L’azione
risarcitoria, proposta dall’assicurato – ai sensi del 2° comma dell’art. 33
della legge n. 287 del 1990 – nei confronti dell’assicuratore che sia stato
sottoposto a sanzione dell’AGCM per aver partecipato ad un’intesa
concorrenziale, tende alla tutela dell’interesse giuridicamente protetto (dalla
normativa comunitaria, dalla Costituzione e dalla legislazione nazionale) a
godere dei benefici della libera competizione commerciale, nonché alla
riparazione del danno ingiusto, consistente nell’aver pagato un premio di
polizza superiore a quello che l’assicurato stesso avrebbe pagato in condizioni
di libero mercato. In
siffatta azione l’assicurato ha l’onere di allegare la polizza assicurativa
contratta e l’accertamento, in sede amministrativa, dell’intesa
anticoncorrenziale. Il giudice di merito potrà desumere l’esistenza del nesso
causale tra quest’ultima ed il danno lamentato anche attraverso criteri di alta
probabilità logica o per il tramite di presunzioni, senza però omettere di
valutare gli elementi di prova offerti dall’assicuratore che tenda a provare
contro le presunzioni o a dimostrare l’intervento di fattori causali diversi,
che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano concorso a
produrlo. Accertata l’esistenza di un danno risarcibile, il giudice potrà
procedere in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., alla relativa
liquidazione, determinando l’importo risarcitorio in una percentuale del premio
pagato, al netto delle imposte e degli oneri vari. Circa
la prescrizione la Suprema Corte definisce quello esaminato un esempio di danno
lungolatente, distinguendo due momenti distinti: 1) quello dell’inflizione del
danno - da parte della compagnia - e 2) quello della sua percezione - da parte
dell’assicurato; momenti questi che non coincidono, divisi quindi da uno stacco
temporale. L’esordio della prescrizione, precisa la Corte, non può essere
collegato, in particolare, né al momento in cui l’accertamento dell’esistenza
di intese anticoncorrenziali assume la sua definitività in sede giudiziaria
amministrativa (Sent. del Consiglio di stato), né (come vorrebbero le
compagnie) al momento in cui fu stipulata la polizza assicurativa e, dunque,
all’atto del pagamento del premio. L’assicurato
ha avuto completa conoscenza del danno e della sua ingiustizia in un momento
successivo, ossia nel momento in ci è stato adeguatamente e ragionevolmente
informato circa il fatto che quell’aumento era conseguenza di un’intesa
vietata, nulla, e non il giusto prezzo di mercato. L’azione
di risarcimento del danno da intesa concorrenziale si prescrive, pertanto in
base agli artt. 2935 e 2947 c.c., in cinque anni dal giorno in cui chi assume
di aver subito il danno abbia avuto, usando l’ordinaria diligenza, ragionevole
ed adeguata conoscenza del danno e della sua ingiustizia. Il relativo
accertamento, infine, compete al giudice del merito ed è incensurabile in
cassazione, se sufficientemente e coerentemente motivato. (Altalex,
26 marzo 2006. Nota di Pierpaolo
Damiano) SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 2 febbraio 2007, n. 2305 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi
Sigg.ri Magistrati: Dott. Paolo VITTORIA -
Presidente – Ha
pronunciato la seguente SENTENZA sul
ricorso proposto da: FONDIARIA
SAI Spa (già denominata Sai – Società Assicuratrice Industriale Spa), in
persona dell’avvocato L. T., elettivamente domiciliata in ROMA VIA xxxxxx,
presso lo studio dell’avvocato xxxxxxx, che la difende unitamente all’avvocato
xxxxxx, giusta delega in atti; · ricorrente
– contro N.
R., elettivamente domiciliata in ROMA VIA xxxxxx, presso lo studio dell’avvocato
xxxxx, difesa dall’avvocato xxxxx, giusta delega in atti; · controricorrente
– avverso
la sentenza n. 1310/05 della Corte d’Appello di NAPOLI, prima sezione civile,
emessa il 27/04/05, depositata il 03/05/05, R.G. 4119/02; udita
la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/10/06 dal
Consigliere Dott. Angelo SPIRITO; uditi
gli avvocati xxxxx udito
il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Eduardo Vittorio
SCARDACCIONE, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo La
N., avendo stipulato un contratto di assicurazione per la R.c.a. con la SAI
Spa, relativamente al periodo 30 aprile 1996 al 1997, convenne quest’ultima in
giudicato per essere risarcita, ai sensi dell’art. 33, 2°comma, della legge n.
287 del 1990, del danno subito a seguito dell’intesa anticoncorrenziale alla
quale quella società aveva partecipato insieme con altre compagnie, accertata e
sanzionata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato con
provvedimento n. 8546 del 28 luglio 2000. Danno quantificato nel 20% della
somma pagata a titolo di premio d’assicurazione. La
Corte di Appello di Napoli accolse la domanda, condannando la convenuta al
pagamento in favore dell’attrice della somma di € 19,68, pari al 20% del premio
versato (€.98,39). In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che:
risulta provata l’avvenuta stipula di un contratto di assicurazione tra le
parti; l’AGCM ha accertato la violazione, da parte di numerose compagnie
assicuratrice (tra le quali la convenuta), del divieto sancito dall’art. 2
della legge 10 ottobre 1990, n. 287, per avere realizzato un’intesa restrittiva
della libertà di concorrenza in tema di assicurazione della R.c.a., irrogando
una sanzione amministrativa; alla stregua dei principi dettati da Cass. Sez.
Un. n°2207 del 2005, l’assicurata è legittimata ad agire per il risarcimento
del danno derivante dall’intesa illecita (e, quindi) posta in essere dalle
compagnie assicuratrici; l’illecito comportamento della SAI Ass.ni Spa ha sicuramente
cagionato all’assicurata il danno corrispondente alla differenza tra la somma
pagata per la polizza assicurativa ed il prezzo immune dalle alterazioni
derivanti dall’intesa; il nesso di causalità tra intesa illecita ed aumento del
costo della polizza (riscontrabile mediante il rapporto di sequenza costante,
secondo il calcolo di regolarità statistica, tra antecedente e dato
consequenziale) è desumibile dall’accertamento dell’Autorità Garante (la
discrepanza tra tasso di crescita del parco veicoli e quello della raccolta
premi, raddoppiata tra il 1990 ed il 1998 – il raddoppio del premio medio
pagato dagli assicurati nei cinque anni successivi alla liberalizzazione del
mercato – nel periodo immediatamente successivo alla liberalizzazione
tariffaria l’Italia era il paese in cui l’assicurazione in questione costava
meno, mentre alla fine del 1999 era diventata la più costosa – in cinque anni i
prezzi erano cresciuti del 63% rispetto alla media europea); l’impossibilità di
provare il danno o, comunque, la notevole difficoltà di una sua precisa
quantificazione impone l’utilizzo di criteri equitativi per liquidare il
risarcimento e, nella fattispecie, è equo determinarlo nella misura del 20% del
premio di polizza pagato dall’assicurata; non s’è compiuto il termine di
prescrizione quinquennale, decorrente dalla data di accertamento definitivo
dell’illecito (costituito dalle summenzionate intese restrittive della libertà
di concorrenza). Avverso
tale sentenza propone ricorso per cassazione la Fondiaria Sai Ass.ni (già SAI
Spa), a mezzo di quattro motivi. Risponde con controricorso la N.. Entrambe le
parti hanno depositato memorie per l’udienza. In data 15 dicembre 2006 il
Collegio si è riconvocato per la decisione. Motivi della decisione I.1
– Con il primo motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione artt. 2043,
2056, 1223, 2697 c.c.) la SAI, anche attraverso il riferimento ad alcuni passi
di Cass. Sez. Un. 9 dicembre 2002, n. 17475, pone in evidenza la diversità
esistente tra il piano di tutela concernente i rapporti tra le imprese e quello
concernente i rapporti tra imprese e consumatori finali, per dedurne che non
basta l’accertamento della verificazione di un’intesa vietata perché il
consumatore possa allegare un danno ingiusto e chiederne il ristoro. Sostiene,
piuttosto, che il consumatore, per ottenere la tutela aquilana ha l’onere di
far valere un proprio diritto soggettivo, infranto nel singolo e determinato
rapporto, da un comportamento antigiuridico della compagnia assicuratrice, il
quale sia, a sua volta, eziologicamente collegato con il danno allegato. La
ricorrente rimarca, dunque, la differenza tra intese “aventi ad oggetto” ed
intese “aventi ad effetto” la restrizione della concorrenza, ex art. 2 della
citata legge, ed argomenta che l’Autorità Garante, valutando l’intesa in
questione come compresa nella prima categoria, ha evitato di esperire indagini
sugli eventuali effetti distorsivi prodotti sul mercato della condotta
contestata. L’assicurata avrebbe dovuto, pertanto, provare che l’intesa accertata
dell’Autorità le aveva arrecato uno specifico pregiudizio. Di
qui – a parere della ricorrente – l’errore della sentenza impugnata, che, per
un verso, avrebbe emesso condanna risarcitoria senza individuare né il diritto
soggettivo leso, né il comportamento antigiuridico tenuto dalla compagnia nel
singolo concreto rapporto, né il nesso di causalità tra condotta ed evento e,
per altro verso, avrebbe desunto la prova del danno dalla prova per presunzioni
del nesso causale, senza che ne esistessero i presupposti. In conclusione, la
società denunzia il salto logico compiuto dalla sentenza, che arbitrariamente
avrebbe desunto dall’accertato e sanzionato scambio di informazioni l’esistenza
di un cartello avente ad effetto l’aumento dei prezzi delle polizze. I.2
– Con il secondo motivo (violazione art. 112 c.p.c. – vizi della motivazione),
nel ribadire la differenza tra i piani di tutela evidenziati in precedenza e la
circostanza che l’Autorità Garante ha accertato e sanzionato il mero scambio di
informazioni e non il cartello dei prezzi tra compagnie assicuratrici, la
società lamenta che la sentenza non si sia pronunziata e, comunque, non abbia
motivato in ordine ad alcune eccezioni con le quali essa sosteneva che gli
aumenti delle polizze nel periodo in oggetto erano conseguenza di cause (o
concause) del tutto estranee alla pratica sanzionata. In particolare, si
riferisce: al successivo provvedimento dell’Autorità Garante (n. 11891 del 17
aprile 2003) che, nel proporre una serie di soluzioni per affrontare il problema
del mercato assicurativo, a conclusione dell’indagine sul settore avviata nel
1996, non include l’eliminazione dello scambio di informazioni tra imprese
assicuratrici; al calcolo matematico del rischio di copertura (influenzato dal
fenomeno delle truffe, dall’incremento dei risarcimenti, dall’incidenza delle
imposte, dall’adeguamento delle riserve sinistri, ecc.) del quale è fatto
riferimento nel parere rilasciato dall’ISVAP, su richiesta dell’Autorità
Garante, per motivare l’aumento dei costi assicurativi; alla legge 12 dicembre
2002 n. 273, che, nell’incidere su alcune delle cause che hanno comportato
l’aumento dei prezzi, non contempla lo scambio di informazioni tra imprese. Inoltre,
la società lamenta che la sentenza non abbia motivato in ordine alla propria
eccezione relativa al fatto che la somma oggetto della domanda era comprensiva
di voci (quali imposte, esercizio sanitario nazionale, fondo vittime della
strada) i cui importi non erano stati da lei incassati e che, non avrebbero
potuto essere restituiti alla controparte. I.3
– Nel terzo motivo (violazione e falsa applicazione artt. 2697 e 1226 c.c. –
vizi della motivazione) la ricorrente censura la sentenza per essersi avvalsa
del potere di liquidazione equitativo del danno, benché la mancata prova dell’an
e del quantum debeatur fosse dipesa soltanto dall’inerzia dell’attrice,
la quale si era limitata alla mera allegazione di aver contratto una polizza
assicurativa con la SAI e d’aver pagato il premio assicurativo. Aggiunge che il
giudice avrebbe acriticamente accolto la domanda di liquidazione equitativa del
danno nella misura del 20%, facendo così riferimento ad un’affermazione
generica ed indimostrata dell’Autorità Garante e, soprattutto, utilizzando
l’equità per supplire all’accertamento dell’effettivo aumento corrisposto dalla
N. nel pagamento del premio assicurativo ed, in caso positivo, delle cause alle
quali l’aumento stesso era attribuibile. II.1
– I tre motivi sopra esposti possono essere riassunti in due categorie
concettuali: la prima, tendente a negare l’esistenza di un diritto soggettivo
leso, nonché del nesso causale tra la dichiarata illegittimità dell’intesa ed
il danno lamentato nell’azione risarcitoria esperita; la seconda, tendente a
dimostrare l’errore commesso dal giudice nella valutazione della prova
allegata. La
soluzione dei quesiti necessita di una premessa comune, che tenga conto,
soprattutto, delle progressive conclusioni alle quali sono pervenute la
giurisprudenza comunitaria e quella nazionale in tema di rapporti tra quelli
che vengono definiti i contratti “a monte” ed i contratti “a valle”. Tenendo
presente che questa Corte ha già ripetutamente affrontato le problematiche
concernenti l’azione di risarcimento concretamente esercitata nella causa in
trattazione, benché soltanto marginalmente affrontando le problematiche oggi
poste. II.2
– La sentenza alla quale fa riferimento la ricorrente (Cass. 9 dicembre 2002,
n. 17475, resa in una fattispecie analoga a quella ora trattata), muove secondo
un’argomentazione che può essere così riassunta: a) la “prospettiva
privilegiata dell’impresa”, che caratterizzerebbe l’impianto della legge n. 287
del 1990 sotto il profilo dell’individuazione delle condotte ritenute illecite,
si riflette anche sotto il profilo dei rimedi sanzionatori, previsti dal
secondo comma dell’art.33 della legge stessa, ossia le azioni di nullità e di
risarcimento; b) per tale motivo, rispetto ad una dichiarazione di nullità
delle intese, sarebbe difficilmente configurabile una legittimazione ad agire
in capo ai consumatori, “non potendo in alcun modo reagire su di essi
l’esistenza in sé delle “intese”, le quali – come strumento tecnico operativo –
risultano concepite, in quanto tali, solo in funzione di chi appunto (le
imprese) le possa concludere, e le abbia nel concreto concluse, ed apparendo,
invece, al riguardo, il possibile ruolo del consumatore finale, chiamato
piuttosto ad esaurirsi nella sollecitazione dell’esercizio dei loro poteri da
parte degli organi individuati dalla stessa legge n.287/90 in quella che si
rivela la sua componente più propriamente pubblicistica”. Tuttavia,
ad avviso della sentenza in commento, l’esclusione del consumatore dal novero
dei soggetti destinatari della tutela antitrust non era tale da determinare
“l’irrisarcibilità assoluta di ogni e qualsiasi delle eventuali ricadute
estreme di quelle intese vietate dal legislatore in sede di legge n.287790”,
che si verificano allorché il consumatore realizza la forma tipica di accesso
al mercato che gli è propria, entrando in contatto con la singola impresa
professionista. In presenza, infatti, di una condotta dell’impresa connotata
dal requisito dell’antigiuridicità (in quanto lesiva di uno specifico diritto
soggettivo vantato dal consumatore), quest’ultimo avrebbe avuto la
legittimazione ad esperire un’ordinaria azione di responsabilità (a conclusioni
non dissimili era già pervenuta Cass. 4 marzo 1999, n. 1811, ritenendo che gli
artt. 85 e 86 del Trattato istitutivo della Comunità Europea avrebbero come
destinatari diretti gli imprenditori commerciali, i quali soli sarebbero
legittimati ad avvalersene e non l’utente singolo, che potrebbe trarne un
vantaggio in via meramente riflessa ed indiretta). Siffatta
decisione fu bersaglio di aspra critica da parte della prevalente
dottrina, la quale, predicando la legittimazione del consumatore finale
nell’azione del secondo comma dell’art. 33 in trattazione, pose in evidenza che
l’aumento del costo della polizza assicurativa ed il conseguente prezzo
sovraconcorrenziale praticato al consumatore finale, non erano da considerarsi
“ricadute estreme” delle intese poste in essere dalle imprese. Esse erano,
bensì, la conseguenza diretta, immediata e voluta dalle imprese partecipanti
all’intesa stessa, il naturale sviluppo di quest’ultima; così come, per altro verso,
chi si sobbarcava a pagare quel prezzo costituiva la vittima designata e
diretta della condotta. II.3
– Per altro verso, la sentenza di legittimità in commento sembrava non tener
conto della giurisprudenza comunitaria in materia (Corte Giust. 20 settembre
2001, causa C-453/99, Courage c. Crehan), la quale (senza rinnegare la regola
che, in assenza di specifiche possibilità di ricorso, attribuisce ai soli
giudici nazionali il compito di assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale
delle norme di diritto comunitario aventi efficacia diretta) aveva sottolineato
che la piena efficacia dell’art. 81 del Trattato sarebbe messa in discussione
se sussistessero preclusioni alla richiesta di risarcimento del danno,
trattandosi di un diritto che rafforza “il carattere operativo delle regole di
concorrenza comunitarie ed è tale da scoraggiare gli accordi o le pratiche,
spesso dissimulate, che possono restringere o falsare il gioco della
concorrenza”. In quest’ottica, secondo la Corte di Giustizia, “le azioni di risarcimento
del danno possono contribuire sostanzialmente al mantenimento di un’effettiva
concorrenza nella Comunità”. Fu
a seguito di queste argomentazioni che la III sezione civile di questa Corte
pervenne ad un ripensamento sul tema della legittimazione e, con ordinanza
n.15538 del 17 ottobre 2003, rimise la questione, ritenuta di particolare
importanza, alle Sezioni Unite della Corte stessa. L’ordinanza, facendo
riferimento ai suggerimenti della dottrina, rilevò: che la mancanza, nella
legge n.287 del 1990, di una specifica disciplina della legittimazione è
significativa del fatto che l’ambito dei soggetti che possono ricevere
pregiudizio è, a priori, di difficile definizione; che possibili legittimati
sono i concorrenti delle imprese che hanno posto in essere la pratica
restrittiva della concorrenza, i loro fornitori ed il consumatore finale,
costretto a pagare un prezzo sovraconcorrenziale; che l’azione dei consumatori
assume un ruolo nell’ottica di maggiore efficienza nella repressione delle
pratiche concorrenziali; che il problema dei soggetti legittimati deve essere
impostato in termini concreti, facendo applicazione caso per caso delle norme
generali in materia di illecito e di nesso di causalità e considerando che il
comportamento anticoncorrenziale è astrattamente idoneo a proporsi “secondo lo
schema della reazione a catena”. II.4
– Investite, dunque, della questione, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 2207
del 4 febbraio 2005, definitivamente riconobbero al consumatore finale la
legittimazione ad agire per il risarcimento del danno innanzi alla Corte
d’Appello, in esercizio del diritto previsto dal secondo comma dell’art.33
della legge n. 287 del 1990. Attrassero, dunque, nell’alveo della normativa
antitrust l’azione risarcitoria che la sentenza n. 17475 del 2002 aveva pur
riconosciuto al consumatore finale, ma in via ordinaria ed al di fuori di
quelle disposizioni, che erano state ritenute di stretta pertinenza
dell’imprenditore. In
questa occasione furono svolte alcune considerazioni che giovano anche alla
soluzione dei quesiti oggi posti dalla ricorrente. Risulta,
soprattutto, affermato: che oggetto immediato della tutela della legge non è il
pregiudizio del concorrente, ancorché questo possa essere riparato dalla
repressione dell’intesa, bensì un più generale bene giuridico; che l’ampia
tutela accordata dalla legge nazionale antitrust, in armonia con il Trattato,
non ignora la plurioffensività possibile del comportamento vietato, in quanto
un intesa vietata può ledere anche il patrimonio del singolo, concorrente o
meno dell’autore o degli autori dell’intesa; che la legge in questione non è la
legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato,
ovvero di chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla
conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno
specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale
carattere; che la legge non ignora, nella materia dell’intesa, l’interesse del
consumatore al punto da prevedere un’ipotesi in cui esso, alla cui difesa
l’ideologia antitrust è funzionale, può essere tutelato per un “periodo
limitato” addirittura da un allentamento del divieto del più classico
comportamento anticoncorrenziale; che il consumatore, quale acquirente finale del
prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del
bene, sicchè la funzione illecita di un’intesa si realizza si realizza per
l’appunto con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti
in concorrenza con una scelta apparente, quale che sia lo strumento che
conclude tale percorso illecito; che a detto strumento non si può attribuire un
rilievo giuridico diverso da quello dell’intesa che va a strutturare, giacchè
il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende
rispetto ad essa non scindibile. A
conclusione di questa disamina, giova ricordare che alcuni spunti ispiratori
della sentenza delle Sezioni Unite in commento sono già rinvenibili in Cass. 1°
febbraio 1999, n. 827, alla quale, in particolare, si deve l’affermazione che
l’art. 2 della legge n. 287 del 1990, nello stabilire la nullità delle intese,
non ha inteso dare rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico
originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a
tutta la più complessiva situazione (anche successiva al negozio originario)
che, in quanto tale, realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza. III.1
– L’indagine fin ora svolta consente già di fornire la risposta al primo dei quesiti
posti dalla ricorrente, sotto i diversi profili del diritto che in concreto
l’assicurato lamenta essere stato leso e del nesso causale intercorrente tra
l’intesa illecita ed il danno lamentato dall’assicurato. Quanto
al primo profilo, la ricorrente censura la mancata individuazione, da parte
della sentenza impugnata, del diritto violato, che viene visto come
indispensabile presupposto per il riconoscimento della tutela aquiliana in
concreto sperimentata (natura di responsabilità sulla quale nessuna delle parti
pone alcun dubbio). A
tal riguardo è necessario ricordare che da tempo la giurisprudenza ha
considerato la tradizionale interpretazione del concetto di danno ingiusto,
formatasi dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942, la quale
riteneva che l’art. 2043 c.c. prevedesse l’obbligo del risarcimento del danno
quale sanzione di una condotta qualificata come illecita, sia perché
contrassegnata dalla colpa del suo autore, sia perché lesiva di una posizione
giuridica della vittima tutelata erga omnes da altra norma primaria.
Peraltro, l’ingiustizia menzionata da quella norma veniva ritenuta mal riferita
al danno, dovendo piuttosto essere considerata attributo della condotta, ed
identificata con l’illiceità, da intendersi del duplice senso suindicato.
Secondo questa concezione, dunque, la responsabilità aquiliana postulava che il
danno inferto presentasse la duplice caratteristica di essere contra ius,
ossia lesivo di un diritto soggettivo, e non iure, ossia derivante da un
comportamento non giustificato da altra norma. In
senso contrario, aderendo ai rilievi critici che la dottrina assolutamente
prevalente aveva mosso a quelle affermazioni, si è successivamente rilevato,
per un verso, che non emerge dal tenore letterale dell’art. 2043 del c.c. che
oggetto della tutela risarcitoria sia esclusivamente il diritto soggettivo e,
per altro verso, che la scissione della formula danno ingiusto, per riferire
l’aggettivazione alla condotta, costituisce indubbia forzatura della lettera
della norma, secondo la quale ingiustizia è requisito del danno. In latri
termini, è stato posto in evidenza che nella disposizione in esame risulta
netta la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora
esso sia ingiusto, mentre la consapevolezza della condotta (in quanto
contrassegnata dal dolo o colpa) viene riservata all’imputabilità della
responsabilità. L’area
della risarcibilità non è, quindi, definita da altre norme recanti divieti e,
pertanto, costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell’illecito in
quanto fatto lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal legislatore
meritevoli di tutela), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula
danno ingiusto, in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le
caratteristiche dell’ingiustizia, e cioè il danno arrecato non jure, ossia
inferto in difetto di una causa di giustificazione che si risolve nella lesione
di un interesse rilevante per l’ordinamento. Ne
consegue che la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria),
volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì norma
(primaria) volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto
da un soggetto per effetto dell’attività altrui. Sicchè, ai fini della
configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante
la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto,
poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia
del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione
di un interesse giuridicamente rilevante (per questi concetti, cfr. soprattutto
Cass. Sez. Unite 22 luglio 1999, n. 500, la quale, per giungere
all’affermazione della risarcibilità degli interessi legittimi, traccia la più
moderna teoria sul danno). Se,
dunque, la tutela aquilana è attuabile ogni qual volta si verifichi la lesione
di un interesse rilevante per l’ordinamento, è agevole, nella fattispecie in
esame, rilevare che l’interesse in concreto vantato è quello ultraindividuale
della libertà contrattuale, concretantesi nel diritto a godere dei benefici
della competizione commerciale, costituenti la colonna portante del meccanismo
negoziale e della legge della domanda e dell’offerta. Interesse,
questo, tutelato al massimo livello dalla legislazione comunitaria e,
soprattutto, dall’art. 41 della Costituzione, nel quale (come ricorda già la
citata Cass. Sez. Un. n° 2207 del 2005) la legge n.287 del 1990 costituisce
specifica applicazione (l’art. 1 così recita: “le disposizioni della presente
legge in attuazione dell’art. 41 della Costituzione a tutela e garanzia del
diritto di iniziativa economica, si applicano alle intese, agli abusi di
posizione dominante ed alle concentrazione di intese…”). Risulta
in questi termini respinta la tesi della ricorrente, che censura la sentenza
per aver omesso di identificare il diritto soggettivo leso e il comportamento
ingiusto posto in essere dalla compagnia. III.2
– Passando all’indagine relativa al nesso causale tra comportamento e danno
ingiusto, s’è già visto che la sentenza delle Sezioni Unite n° 2207 del 2005 ha
risolto il problema del rapporto tra l’intesa illecita ed i contratti a valle
(i Folgevertràge) nel senso dell’inscindibilità di questi ultimi
rispetto alla volontà anticoncorrenziale residente a monte, la quale trova,
appunto, il suo momento di realizzazione massima nella necessitata ed
inconsapevole adesione del consumatore finale. Essa ha pure individuato il
consumatore come colui che, acquistando il prodotto, chiude la filiera che
inizia con la produzione del bene (in questo caso, è l’assicurato che si avvale
del servizio assicurativo ideato e proposto a monte della compagnia). Si è
visto pure che altra giurisprudenza ha attribuito al comportamento
anticoncorrenziale l’astratta idoneità a propagarsi secondo lo schema della
reazione a catena. Non
si può, a tal proposito, che concordare con quella dottrina che rileva come, in
siffatto scenario, il contratto a consumo finisce col simboleggiare la parte
visibile ad occhio nudo dell’ice-berg che mette al sacco il meccanismo
autoequilibratore su cui poggiano gli architravi del libero mercato, la cui
base sommersa è individuabile nel pactum sceleris che anima i
competitori collusi, costituente causa remota del danno patito agli acquirenti
dei beni e dei servizi offerti dall’impresa. In
altri termini, il contratto finale tra imprenditore e consumatore costituisce
il compimento stesso dell’intesa anticompetitiva tra imprenditori, la sua realizzazione
finale, il suo senso pregnante. Sicchè, teorizzare, come fa la ricorrente, la
profonda censura tra contrasto a monte e contrasto a valle, per derivarne che,
in via generale, la prova dell’uno non può mai costituire anche prova
dell’altro, significa negare l’intero assetto, comunitario e nazionale della
normativa antitrust, la quale (giova ribadirlo) è posta a tutela non solo
dell’imprenditore, ma di tutti i partecipanti al mercato. Il
che, in conclusione, consente di affermare che il giudice può desumere il
legame eziologico tra comportamento anticoncorrenziale e danno lamentato
attraverso le presunzioni probabilistiche che si fondino su un rapporto di
sequenza costante tra antecedente e dato conseguenziale. III.3
– Ed anche a questo riguardo occorre sintetizzare i progressi ai quali è
pervenuta la giurisprudenza di questa Corte, dietro lo stimolo della più
recente dottrina, nelle sue applicazioni in campo sia penale che civile. Si
è, in primo luogo, premesso che il nesso di causalità è elemento strutturale
dell’illecito, che corre, su di un piano strettamente oggettivo e secondo una
ricostruzione di tipo sillogistico, tra un comportamento (dell’autore del
fatto) astrattamente considerato (e non ancora qualificabile come damnum
iniuria datum) e l’evento dannoso. Nell’individuazione di tale relazione
primaria tra condotta ed evento si prescinde in prima istanza da ogni
valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto oggettivata, da parte
dell’autore del fatto, essendo il concetto di previsione insito nella
fattispecie della colpa (elemento qualificativo del momento soggettivo
dell’illecito, elemento di analisi collocato in un momento successivo della
ricostruzione della fattispecie). A
questo punto il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello
per cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia
generato, o anche soltanto contribuito a generare tale obiettiva relazione col
fatto, deve considerarsi causa dell’evento stesso; mentre il nesso di causalità
giuridica è quello per cui i fatti sopravvenuti, idonei di per sé soli a
determinare l’evento, interrompono il nesso con tutti gli antecedenti causali. La
valutazione del nesso di causalità giuridica – tanto sotto il profilo della
dipendenza dell’evento dai suoi antecedenti fattuali, quanto sotto quello della
individuazione del nuovo fatto interveniente – si compie secondo criteri o di
probabilità scientifica, se esaustivi, o di logica aristotelica, se appare non
praticabile o insufficiente il ricorso a leggi scientifiche di copertura. In
termini assolutamente sintetici (rispetto ad un vasto e complesso dibattito) è
possibile affermare che l’originario criterio statistico, posto alla base del
sillogismo causale è stato soppiantato da quello dell’alta probabilità logica,
nel senso che quest’ultima consiste nel grado di credenza nazionale nel
verificarsi di un evento, atteso che la statistica mal si attaglia all’analisi
di accadimenti individuali, che postulano un apprezzamento logico di tutte le
circostanze del caso concreto, con particolare riferimento alle circostanze
differenziali rispetto alla situazione astratta cui si riferisce un dato
statistico (per questi concetti, cfr. soprattutto Cass. Sez. Unite penali 10
luglio 2002, n° 30328, imp. Franzese, e Cass. civile 18 aprile 2005, n°7997). Attraverso
siffatto ragionamento probabilistico, è possibile, dunque, che il giudice
individui l’intesa illecita come condotta preparatoria rispetto alla condotta
finale, costituita dall’aumento di polizza, e che configuri il danno nel
maggior esborso a carico dell’assicurato, la cui ingiustizia sia prodotta (nei
sensi sopra esposti) dalla lesione all’interesse giuridicamente protetto ad un
mercato liberamente competitivo. D’altronde
bisogna ragionare sul fatto che il danno lamentato si atteggia sotto forma di perdita
di chance, ossia della possibilità di ottenere migliori condizioni di
polizza nel caso in cui il mercato non fosse stato alterato dalla condotta
anticoncorrenziale. Danno in relazione alla cui sussistenza la giurisprudenza
ammette, in maniere consolidata, la prova secondo un calcolo probabilistico o
per presunzioni (si vedano in proposito i vari precedenti in tema di privazione
della possibilità di vincere un concorso per violazione da parte del datore di
lavoro dell’obbligo di osservare i criteri di correttezza e buona fede nelle
relative procedure, tra cui Cass. 18 gennaio 2006, n°852). In
quest’ordine di idee, dunque, deve essere respinta quella parte di ricorso che
nega nella fattispecie in esame, la configurabilità del nesso eziologico e,
della sentenza, va considerato indenne da vizi il punto nel quale si è deciso
che, rientrando nel campo di una normale consecuzione di un effetto ad un
fatto, un aumento delle tariffe costituisca il risultato di una intesa anticoncorrenziale,
quale quella accertata. IV.1
– Il problema si sposta ora sull’onere probatorio a carico dell’attore nella
sequenza temporale e causale della quale si è detto. Nel
quadro di una ordinaria azione aquiliana e nella logica sopra descritta, all’assicurato
sarà sufficiente allegare l’accertamento dell’intesa concorrenziale da parte
dell’Autorità Garante (come condotta preparatoria) e la polizza contratta (come
condotta finale), individuando il danno nella maggior somma pagata (rispetto a
quella che avrebbe pagato se il mercato assicurativo non fosse stato viziato
nella sua competitività) o la relativa ingiustizia nei termini (già
specificati) di lesione del proprio interesse alla trasparenza e competitività
del mercato stesso. In quest’ordine di idee non ha senso pretendere (come fa la
ricorrente) la produzione della polizza relativa all’anno precedente per
dimostrare l’aumento del premio: qui non si tratta di verificare l’aumento
subito dallo specifico contratto (potrebbe, infatti, trattarsi della prima
annualità di polizza, o di un premio determinato in base a pregressi incidenti,
o comunque influenzato da una serie di particolari fattori), bensì di accertare
gli effetti che l’intesa ha svolto sull’aumento dei prezzi del mercato
assicurativo, in generale, ed, in particolare, sullo specifico premio pagato.
D’altro canto, non può omettersi di rilevare in proposito che la ricorrente,
per assolvere all’onere di completa contestazione, avrebbe potuto essa stessa
esibire la polizza, della quale, come altra parte contraente, è in possesso e
che ritiene rilevante per la propria difesa. Quanto,
poi, al nesso causale, il giudice potrà accertarne l’esistenza (anche ciò è
stato già chiarito) in termini probabilistici o presuntivi, ma – questo è il
punto nodale rispetto al quale la critica formulata nel ricorso si manifesta
fondata – dovrà consentire all’assicuratore di provare contro le presunzioni o
contro la sequenza probabilistica posta a base del ragionamento che fa derivare
il danno dall’intesa illecita. Si
intende con questo dire che il giudice non può omettere di valutare tutti gli
elementi di prova offerti dall’assicuratore per contrastare le presunzioni, o
per dimostrare che la sequenza causale percorsa risulta spezzata da uno o più
fatti diversi che da soli sono stati idonei a procurare il danno, oppure,
ancora, per accertare che questi fatti, insieme con l’intesa illecita abbiano
assunto il carattere di equivalenti (e, dunque, concorrenti) causali nella
produzione del danno. Accertamenti
e valutazioni che il giudice può svolgere attraverso tutti gli strumenti
offertigli dal rito, non escluso l’espletamento della consulenza tecnica, ma
che nella specie non risultano affatto svolti. L’assicuratore
aveva, invero, allegato una serie di documentate circostanze (cfr. supra
nella parte espositiva dei motivi di ricorso) tendenti proprio alla suddetta
prova. Circostanze che la sentenza impugnata non ha tenuto in alcun conto,
essendosi essa esclusivamente ed acriticamente adagiata sul mero contenuto del
provvedimento amministrativo, quasi ad avallare l’aberrante tesi che il danno
sia in re ipsa. Tesi
tanto più insostenibile se si tiene conto del fatto che il provvedimento
antitrust in questione (e le pronunzie dei giudici amministrativi che lo hanno
confermato) si limita all’accertamento dell’illiceità dello scambio di
informazioni, ponendo in termini di mera potenzialità l’attenzione del gioco
concorrenziale e, dunque, l’aumento dei prezzo praticati dal consumatore
finale. IV.2
– Venendo, infine, al quantum oggetto di liquidazione risarcitoria, sicuramente
il giudice una volta accertata la ricorrenza di una ipotesi di responsabilità
aquiliana (e, dunque, l’esistenza di un danno ingiusto), può procedere alla
liquidazione equitativa di cui all’art.1226 del codice civile. Quello in esame
sembra un caso di scuola in cui il danno (ossia la maggior somma pagata
rispetto al premio assicurativo che sarebbe stato pagato in assenza di pratica
concordata) non può essere provato nel suo preciso ammontare, o comunque, la
sua prova è altamente difficile. Correttamente
il giudice, dunque, lo ha liquidato sotto forma di una percentuale del premio
effettivamente pagato. Tale percentuale è stata, però calcolata sul premio
lordo, ossia comprensivo di imposte ed oneri vari (ossia di somme che non
vengono incassate dall’assicuratore), mentre avrebbe dovuto essere calcolata
sul premio al netto di quegli accessori. Anche
su quest’ultimo punto deve essere, pertanto, accolto il rilievo della
ricorrente. V.
– In conclusione, la sentenza deve essere parzialmente cassata in relazione ai
primi tre motivi sopra esaminati ed il giudice del rinvio dovrà adeguarsi al
seguente principio di diritto: L’azione
risarcitoria, proposta dall’assicurato – ai sensi del 2° comma dell’art.33
della legge n.287 del 1990 (norma per la tutela della concorrenza e del
mercato) – nei confronti dell’assicuratore che sia stato sottoposto a sanzione
dell’AGCM per aver partecipato ad un’intesa concorrenziale, tende alla tutela
dell’interesse giuridicamente protetto (dalla normativa comunitaria, dalla
Costituzione e dalla legislazione nazionale) a godere dei benefici della libera
competizione commerciale (interesse che può essere direttamente leso dai
comportamenti anticompetitivi posti in essere dalle imprese), nonché alla
riparazione del danno ingiusto, consistente nell’aver pagato un premio di
polizza superiore a quello che l’assicurato stesso avrebbe pagato in condizioni
di libero mercato. In siffatta azione l’assicurato ha l’onere di allegare la
polizza assicurativa contratta (quale condotta finale del preteso danneggiante)
e l’accertamento, in sede amministrativa, dell’intesa anticoncorrenziale (quale
condotta preparatoria), ed il giudice potrà desumere l’esistenza del nesso
causale tra quest’ultima ed il danno lamentato anche attraverso criteri di alta
probabilità logica o per il tramite di presunzioni, senza però omettere di
valutare gli elementi di prova offerti dall’assicuratore che tenda a provare
contro le presunzioni o a dimostrare l’intervento di fattori causali diversi,
che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano, comunque,
concorso a produrlo. Accertata, dunque, l’esistenza di un danno risarcibile, il
giudice potrà procedere in via equitativa alla relativa liquidazione,
determinando l’importo risarcitorio in una percentuale del premio pagato, al
netto delle imposte e degli oneri vari. VI.1
– Il quarto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 2947 c.c.,
12disp. Leggi in generale, principi generali in materia di prescrizione – vizi
della motivazione) si riferisce al punto in cui la sentenza ha respinto
l’eccezione di prescrizione della compagnia “non essendo decorso il termine
quinquennale dalla data di accertamento definitivo dell’illecito, costituito
dalle intese restrittive della libertà di concorrenza, poste in essere dalle
compagnie assicurative in violazione della legge n.287/1990”. Nel censurare
l’affermazione, la società sostiene, invece, che il momento di decorrenza della
prescrizione va identificato in quello in cui si è verificato il danno, ossia
nel giorno (30 aprile 1996) in cui l’assicurata ha stipulato il contratto di
assicurazione. La prescrizione si sarebbe, dunque, già compiuta al momento
dell’introduzione dell’azione (12 ottobre 2002). Aggiunge, poi, la ricorrente
che la statuizione sarebbe, comunque immotivata, per l’omessa indicazione della
data di decorrenza della prescrizione, nonché della data in cui questa s’è
compiuta. Il
motivo è fondato nei limiti di cui si dirà. VI.2
– Dal brano della sentenza, testualmente trascritto in precedenza, ed, in
particolare, dall’inciso “accertamento definitivo” sembra di dover
comprendere che la Corte territoriale abbia fatto decorrere il termine
prescrizionale del primo comma dell’art.2947 c.c. dalla sentenza del Consiglio
di Stato (la n. 2199 del 23 aprile 2002), che ha definitivamente concluso la
vicenda giudiziaria relativa all’impugnazione innanzi al giudice amministrativo
del provvedimento emesso dall’Autorità Garante in data 28 luglio 2000. Siffatta
tesi, che configura la definitività dell’accertamento amministrativo
dell’illiceità dell’intesa come una sorta di pregiudiziale amministrativa
all’azione di risarcimento del danno aquiliano, non può essere condivisa. L’art.2935
c.c. stabilisce, infatti, che la prescrizione comincia a decorrere dal momento
in cui il diritto può essere fatto valere. L’art.33
della l. n.287 del 1990 stabilisce, poi, che: “1. I ricorsi avverso i
provvedimenti amministrativi adottati sulla base delle disposizioni di cui ai
titoli I al IV della presente legge rientrano nella giurisdizione esclusiva del
giudice amministrativo. Essi devono essere proposti davanti al Tribunale
Amministrativo Regionale del Lazio. 2. Le sanzioni di nullità e di risarcimento
del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in
relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono
promossi dinanzi alla Corte d’Appello competente per territorio”. Come
è chiaro nella legge e come è pacifico in dottrina, l’azione di nullità
dell’intesa anticoncorrenziale tra imprese e di risarcimento del danno,
proponibile davanti alla Corte di Appello, non è impedita dal mancato (o non
esaurito) accertamento in sede amministrativa di tale intesa illecita. Anzi,
il fatto che la legge attribuisca alla Corte di Appello non solo la
giurisdizione sui danni, ma anche quella sulla dichiarazione di nullità
dell’intesa, dimostra che non è necessario un precedente accertamento
dell’intesa stessa in sede amministrativa, anche se ciò comporta un aggravio
probatorio per la posizione del danneggiato. Ciò
emerge con maggiore evidenza se si tiene conto dell’origine storica del secondo
comma dell’art.33 in questione, da ricercarsi nel cd. “Progetto Rossi”
(progetto di legge n. 1202 della X legislatura), che subordinava espressamente
l’azione risarcitoria in sede civile all’esistenza di un preventivo esame della
fattispecie ad opera dell’autorità appositamente istituita per la tutela della
concorrenza. Pregiudizialità che non è stata – significativamente – trasfusa
nel testo vigente. Milita,
poi, contro la tesi sostenuta nella sentenza impugnata la tendenza normativa e
giurisprudenziale del giudice delle leggi (come rilevato anche dalla più volte
citata Cass. Sez. Un., 4 febbraio 2005, n.2207) sempre meno favorevole alla
concezione del “doppio binario di tutela”. Sul
punto va, infine, osservato che questa Corte (Cass. 1° febbraio 1999, n. 827,
anch’essa già citata in precedenza), nell’interpretare l’art. 2 della legge
n.287 del 1990, ha ritenuto che la dichiarazione di nullità dell’intesa
anticoncorrenziale possa essere presa dal giudice ordinario pur in assenza di
un corrispondente provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del
Mercato, alla mera condizione che l’accertamento dell’esistenza di una
restrizione di concorrenza “consistente” all’interno del mercato nazionale o di
una sua parte rilevante sia congruamente motivata dal giudice di merito. VI.3
– Neppure può essere accolta la tesi della ricorrente che, facendo leva sul testo
dell’art.2947 c.c., vorrebbe far decorrere il termine di prescrizione dalla
data in cui è stata stipulata la polizza assicurativa della quale si tratta,
ritenendo che questo sia il momento in cui “il fatto” dannoso si è verificato. La
tesi tiene conto di due diverse circostanze: in primo luogo, se, per un verso,
l’art.2947 c.c. fa decorrere la prescrizione del diritto al risarcimento del
danno dal giorno in cui “il fatto” si è verificato, per altro verso, la
disposizione generale in tema di prescrizione, contenuta nell’art.2935 c.c.,
stabilisce che la prescrizione comincia a decorrere “dal giorno in cui il
diritto può essere fatto valere”; in secondo luogo, nella particolare
fattispecie della quale si discute, il momento dell’inflizione del danno ad opera
del danneggiante ed il momento della sua percezione da parte del danneggiato
non coincidono, ma tra loro si verifica uno stacco temporale che consente di
definire quello in esame come un esempio di danno lungolatente. Quanto
al primo punto, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che non è
giuridicamente esatta l’affermazione che la norma di cui all’art. 2947 c.c.
riveste carattere di specialità e, quindi, di efficacia prevalente e
derogatoria, rispetto a quella di cui all’art. 2935 c.c.: le due disposizioni
si collocano su diversi piani di operatività giuridica, in quanto la prima
attiene alla determinazione del termine prescrizionale applicabile a una delle
varie, specifiche ipotesi che il legislatore ha assoggettato a prescrizione più
breve rispetto a quella ordinaria decennale, mentre l’altra disciplina la
decorrenza della prescrizione, con riferimento a qualsivoglia termine
applicabile, escludendone il periodo durante il quale non sia possibile far
valere il diritto, onde fra l’una e l’altra non può configurarsi un conflitto
che possa essere risolto in termini di prevalente specialità (cfr. Cass. 1°
settembre 1997, n.8297, in motivazione). Il
testo dell’art. 2947 c.c – che riecheggia quello contenuto nella norma di suo
diretto riferimento, ossia l’art. 2043 c.c. in tema di “fatto illecito” – deve
essere, dunque, letto ed interpretato compatibilmente al criterio di fondo che
informa la disciplina codicistica della prescrizione, secondo il quale
l’inerzia del titolare del diritto acquista significato solo di fronte alla
possibilità di esercizio del diritto stesso, quando cioè l’atto di esercizio
vale a soddisfare l’interesse tutelato. Al contrario, non si può parlare di
inerzia quando l’esercizio del diritto non è giuridicamente possibile, perché
in questo caso non s’è neppure in presenza di un interesse insoddisfatto. E’
l’inerzia del titolare del diritto, infatti, che domina i precetti contenuti
negli artt. 2934 e 2935 c.c., nel senso che la prescrizione reagisce ad essa
per adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, assecondando la
certezza dei rapporti e del traffico giuridico. Allora,
se la tutela aquiliana del danno presuppone la verificazione di un danno
ingiusto, è indispensabile che il titolare del diritto al risarcimento,
affinchè lo eserciti, sia adeguatamente informato non solo dell’esistenza del
danno, ma anche dell’attribuibilità ad esso del carattere dell’ingiustizia.
Diversamente non può riscontrarsi nel suo comportamento l’inerzia e, dunque, la
ragione stessa che, come s’è visto, è al fondo della prescrizione. D’altronde,
il segnale informativo percepito da colui che sostiene essere danneggiato
(titolare di una situazione giuridica attiva) è il medesimo che è destinato ad
essere poi riversato sul presunto danneggiante, il quale dovrà essere, a sua
volta, informato di essere esposto ad una azione risarcitoria e, quindi, di
essere titolare di una situazione giuridica passiva. VI.4
– Già in precedenza questa S.C. ha interpretato la disposizione dell’art.2947
c.c. nel senso che la prescrizione inizia a decorrere non dal momento in cui
l’agente compie l’illecito o da quello in cui il fatto del terzo determina
ontologicamente il danno all’altrui diritto, bensì dal momento in cui la
produzione del danno si manifesta all’esterno, divenendo oggettivamente
percepibile e riconoscibile (Cass. 9 maggio 2000, n. 5913; Cass. 28 luglio
2000, n. 9927). Si
tenga conto, in particolare, di Cass. 21 febbraio 2003, n. 2645, la quale ha
ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno
del soggetto che assuma di aver contratto per contagio una malattia per fatto
doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere non dal momento in cui il terzo
determina la modificazione che produce danno all’altrui diritto o dal momento
in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma da quello in cui essa viene
percepita – o può essere percepita – quale danno ingiusto conseguente al
comportamento colposo o doloso di un terzo, usando l’ordinaria diligenza,
tenuto conto, altresì, della diffusione delle conoscenze scientifiche. Il
dato rilevante di questa giurisprudenza è quello di interpretare il “fatto”, di
cui all’art. 2947, comprensivo, non solo del comportamento doloso o colposo, ma
anche dell’evento dannoso. In tal modo la prescrizione decorre non dalla
cessazione della condotta generatrice del danno, ma dall’esteriorizzazione del
danno stesso. Interpretazione questa assolutamente coerente con la più moderna
visione della clausola risarcitoria dell’art. 2043 c.c., secondo la quale (come
s’è ampiamente detto in precedenza) il connotato dell’ingiustizia è da
attribuirsi al danno e non al comportamento che cagiona il danno.
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