Chi causa ad un altro soggetto l’impotenza
a seguito di un incidente ha l’obbligo di risarcire alla vittima il “danno
esistenziale”. Lo ha stabilito la Terza Sezione Civile della Corte di
Cassazione accogliendo il ricorso di un giovane che, in seguito ad un incidente
automobilistico causato esclusivamente dall’altro conducente, aveva riportato
una “impotentia coeundi” con conseguente “sindrome soggettiva ansioso
depressiva”. Sia il Tribunale di Roma in primo grado che la Corte di Appello in
secondo grado, non avevano riconosciuto al giovane il c.d. “danno biologico”
derivante dalla sua sofferenza psichica, e per questo questi si era rivolto
alla Cassazione. La Suprema Corte ha invece ricordato che, come affermato dalla
Corte Costituzionale, il “diritto alla sessualità” rientra tra i “diritti umani
inviolabili della persona (art. 2)”, per cui la perdita della sessualità
costituisce anche danno biologico, e la perdita o la compromissione anche
soltanto psichica della sessualità (come avviene nei casi di stupro e di
pedofilia) costituisce di per sé “un danno esistenziale, la cui rilevanza deve
essere autonomamente apprezzata e valutata equitativamente in termini non
patrimoniali e con una congrua stima dell’equivalente economico del debito di
valore”. (28 febbraio 2007)
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Terza Civile,
sentenza n.2311/2007
SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati: Dott. Gaetano NICASTRO -
Presidente- Dott. Giovanni Battista PETTI -
Rel. Consigliere – Dott. Nino FICO - Consigliere- Dott. Alberto TALEVI -
Consigliere- Dott. Luigi Alessandro SCARANO -
Consigliere- Ha pronunciato la seguente SENTENZA Sul ricorso proposto da: C.L. elettivamente domiciliata
in ROMA VIA GIUSEPPE FERRARI 11, presso lo studio dell’Avvocato Walter DE FAZI,
giusta delega in atti; -ricorrente- Contro WINTERTHUR ASSIC S.p.A., G. S. ,
D.M.M.P. -intimati- Avverso la sentenza n. 1795/02
della Corte d’Appello di Roma, sezione quarta civile emessa il16/04/2002,
depositata il 08/05/02; RG. 4257/1999; udita la relazione della causa
svolta nella pubblica udienza del 01/12/06 dal Consigliere Dott. Giovanni
Battista PETTI; udito il P.M. in persona del
Sostituto Procuratore Generale Dott. Pietro ABBRITTI che ha concluso per
l’accoglimento p.q.r. del ricorso. SVOLGIMENTO
DEL PROCESSO Con citazione (15/29 luglio
1997) C.L., nella veste di danneggiato da incidente stradale (avvenuto in Roma
il 23 giugno 1994) conveniva dinanzi al tribunale di Roma il conducente
danneggiante M.P.M., il proprietario assicurato S.G. e l’impresa assicuratrice
Winterthur e ne chiedeva la condanna in solido al risarcimento di tutti i
danni, biologici, morali, patrimoniali e non patrimoniali conseguenti
all’incidente, riferito alla responsabilità esclusiva della M. . Si costituiva
la impresa assicuratrice contestando le pretese, restavano contumaci le altre
parti. Il tribunale di Roma, con
sentenza del 10 giugno 1999 accertava la responsabilità esclusiva della
conducente M. venuta a collisione con il veicolo condotto da C., e condannava
in solido l’impresa e le parti convenute al risarcimento dei danni nella misura
complessiva di 810 milioni ai valori attuali, oltre interessi legali e spese di
lite da distrarsi in favore del difensore antistatario. La decisione era
impugnata dalla Winterthur che ne chiedeva la riforma sulla base di due motivi,
resisteva il C. e proponeva appello incidentale per una migliore liquidazione
delle voci di danno biologico e per la grave compromissione dell’attività sessuale.
Restavano contumaci le altre parti. La Corte di appello di Roma con sentenza
del 8 maggio 2002 così decideva: accoglie l’appello principale per quanto di
ragione, rideterminando la liquidazione (vedi amplius in motivazione) e
compensando tra le parti la metà delle spese dei due gradi del giudizio,
ponendo il resto a carico dell’assicuratrice; rigetta l’appello incidentale ed
incidentale condizionato. Contro la decisione ricorre il
C. deducendo tre motivi di ricorso; le controparti non hanno svolto difese. MOTIVI
DELLA DECISIONE Il ricorso è infondato in ordine
al primo motivo, mentre merita accoglimento per il secondo ed il terzo per le
seguenti considerazioni. Nel primo motivo si deduce l’error in iudicando per la violazione degli articoli 1224, 1226, 2056 del codice civile [1], in punto di ridotta liquidazione del danno da inabilità, in accoglimento della censura dell’assicurazione. La tesi è che essendo
convenzionale, quale parametro di riferimento, la tabella attuariale del
tribunale di Roma in ordine alle poste risarcitorie della inabilità assoluta e
relativa del danneggiamento, era apodittica la riduzione basata sul parametro
delle tabelle, essendo la liquidazione a carattere equitativo. In senso contrario si osserva
che la Corte (ff 8 della motivazione) riduce lo aumento della diaria
giornaliera, compiuto dal primo giudice, in quanto non giustificato, dal
momento che la liquidazione è stata determinata all’attualità della sentenza,
allorché erano in vigore le tabelle elaborate dal tribunale. Tale riduzione rientra nel
potere discrezionale valutativo dalla congruità della perdita non patrimoniale
(tale essendo la incapacità del fare in relazione alla inabilità che precede la
guarigione), sulla base di una specifica censura. Il motivo di ricorso sostiene
invece una migliore misura, ma non indica le ragioni della maggioranza o della
erroneità dei parametri utilizzati al fine del migliore ristoro: difetta dunque
di specificità e concerne un apprezzamento in fatto adeguatamente motivato. Nel secondo motivo di ricorso si
deduce l’error in iudicando ed il vizio della motivazione, insufficiente e
contraddittoria, in merito alla perdita della capacità lavorativa, pur evidente
nella consequenzialità di una invalidità calcolata nella misura del 20 per
cento. La censura è fondata, essendo
carente sul punto la motivazione (ff 8 e 9 della sentenza), là dove esclude la
maggiore usura delle energie psicofisiche dello infortunato, adagiandosi sul
parere negativo del consulente di ufficio. Come è noto il riconoscimento
della perdita della capacità lavorativa generica, come componente strutturale
del danno biologico nella sua complessità e nella sua natura dinamica e
permanente, risale a teorie scientifiche della medicina legale italiana, ed è
scientificamente testata come perdita di capacità lavorativa, per la permanente
riduzione della resistenza fisica al lavoro esercitato o alle chances
lavorative, secondo l’evoluzione delle offerte di lavoro e delle libere scelte
del giovane lavoratore. La stessa riforma del mercato di lavoro si fonda sul
principio della mobilità. Orbene, se è logico che nella valutazione globale del
danno biologico, la indicazione del punteggio finale derivi dalla valutazione
di tutte le componenti, fisiche e psichiche, interrelazionali ed esistenziali
(come si desume dalla definizione analitica del danno biologico di non lieve
entità, contenuta nell’art. 138 del codice di assicurazione, che considera i
criteri uniformi di risarcimento ai fini dell’illecito civile della
circolazione) al fine della realizzazione del principio fondamentale del
risarcimento integrale del danno alla persona (cfr: Corte Cost. sent. 14 giugno
1986 n. 184 e Cass. 22 giugno 2001 n. 8899 e successive, sino a Cass. 1
dicembre 2004 n. 22599), la esclusione di tale componente fisico psichica
usurante da una compromissione non lieve e permanente della salute, appare una
contraddizione in termini e deve essere adeguatamente motivata, posto che deve
essere a prova scientifica controfattuale. Si vuol dire che per la regola
causale della probabilità elevata, la lesione grave della salute reca come
conseguenza negativa una apprezzabile perdita della capacità lavorativa. Il
negare tale rilevanza costituisce fattore eccezionale, presente in taluni casi
in cui, per la eminente attività intellettuale prestata, una menomazione
psicofisica potrebbe non incidere sulla potenzialità delle capacità lavorative,
pur compromesse. Esigere dal lavoratore una prova rigorosa in relazione al cd.
danno futuro, o negare la natura biologica di tale perdita, contraddice la
stessa configurazione del danno biologico come danno a struttura complessa, che
incide su bari aspetti della vita fisica e psichica della persona. Il motivo
appare dunque fondato in relazione alla illogicità della motivazione, che non
personalizza il danno biologico in relazione a tale componente essenziale, data
la gravità del danno. Sotto altro aspetto la perdita
della capacità lavorativa integra la lesione del diritto del cittadino ad
accedere al lavoro in condizioni di piena integrità (cfr. art. 4 della
Costituzione correlato agli articoli 3 secondo comma e 32 della Costituzione e
cfr.Corte Cost. 9 giugno 1965 n. 45) e come tale ha un autonomo rilievo come
perdita patrimoniale, ove l’attività lavorativa sia in atto. Il motivo dev’essere pertanto
accolto ed il giudice di rinvio dovrà attenersi ai principi di diritto come
sopra enunciati, attraverso una valutazione analitica ed a prova scientifica e
causale, in relazione alla presenza di una menomazione della capacità
lavorativa, in soggetto in età lavorativa. Parimenti fondato appare il
terzo motivo dove si deduce la mancata liquidazione della perdita della
capacità di avere rapporti sessuali per la conseguita impotenza coeundi (per la
invalidità dell’asta virile e la insufficienza del tono erettile) con
conseguente sindrome soggettiva ansioso depressiva. La sentenza impugnata sul punto
sorvola, con una enunciazione illogica e contraria al principio fondamentale
della inviolabilità dei diritti umani (art. 2 della Costituzione e Corte Cost.
28 luglio 1983 n. 242 secondo cui i diritti inviolabili sono quei diritti che
costituiscono il patrimonio irretrattabile della persona umana). Si legge in
vero nella motivazione (ff 11) "Il collegio ritiene che il danno esistenziale
o la lesione dei diritti umani non sono categorie che esulano dal danno
biologico, così come inteso dalla dottrina e dalla giurisprudenza. Se così è ,
deve ritenersi che il CTU abbia tenuto conto di tutte le circostanze, nel
momento in cui ha determinato i postumi nella misura del 20%". Dove il ragionamento è errato in
punto di principi fondamentali, posto che i diritti umani inviolabili né si
confondono con i danni esistenziali né restano assorbiti nella globalità e
complessità del danno biologico, ove abbiano una lesione propria,
giuridicamente configurata come lesione del diritto. Quanto al diritto alla
sessualità, occorre ricordare l’incipit della Corte Costituzionale (Corte Cost.
sentenza 18 dicembre 1987 n. 561) che lo inquadra tra i diritti inviolabili
della persona (art. 2), come modus vivendi essenziale per lo espressione e lo
sviluppo della persona. Certamente la perdita della sessualità costituisce
anche danno biologico (la cui valutazione nelle tabelle medico legali
convenzionali supera normalmente il livello della micropermanente e determina
un rilevante ritocco del punteggio finale) consequenziale alla lesione per
fatto della circolazione (come è nel caso di specie), ma nessuno ormai nega (v:
da ultimo Cass. SSUU 24 marzo 2006 n. 6572 e Cass. III sez. civile 12 giugno
2996 n. 13546) che la perdita o la compromissione anche soltanto psichica della
sessualità (come avviene nei casi di stupro e di pedofilia) costituisca di per
sé un danno esistenziale, la cui rilevanza deve essere autonomamente apprezzata
e valutata equitativamente in termini non patrimoniali e con una congrua stima
dell’equivalente economico del debito di valore. Non vengono qui in questione
altri aspetti inerenti alla procreazione o alla vita sessuale familiare, dato
lo status della vittima, ma certamente questi ulteriori aspetti sarebbero
rilevanti ai fini della equilibrata valutazione del danno anche ai fini di un
congruo ristoro. L’accoglimento del secondo e del
terzo motivo determina il rinvio ad altra sezione della corte di appello di
Roma che si atterrà ai principi di diritto come sopra enunciati nella
considerazione della compromissione della capacità lavorativa e della capacità
sessuale, e dei conseguenti effetti sulle perdite patrimoniali e non
patrimoniali seguendo i principi espressi dalla corte Costituzionale e da
questa Corte nelle sentenze sopraccitate. Il giudice del rinvio provvederà
anche in ordine alle spese di questo giudizio di cassazione. P.Q.M. Rigetta il primo motivo del
ricorso, accoglie il secondo ed il terzo, cassa in relazione e rinvia anche per
le spese del giudizio di cassazione ad altra sezione della Corte di appello di
Roma. Roma 1 dicembre 2006 Il relatore G.B. Petti Il
Presidente G. Nicastro DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 2 FEBBRAIO 2007 |
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