio reale (la cronaca anche recente lo conferma).
Occorrerebbe, allora, una regolamentazione seria, che andasse al di là della
semplice sopravvivenza di un articoletto depenalizzato che stabilisce una
piccola sanzione pecuniaria. Anche perché, seriamente, se un soggetto
mascherato invitato a togliersi la maschera non ottempera all’invito, come si
fa a contestargli immediatamente l’infrazione, come prescritto dall’art. 14
legge 689/1981? Lo si identifica mentre lui mostra i documenti tenendo la
maschera? Impossibile, in questo modo potrebbe presentare i documenti di
chiunque. Occorrerà, allora, mettergli le mani addosso, cioè togliergli
la maschera coattivamente, attraverso una perquisizione ai sensi dell’art. 352
cpp, ritenendo che questo indebito rifiuto sia funzionale a qualcosa di grave
(la commissione di un reato), oppure, ai sensi dell’art. 349 c. 4 cpp, condurlo
al più vicino comando di polizia per identificarlo compiutamente, e dove egli
potrà essere trattenuto fino a dodici ore. Nel caso poi il soggetto volesse
tenere la maschera per tutte le dodici ore, sarebbe veramente da perquisire. E
allora, sarebbe meglio regolamentare in maniera più penetrante e coerente l’uso
della maschera, anche (e soprattutto) in occasione nelle feste comandate (per
la maschera).
*Gip presso il Tribunale di Forlì
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