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Corte di Cassazione 26/03/2007

R.C. Auto: l’azione di risarcimento del danno da intesa anticoncorrenziale

Cassazione , sez. III civile, sentenza 02.02.2007 n° 2305 (Pierpaolo Damiano)

L’azione risarcitoria, proposta dall’assicurato – ai sensi del 2° comma dell’art. 33 della legge n. 287 del 1990 – nei confronti dell’assicuratore che sia stato sottoposto a sanzione dell’AGCM per aver partecipato ad un’intesa concorrenziale, tende alla tutela dell’interesse giuridicamente protetto (dalla normativa comunitaria, dalla Costituzione e dalla legislazione nazionale) a godere dei benefici della libera competizione commerciale, nonché alla riparazione del danno ingiusto, consistente nell’aver pagato un premio di polizza superiore a quello che l’assicurato stesso avrebbe pagato in condizioni di libero mercato.

In siffatta azione l’assicurato ha l’onere di allegare la polizza assicurativa contratta e l’accertamento, in sede amministrativa, dell’intesa anticoncorrenziale. Il giudice di merito potrà desumere l’esistenza del nesso causale tra quest’ultima ed il danno lamentato anche attraverso criteri di alta probabilità logica o per il tramite di presunzioni, senza però omettere di valutare gli elementi di prova offerti dall’assicuratore che tenda a provare contro le presunzioni o a dimostrare l’intervento di fattori causali diversi, che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano concorso a produrlo. Accertata l’esistenza di un danno risarcibile, il giudice potrà procedere in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., alla relativa liquidazione, determinando l’importo risarcitorio in una percentuale del premio pagato, al netto delle imposte e degli oneri vari.

Circa la prescrizione la Suprema Corte definisce quello esaminato un esempio di danno lungolatente, distinguendo due momenti distinti: 1) quello dell’inflizione del danno - da parte della compagnia - e 2) quello della sua percezione - da parte dell’assicurato; momenti questi che non coincidono, divisi quindi da uno stacco temporale. L’esordio della prescrizione, precisa la Corte, non può essere collegato, in particolare, né al momento in cui l’accertamento dell’esistenza di intese anticoncorrenziali assume la sua definitività in sede giudiziaria amministrativa (Sent. del Consiglio di stato), né (come vorrebbero le compagnie) al momento in cui fu stipulata la polizza assicurativa e, dunque, all’atto del pagamento del premio.

L’assicurato ha avuto completa conoscenza del danno e della sua ingiustizia in un momento successivo, ossia nel momento in ci è stato adeguatamente e ragionevolmente informato circa il fatto che quell’aumento era conseguenza di un’intesa vietata, nulla, e non il giusto prezzo di mercato.

L’azione di risarcimento del danno da intesa concorrenziale si prescrive, pertanto in base agli artt. 2935 e 2947 c.c., in cinque anni dal giorno in cui chi assume di aver subito il danno abbia avuto, usando l’ordinaria diligenza, ragionevole ed adeguata conoscenza del danno e della sua ingiustizia. Il relativo accertamento, infine, compete al giudice del merito ed è incensurabile in cassazione, se sufficientemente e coerentemente motivato.

(Altalex, 26 marzo 2006. Nota di Pierpaolo Damiano)

 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

SEZIONE III CIVILE

Sentenza 2 febbraio 2007, n. 2305

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Paolo VITTORIA - Presidente –
Dott. Antonio SEGRETO - Consigliere –
Dott. Alfonso AMATUCCI - Consigliere –
Dott. Angelo SPIRITO - Rel. Consigliere –
Dott. Giacomo TRAVAGLINO - Consigliere –

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

FONDIARIA SAI Spa (già denominata Sai – Società Assicuratrice Industriale Spa), in persona dell’avvocato L. T., elettivamente domiciliata in ROMA VIA xxxxxx, presso lo studio dell’avvocato xxxxxxx, che la difende unitamente all’avvocato xxxxxx, giusta delega in atti;

· ricorrente –

contro

N. R., elettivamente domiciliata in ROMA VIA xxxxxx, presso lo studio dell’avvocato xxxxx, difesa dall’avvocato xxxxx, giusta delega in atti;

· controricorrente –

avverso la sentenza n. 1310/05 della Corte d’Appello di NAPOLI, prima sezione civile, emessa il 27/04/05, depositata il 03/05/05, R.G. 4119/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/10/06 dal Consigliere Dott. Angelo SPIRITO;

uditi gli avvocati xxxxx

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Eduardo Vittorio SCARDACCIONE, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

La N., avendo stipulato un contratto di assicurazione per la R.c.a. con la SAI Spa, relativamente al periodo 30 aprile 1996 al 1997, convenne quest’ultima in giudicato per essere risarcita, ai sensi dell’art. 33, 2°comma, della legge n. 287 del 1990, del danno subito a seguito dell’intesa anticoncorrenziale alla quale quella società aveva partecipato insieme con altre compagnie, accertata e sanzionata dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato con provvedimento n. 8546 del 28 luglio 2000. Danno quantificato nel 20% della somma pagata a titolo di premio d’assicurazione.

La Corte di Appello di Napoli accolse la domanda, condannando la convenuta al pagamento in favore dell’attrice della somma di € 19,68, pari al 20% del premio versato (€.98,39). In particolare, la Corte territoriale ha ritenuto che: risulta provata l’avvenuta stipula di un contratto di assicurazione tra le parti; l’AGCM ha accertato la violazione, da parte di numerose compagnie assicuratrice (tra le quali la convenuta), del divieto sancito dall’art. 2 della legge 10 ottobre 1990, n. 287, per avere realizzato un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza in tema di assicurazione della R.c.a., irrogando una sanzione amministrativa; alla stregua dei principi dettati da Cass. Sez. Un. n°2207 del 2005, l’assicurata è legittimata ad agire per il risarcimento del danno derivante dall’intesa illecita (e, quindi) posta in essere dalle compagnie assicuratrici; l’illecito comportamento della SAI Ass.ni Spa ha sicuramente cagionato all’assicurata il danno corrispondente alla differenza tra la somma pagata per la polizza assicurativa ed il prezzo immune dalle alterazioni derivanti dall’intesa; il nesso di causalità tra intesa illecita ed aumento del costo della polizza (riscontrabile mediante il rapporto di sequenza costante, secondo il calcolo di regolarità statistica, tra antecedente e dato consequenziale) è desumibile dall’accertamento dell’Autorità Garante (la discrepanza tra tasso di crescita del parco veicoli e quello della raccolta premi, raddoppiata tra il 1990 ed il 1998 – il raddoppio del premio medio pagato dagli assicurati nei cinque anni successivi alla liberalizzazione del mercato – nel periodo immediatamente successivo alla liberalizzazione tariffaria l’Italia era il paese in cui l’assicurazione in questione costava meno, mentre alla fine del 1999 era diventata la più costosa – in cinque anni i prezzi erano cresciuti del 63% rispetto alla media europea); l’impossibilità di provare il danno o, comunque, la notevole difficoltà di una sua precisa quantificazione impone l’utilizzo di criteri equitativi per liquidare il risarcimento e, nella fattispecie, è equo determinarlo nella misura del 20% del premio di polizza pagato dall’assicurata; non s’è compiuto il termine di prescrizione quinquennale, decorrente dalla data di accertamento definitivo dell’illecito (costituito dalle summenzionate intese restrittive della libertà di concorrenza).

Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la Fondiaria Sai Ass.ni (già SAI Spa), a mezzo di quattro motivi. Risponde con controricorso la N.. Entrambe le parti hanno depositato memorie per l’udienza. In data 15 dicembre 2006 il Collegio si è riconvocato per la decisione.

Motivi della decisione

I.1 – Con il primo motivo di ricorso (violazione e falsa applicazione artt. 2043, 2056, 1223, 2697 c.c.) la SAI, anche attraverso il riferimento ad alcuni passi di Cass. Sez. Un. 9 dicembre 2002, n. 17475, pone in evidenza la diversità esistente tra il piano di tutela concernente i rapporti tra le imprese e quello concernente i rapporti tra imprese e consumatori finali, per dedurne che non basta l’accertamento della verificazione di un’intesa vietata perché il consumatore possa allegare un danno ingiusto e chiederne il ristoro. Sostiene, piuttosto, che il consumatore, per ottenere la tutela aquilana ha l’onere di far valere un proprio diritto soggettivo, infranto nel singolo e determinato rapporto, da un comportamento antigiuridico della compagnia assicuratrice, il quale sia, a sua volta, eziologicamente collegato con il danno allegato. La ricorrente rimarca, dunque, la differenza tra intese “aventi ad oggetto” ed intese “aventi ad effetto” la restrizione della concorrenza, ex art. 2 della citata legge, ed argomenta che l’Autorità Garante, valutando l’intesa in questione come compresa nella prima categoria, ha evitato di esperire indagini sugli eventuali effetti distorsivi prodotti sul mercato della condotta contestata. L’assicurata avrebbe dovuto, pertanto, provare che l’intesa accertata dell’Autorità le aveva arrecato uno specifico pregiudizio.

Di qui – a parere della ricorrente – l’errore della sentenza impugnata, che, per un verso, avrebbe emesso condanna risarcitoria senza individuare né il diritto soggettivo leso, né il comportamento antigiuridico tenuto dalla compagnia nel singolo concreto rapporto, né il nesso di causalità tra condotta ed evento e, per altro verso, avrebbe desunto la prova del danno dalla prova per presunzioni del nesso causale, senza che ne esistessero i presupposti. In conclusione, la società denunzia il salto logico compiuto dalla sentenza, che arbitrariamente avrebbe desunto dall’accertato e sanzionato scambio di informazioni l’esistenza di un cartello avente ad effetto l’aumento dei prezzi delle polizze.

I.2 – Con il secondo motivo (violazione art. 112 c.p.c. – vizi della motivazione), nel ribadire la differenza tra i piani di tutela evidenziati in precedenza e la circostanza che l’Autorità Garante ha accertato e sanzionato il mero scambio di informazioni e non il cartello dei prezzi tra compagnie assicuratrici, la società lamenta che la sentenza non si sia pronunziata e, comunque, non abbia motivato in ordine ad alcune eccezioni con le quali essa sosteneva che gli aumenti delle polizze nel periodo in oggetto erano conseguenza di cause (o concause) del tutto estranee alla pratica sanzionata. In particolare, si riferisce: al successivo provvedimento dell’Autorità Garante (n. 11891 del 17 aprile 2003) che, nel proporre una serie di soluzioni per affrontare il problema del mercato assicurativo, a conclusione dell’indagine sul settore avviata nel 1996, non include l’eliminazione dello scambio di informazioni tra imprese assicuratrici; al calcolo matematico del rischio di copertura (influenzato dal fenomeno delle truffe, dall’incremento dei risarcimenti, dall’incidenza delle imposte, dall’adeguamento delle riserve sinistri, ecc.) del quale è fatto riferimento nel parere rilasciato dall’ISVAP, su richiesta dell’Autorità Garante, per motivare l’aumento dei costi assicurativi; alla legge 12 dicembre 2002 n. 273, che, nell’incidere su alcune delle cause che hanno comportato l’aumento dei prezzi, non contempla lo scambio di informazioni tra imprese.

Inoltre, la società lamenta che la sentenza non abbia motivato in ordine alla propria eccezione relativa al fatto che la somma oggetto della domanda era comprensiva di voci (quali imposte, esercizio sanitario nazionale, fondo vittime della strada) i cui importi non erano stati da lei incassati e che, non avrebbero potuto essere restituiti alla controparte.

I.3 – Nel terzo motivo (violazione e falsa applicazione artt. 2697 e 1226 c.c. – vizi della motivazione) la ricorrente censura la sentenza per essersi avvalsa del potere di liquidazione equitativo del danno, benché la mancata prova dell’an e del quantum debeatur fosse dipesa soltanto dall’inerzia dell’attrice, la quale si era limitata alla mera allegazione di aver contratto una polizza assicurativa con la SAI e d’aver pagato il premio assicurativo. Aggiunge che il giudice avrebbe acriticamente accolto la domanda di liquidazione equitativa del danno nella misura del 20%, facendo così riferimento ad un’affermazione generica ed indimostrata dell’Autorità Garante e, soprattutto, utilizzando l’equità per supplire all’accertamento dell’effettivo aumento corrisposto dalla N. nel pagamento del premio assicurativo ed, in caso positivo, delle cause alle quali l’aumento stesso era attribuibile.

II.1 – I tre motivi sopra esposti possono essere riassunti in due categorie concettuali: la prima, tendente a negare l’esistenza di un diritto soggettivo leso, nonché del nesso causale tra la dichiarata illegittimità dell’intesa ed il danno lamentato nell’azione risarcitoria esperita; la seconda, tendente a dimostrare l’errore commesso dal giudice nella valutazione della prova allegata.

La soluzione dei quesiti necessita di una premessa comune, che tenga conto, soprattutto, delle progressive conclusioni alle quali sono pervenute la giurisprudenza comunitaria e quella nazionale in tema di rapporti tra quelli che vengono definiti i contratti “a monte” ed i contratti “a valle”. Tenendo presente che questa Corte ha già ripetutamente affrontato le problematiche concernenti l’azione di risarcimento concretamente esercitata nella causa in trattazione, benché soltanto marginalmente affrontando le problematiche oggi poste.

II.2 – La sentenza alla quale fa riferimento la ricorrente (Cass. 9 dicembre 2002, n. 17475, resa in una fattispecie analoga a quella ora trattata), muove secondo un’argomentazione che può essere così riassunta: a) la “prospettiva privilegiata dell’impresa”, che caratterizzerebbe l’impianto della legge n. 287 del 1990 sotto il profilo dell’individuazione delle condotte ritenute illecite, si riflette anche sotto il profilo dei rimedi sanzionatori, previsti dal secondo comma dell’art.33 della legge stessa, ossia le azioni di nullità e di risarcimento; b) per tale motivo, rispetto ad una dichiarazione di nullità delle intese, sarebbe difficilmente configurabile una legittimazione ad agire in capo ai consumatori, “non potendo in alcun modo reagire su di essi l’esistenza in sé delle “intese”, le quali – come strumento tecnico operativo – risultano concepite, in quanto tali, solo in funzione di chi appunto (le imprese) le possa concludere, e le abbia nel concreto concluse, ed apparendo, invece, al riguardo, il possibile ruolo del consumatore finale, chiamato piuttosto ad esaurirsi nella sollecitazione dell’esercizio dei loro poteri da parte degli organi individuati dalla stessa legge n.287/90 in quella che si rivela la sua componente più propriamente pubblicistica”.

Tuttavia, ad avviso della sentenza in commento, l’esclusione del consumatore dal novero dei soggetti destinatari della tutela antitrust non era tale da determinare “l’irrisarcibilità assoluta di ogni e qualsiasi delle eventuali ricadute estreme di quelle intese vietate dal legislatore in sede di legge n.287790”, che si verificano allorché il consumatore realizza la forma tipica di accesso al mercato che gli è propria, entrando in contatto con la singola impresa professionista. In presenza, infatti, di una condotta dell’impresa connotata dal requisito dell’antigiuridicità (in quanto lesiva di uno specifico diritto soggettivo vantato dal consumatore), quest’ultimo avrebbe avuto la legittimazione ad esperire un’ordinaria azione di responsabilità (a conclusioni non dissimili era già pervenuta Cass. 4 marzo 1999, n. 1811, ritenendo che gli artt. 85 e 86 del Trattato istitutivo della Comunità Europea avrebbero come destinatari diretti gli imprenditori commerciali, i quali soli sarebbero legittimati ad avvalersene e non l’utente singolo, che potrebbe trarne un vantaggio in via meramente riflessa ed indiretta).

Siffatta decisione fu bersaglio di aspra critica da parte della prevalente dottrina, la quale, predicando la legittimazione del consumatore finale nell’azione del secondo comma dell’art. 33 in trattazione, pose in evidenza che l’aumento del costo della polizza assicurativa ed il conseguente prezzo sovraconcorrenziale praticato al consumatore finale, non erano da considerarsi “ricadute estreme” delle intese poste in essere dalle imprese. Esse erano, bensì, la conseguenza diretta, immediata e voluta dalle imprese partecipanti all’intesa stessa, il naturale sviluppo di quest’ultima; così come, per altro verso, chi si sobbarcava a pagare quel prezzo costituiva la vittima designata e diretta della condotta.

II.3 – Per altro verso, la sentenza di legittimità in commento sembrava non tener conto della giurisprudenza comunitaria in materia (Corte Giust. 20 settembre 2001, causa C-453/99, Courage c. Crehan), la quale (senza rinnegare la regola che, in assenza di specifiche possibilità di ricorso, attribuisce ai soli giudici nazionali il compito di assicurare ai singoli la tutela giurisdizionale delle norme di diritto comunitario aventi efficacia diretta) aveva sottolineato che la piena efficacia dell’art. 81 del Trattato sarebbe messa in discussione se sussistessero preclusioni alla richiesta di risarcimento del danno, trattandosi di un diritto che rafforza “il carattere operativo delle regole di concorrenza comunitarie ed è tale da scoraggiare gli accordi o le pratiche, spesso dissimulate, che possono restringere o falsare il gioco della concorrenza”. In quest’ottica, secondo la Corte di Giustizia, “le azioni di risarcimento del danno possono contribuire sostanzialmente al mantenimento di un’effettiva concorrenza nella Comunità”.

Fu a seguito di queste argomentazioni che la III sezione civile di questa Corte pervenne ad un ripensamento sul tema della legittimazione e, con ordinanza n.15538 del 17 ottobre 2003, rimise la questione, ritenuta di particolare importanza, alle Sezioni Unite della Corte stessa. L’ordinanza, facendo riferimento ai suggerimenti della dottrina, rilevò: che la mancanza, nella legge n.287 del 1990, di una specifica disciplina della legittimazione è significativa del fatto che l’ambito dei soggetti che possono ricevere pregiudizio è, a priori, di difficile definizione; che possibili legittimati sono i concorrenti delle imprese che hanno posto in essere la pratica restrittiva della concorrenza, i loro fornitori ed il consumatore finale, costretto a pagare un prezzo sovraconcorrenziale; che l’azione dei consumatori assume un ruolo nell’ottica di maggiore efficienza nella repressione delle pratiche concorrenziali; che il problema dei soggetti legittimati deve essere impostato in termini concreti, facendo applicazione caso per caso delle norme generali in materia di illecito e di nesso di causalità e considerando che il comportamento anticoncorrenziale è astrattamente idoneo a proporsi “secondo lo schema della reazione a catena”.

II.4 – Investite, dunque, della questione, le Sezioni Unite, con la sentenza n. 2207 del 4 febbraio 2005, definitivamente riconobbero al consumatore finale la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno innanzi alla Corte d’Appello, in esercizio del diritto previsto dal secondo comma dell’art.33 della legge n. 287 del 1990. Attrassero, dunque, nell’alveo della normativa antitrust l’azione risarcitoria che la sentenza n. 17475 del 2002 aveva pur riconosciuto al consumatore finale, ma in via ordinaria ed al di fuori di quelle disposizioni, che erano state ritenute di stretta pertinenza dell’imprenditore.

In questa occasione furono svolte alcune considerazioni che giovano anche alla soluzione dei quesiti oggi posti dalla ricorrente.

Risulta, soprattutto, affermato: che oggetto immediato della tutela della legge non è il pregiudizio del concorrente, ancorché questo possa essere riparato dalla repressione dell’intesa, bensì un più generale bene giuridico; che l’ampia tutela accordata dalla legge nazionale antitrust, in armonia con il Trattato, non ignora la plurioffensività possibile del comportamento vietato, in quanto un intesa vietata può ledere anche il patrimonio del singolo, concorrente o meno dell’autore o degli autori dell’intesa; che la legge in questione non è la legge degli imprenditori soltanto, ma è la legge dei soggetti del mercato, ovvero di chiunque abbia un interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere; che la legge non ignora, nella materia dell’intesa, l’interesse del consumatore al punto da prevedere un’ipotesi in cui esso, alla cui difesa l’ideologia antitrust è funzionale, può essere tutelato per un “periodo limitato” addirittura da un allentamento del divieto del più classico comportamento anticoncorrenziale; che il consumatore, quale acquirente finale del prodotto offerto al mercato, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene, sicchè la funzione illecita di un’intesa si realizza si realizza per l’appunto con la sostituzione del suo diritto di scelta effettiva tra prodotti in concorrenza con una scelta apparente, quale che sia lo strumento che conclude tale percorso illecito; che a detto strumento non si può attribuire un rilievo giuridico diverso da quello dell’intesa che va a strutturare, giacchè il suo collegamento funzionale con la volontà anticompetitiva a monte lo rende rispetto ad essa non scindibile.

A conclusione di questa disamina, giova ricordare che alcuni spunti ispiratori della sentenza delle Sezioni Unite in commento sono già rinvenibili in Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, alla quale, in particolare, si deve l’affermazione che l’art. 2 della legge n. 287 del 1990, nello stabilire la nullità delle intese, non ha inteso dare rilevanza esclusivamente all’eventuale negozio giuridico originario postosi all’origine della successiva sequenza comportamentale, ma a tutta la più complessiva situazione (anche successiva al negozio originario) che, in quanto tale, realizzi un ostacolo al gioco della concorrenza.

III.1 – L’indagine fin ora svolta consente già di fornire la risposta al primo dei quesiti posti dalla ricorrente, sotto i diversi profili del diritto che in concreto l’assicurato lamenta essere stato leso e del nesso causale intercorrente tra l’intesa illecita ed il danno lamentato dall’assicurato.

Quanto al primo profilo, la ricorrente censura la mancata individuazione, da parte della sentenza impugnata, del diritto violato, che viene visto come indispensabile presupposto per il riconoscimento della tutela aquiliana in concreto sperimentata (natura di responsabilità sulla quale nessuna delle parti pone alcun dubbio).

A tal riguardo è necessario ricordare che da tempo la giurisprudenza ha considerato la tradizionale interpretazione del concetto di danno ingiusto, formatasi dopo l’entrata in vigore del codice civile del 1942, la quale riteneva che l’art. 2043 c.c. prevedesse l’obbligo del risarcimento del danno quale sanzione di una condotta qualificata come illecita, sia perché contrassegnata dalla colpa del suo autore, sia perché lesiva di una posizione giuridica della vittima tutelata erga omnes da altra norma primaria. Peraltro, l’ingiustizia menzionata da quella norma veniva ritenuta mal riferita al danno, dovendo piuttosto essere considerata attributo della condotta, ed identificata con l’illiceità, da intendersi del duplice senso suindicato. Secondo questa concezione, dunque, la responsabilità aquiliana postulava che il danno inferto presentasse la duplice caratteristica di essere contra ius, ossia lesivo di un diritto soggettivo, e non iure, ossia derivante da un comportamento non giustificato da altra norma.

In senso contrario, aderendo ai rilievi critici che la dottrina assolutamente prevalente aveva mosso a quelle affermazioni, si è successivamente rilevato, per un verso, che non emerge dal tenore letterale dell’art. 2043 del c.c. che oggetto della tutela risarcitoria sia esclusivamente il diritto soggettivo e, per altro verso, che la scissione della formula danno ingiusto, per riferire l’aggettivazione alla condotta, costituisce indubbia forzatura della lettera della norma, secondo la quale ingiustizia è requisito del danno. In latri termini, è stato posto in evidenza che nella disposizione in esame risulta netta la centralità del danno, del quale viene previsto il risarcimento qualora esso sia ingiusto, mentre la consapevolezza della condotta (in quanto contrassegnata dal dolo o colpa) viene riservata all’imputabilità della responsabilità.

L’area della risarcibilità non è, quindi, definita da altre norme recanti divieti e, pertanto, costitutive di diritti (con conseguente tipicità dell’illecito in quanto fatto lesivo di ben determinate situazioni ritenute dal legislatore meritevoli di tutela), bensì da una clausola generale, espressa dalla formula danno ingiusto, in virtù della quale è risarcibile il danno che presenta le caratteristiche dell’ingiustizia, e cioè il danno arrecato non jure, ossia inferto in difetto di una causa di giustificazione che si risolve nella lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento.

Ne consegue che la norma sulla responsabilità aquiliana non è norma (secondaria), volta a sanzionare una condotta vietata da altre norme (primarie), bensì norma (primaria) volta ad apprestare una riparazione del danno ingiustamente sofferto da un soggetto per effetto dell’attività altrui. Sicchè, ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante (per questi concetti, cfr. soprattutto Cass. Sez. Unite 22 luglio 1999, n. 500, la quale, per giungere all’affermazione della risarcibilità degli interessi legittimi, traccia la più moderna teoria sul danno).

Se, dunque, la tutela aquilana è attuabile ogni qual volta si verifichi la lesione di un interesse rilevante per l’ordinamento, è agevole, nella fattispecie in esame, rilevare che l’interesse in concreto vantato è quello ultraindividuale della libertà contrattuale, concretantesi nel diritto a godere dei benefici della competizione commerciale, costituenti la colonna portante del meccanismo negoziale e della legge della domanda e dell’offerta.

Interesse, questo, tutelato al massimo livello dalla legislazione comunitaria e, soprattutto, dall’art. 41 della Costituzione, nel quale (come ricorda già la citata Cass. Sez. Un. n° 2207 del 2005) la legge n.287 del 1990 costituisce specifica applicazione (l’art. 1 così recita: “le disposizioni della presente legge in attuazione dell’art. 41 della Costituzione a tutela e garanzia del diritto di iniziativa economica, si applicano alle intese, agli abusi di posizione dominante ed alle concentrazione di intese…”).

Risulta in questi termini respinta la tesi della ricorrente, che censura la sentenza per aver omesso di identificare il diritto soggettivo leso e il comportamento ingiusto posto in essere dalla compagnia.

III.2 – Passando all’indagine relativa al nesso causale tra comportamento e danno ingiusto, s’è già visto che la sentenza delle Sezioni Unite n° 2207 del 2005 ha risolto il problema del rapporto tra l’intesa illecita ed i contratti a valle (i Folgevertràge) nel senso dell’inscindibilità di questi ultimi rispetto alla volontà anticoncorrenziale residente a monte, la quale trova, appunto, il suo momento di realizzazione massima nella necessitata ed inconsapevole adesione del consumatore finale. Essa ha pure individuato il consumatore come colui che, acquistando il prodotto, chiude la filiera che inizia con la produzione del bene (in questo caso, è l’assicurato che si avvale del servizio assicurativo ideato e proposto a monte della compagnia). Si è visto pure che altra giurisprudenza ha attribuito al comportamento anticoncorrenziale l’astratta idoneità a propagarsi secondo lo schema della reazione a catena.

Non si può, a tal proposito, che concordare con quella dottrina che rileva come, in siffatto scenario, il contratto a consumo finisce col simboleggiare la parte visibile ad occhio nudo dell’ice-berg che mette al sacco il meccanismo autoequilibratore su cui poggiano gli architravi del libero mercato, la cui base sommersa è individuabile nel pactum sceleris che anima i competitori collusi, costituente causa remota del danno patito agli acquirenti dei beni e dei servizi offerti dall’impresa.

In altri termini, il contratto finale tra imprenditore e consumatore costituisce il compimento stesso dell’intesa anticompetitiva tra imprenditori, la sua realizzazione finale, il suo senso pregnante. Sicchè, teorizzare, come fa la ricorrente, la profonda censura tra contrasto a monte e contrasto a valle, per derivarne che, in via generale, la prova dell’uno non può mai costituire anche prova dell’altro, significa negare l’intero assetto, comunitario e nazionale della normativa antitrust, la quale (giova ribadirlo) è posta a tutela non solo dell’imprenditore, ma di tutti i partecipanti al mercato.

Il che, in conclusione, consente di affermare che il giudice può desumere il legame eziologico tra comportamento anticoncorrenziale e danno lamentato attraverso le presunzioni probabilistiche che si fondino su un rapporto di sequenza costante tra antecedente e dato conseguenziale.

III.3 – Ed anche a questo riguardo occorre sintetizzare i progressi ai quali è pervenuta la giurisprudenza di questa Corte, dietro lo stimolo della più recente dottrina, nelle sue applicazioni in campo sia penale che civile.

Si è, in primo luogo, premesso che il nesso di causalità è elemento strutturale dell’illecito, che corre, su di un piano strettamente oggettivo e secondo una ricostruzione di tipo sillogistico, tra un comportamento (dell’autore del fatto) astrattamente considerato (e non ancora qualificabile come damnum iniuria datum) e l’evento dannoso. Nell’individuazione di tale relazione primaria tra condotta ed evento si prescinde in prima istanza da ogni valutazione di prevedibilità, tanto soggettiva quanto oggettivata, da parte dell’autore del fatto, essendo il concetto di previsione insito nella fattispecie della colpa (elemento qualificativo del momento soggettivo dell’illecito, elemento di analisi collocato in un momento successivo della ricostruzione della fattispecie).

A questo punto il nesso di causalità materiale tra condotta ed evento è quello per cui ogni comportamento antecedente (prossimo, intermedio, remoto) che abbia generato, o anche soltanto contribuito a generare tale obiettiva relazione col fatto, deve considerarsi causa dell’evento stesso; mentre il nesso di causalità giuridica è quello per cui i fatti sopravvenuti, idonei di per sé soli a determinare l’evento, interrompono il nesso con tutti gli antecedenti causali.

La valutazione del nesso di causalità giuridica – tanto sotto il profilo della dipendenza dell’evento dai suoi antecedenti fattuali, quanto sotto quello della individuazione del nuovo fatto interveniente – si compie secondo criteri o di probabilità scientifica, se esaustivi, o di logica aristotelica, se appare non praticabile o insufficiente il ricorso a leggi scientifiche di copertura.

In termini assolutamente sintetici (rispetto ad un vasto e complesso dibattito) è possibile affermare che l’originario criterio statistico, posto alla base del sillogismo causale è stato soppiantato da quello dell’alta probabilità logica, nel senso che quest’ultima consiste nel grado di credenza nazionale nel verificarsi di un evento, atteso che la statistica mal si attaglia all’analisi di accadimenti individuali, che postulano un apprezzamento logico di tutte le circostanze del caso concreto, con particolare riferimento alle circostanze differenziali rispetto alla situazione astratta cui si riferisce un dato statistico (per questi concetti, cfr. soprattutto Cass. Sez. Unite penali 10 luglio 2002, n° 30328, imp. Franzese, e Cass. civile 18 aprile 2005, n°7997).

Attraverso siffatto ragionamento probabilistico, è possibile, dunque, che il giudice individui l’intesa illecita come condotta preparatoria rispetto alla condotta finale, costituita dall’aumento di polizza, e che configuri il danno nel maggior esborso a carico dell’assicurato, la cui ingiustizia sia prodotta (nei sensi sopra esposti) dalla lesione all’interesse giuridicamente protetto ad un mercato liberamente competitivo.

D’altronde bisogna ragionare sul fatto che il danno lamentato si atteggia sotto forma di perdita di chance, ossia della possibilità di ottenere migliori condizioni di polizza nel caso in cui il mercato non fosse stato alterato dalla condotta anticoncorrenziale. Danno in relazione alla cui sussistenza la giurisprudenza ammette, in maniere consolidata, la prova secondo un calcolo probabilistico o per presunzioni (si vedano in proposito i vari precedenti in tema di privazione della possibilità di vincere un concorso per violazione da parte del datore di lavoro dell’obbligo di osservare i criteri di correttezza e buona fede nelle relative procedure, tra cui Cass. 18 gennaio 2006, n°852).

In quest’ordine di idee, dunque, deve essere respinta quella parte di ricorso che nega nella fattispecie in esame, la configurabilità del nesso eziologico e, della sentenza, va considerato indenne da vizi il punto nel quale si è deciso che, rientrando nel campo di una normale consecuzione di un effetto ad un fatto, un aumento delle tariffe costituisca il risultato di una intesa anticoncorrenziale, quale quella accertata.

IV.1 – Il problema si sposta ora sull’onere probatorio a carico dell’attore nella sequenza temporale e causale della quale si è detto.

Nel quadro di una ordinaria azione aquiliana e nella logica sopra descritta, all’assicurato sarà sufficiente allegare l’accertamento dell’intesa concorrenziale da parte dell’Autorità Garante (come condotta preparatoria) e la polizza contratta (come condotta finale), individuando il danno nella maggior somma pagata (rispetto a quella che avrebbe pagato se il mercato assicurativo non fosse stato viziato nella sua competitività) o la relativa ingiustizia nei termini (già specificati) di lesione del proprio interesse alla trasparenza e competitività del mercato stesso. In quest’ordine di idee non ha senso pretendere (come fa la ricorrente) la produzione della polizza relativa all’anno precedente per dimostrare l’aumento del premio: qui non si tratta di verificare l’aumento subito dallo specifico contratto (potrebbe, infatti, trattarsi della prima annualità di polizza, o di un premio determinato in base a pregressi incidenti, o comunque influenzato da una serie di particolari fattori), bensì di accertare gli effetti che l’intesa ha svolto sull’aumento dei prezzi del mercato assicurativo, in generale, ed, in particolare, sullo specifico premio pagato. D’altro canto, non può omettersi di rilevare in proposito che la ricorrente, per assolvere all’onere di completa contestazione, avrebbe potuto essa stessa esibire la polizza, della quale, come altra parte contraente, è in possesso e che ritiene rilevante per la propria difesa.

Quanto, poi, al nesso causale, il giudice potrà accertarne l’esistenza (anche ciò è stato già chiarito) in termini probabilistici o presuntivi, ma – questo è il punto nodale rispetto al quale la critica formulata nel ricorso si manifesta fondata – dovrà consentire all’assicuratore di provare contro le presunzioni o contro la sequenza probabilistica posta a base del ragionamento che fa derivare il danno dall’intesa illecita.

Si intende con questo dire che il giudice non può omettere di valutare tutti gli elementi di prova offerti dall’assicuratore per contrastare le presunzioni, o per dimostrare che la sequenza causale percorsa risulta spezzata da uno o più fatti diversi che da soli sono stati idonei a procurare il danno, oppure, ancora, per accertare che questi fatti, insieme con l’intesa illecita abbiano assunto il carattere di equivalenti (e, dunque, concorrenti) causali nella produzione del danno.

Accertamenti e valutazioni che il giudice può svolgere attraverso tutti gli strumenti offertigli dal rito, non escluso l’espletamento della consulenza tecnica, ma che nella specie non risultano affatto svolti.

L’assicuratore aveva, invero, allegato una serie di documentate circostanze (cfr. supra nella parte espositiva dei motivi di ricorso) tendenti proprio alla suddetta prova. Circostanze che la sentenza impugnata non ha tenuto in alcun conto, essendosi essa esclusivamente ed acriticamente adagiata sul mero contenuto del provvedimento amministrativo, quasi ad avallare l’aberrante tesi che il danno sia in re ipsa.

Tesi tanto più insostenibile se si tiene conto del fatto che il provvedimento antitrust in questione (e le pronunzie dei giudici amministrativi che lo hanno confermato) si limita all’accertamento dell’illiceità dello scambio di informazioni, ponendo in termini di mera potenzialità l’attenzione del gioco concorrenziale e, dunque, l’aumento dei prezzo praticati dal consumatore finale.

IV.2 – Venendo, infine, al quantum oggetto di liquidazione risarcitoria, sicuramente il giudice una volta accertata la ricorrenza di una ipotesi di responsabilità aquiliana (e, dunque, l’esistenza di un danno ingiusto), può procedere alla liquidazione equitativa di cui all’art.1226 del codice civile. Quello in esame sembra un caso di scuola in cui il danno (ossia la maggior somma pagata rispetto al premio assicurativo che sarebbe stato pagato in assenza di pratica concordata) non può essere provato nel suo preciso ammontare, o comunque, la sua prova è altamente difficile.

Correttamente il giudice, dunque, lo ha liquidato sotto forma di una percentuale del premio effettivamente pagato. Tale percentuale è stata, però calcolata sul premio lordo, ossia comprensivo di imposte ed oneri vari (ossia di somme che non vengono incassate dall’assicuratore), mentre avrebbe dovuto essere calcolata sul premio al netto di quegli accessori.

Anche su quest’ultimo punto deve essere, pertanto, accolto il rilievo della ricorrente.

V. – In conclusione, la sentenza deve essere parzialmente cassata in relazione ai primi tre motivi sopra esaminati ed il giudice del rinvio dovrà adeguarsi al seguente principio di diritto:

L’azione risarcitoria, proposta dall’assicurato – ai sensi del 2° comma dell’art.33 della legge n.287 del 1990 (norma per la tutela della concorrenza e del mercato) – nei confronti dell’assicuratore che sia stato sottoposto a sanzione dell’AGCM per aver partecipato ad un’intesa concorrenziale, tende alla tutela dell’interesse giuridicamente protetto (dalla normativa comunitaria, dalla Costituzione e dalla legislazione nazionale) a godere dei benefici della libera competizione commerciale (interesse che può essere direttamente leso dai comportamenti anticompetitivi posti in essere dalle imprese), nonché alla riparazione del danno ingiusto, consistente nell’aver pagato un premio di polizza superiore a quello che l’assicurato stesso avrebbe pagato in condizioni di libero mercato. In siffatta azione l’assicurato ha l’onere di allegare la polizza assicurativa contratta (quale condotta finale del preteso danneggiante) e l’accertamento, in sede amministrativa, dell’intesa anticoncorrenziale (quale condotta preparatoria), ed il giudice potrà desumere l’esistenza del nesso causale tra quest’ultima ed il danno lamentato anche attraverso criteri di alta probabilità logica o per il tramite di presunzioni, senza però omettere di valutare gli elementi di prova offerti dall’assicuratore che tenda a provare contro le presunzioni o a dimostrare l’intervento di fattori causali diversi, che siano stati da soli idonei a produrre il danno, o che abbiano, comunque, concorso a produrlo. Accertata, dunque, l’esistenza di un danno risarcibile, il giudice potrà procedere in via equitativa alla relativa liquidazione, determinando l’importo risarcitorio in una percentuale del premio pagato, al netto delle imposte e degli oneri vari.

VI.1 – Il quarto motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 2947 c.c., 12disp. Leggi in generale, principi generali in materia di prescrizione – vizi della motivazione) si riferisce al punto in cui la sentenza ha respinto l’eccezione di prescrizione della compagnia “non essendo decorso il termine quinquennale dalla data di accertamento definitivo dell’illecito, costituito dalle intese restrittive della libertà di concorrenza, poste in essere dalle compagnie assicurative in violazione della legge n.287/1990”. Nel censurare l’affermazione, la società sostiene, invece, che il momento di decorrenza della prescrizione va identificato in quello in cui si è verificato il danno, ossia nel giorno (30 aprile 1996) in cui l’assicurata ha stipulato il contratto di assicurazione. La prescrizione si sarebbe, dunque, già compiuta al momento dell’introduzione dell’azione (12 ottobre 2002). Aggiunge, poi, la ricorrente che la statuizione sarebbe, comunque immotivata, per l’omessa indicazione della data di decorrenza della prescrizione, nonché della data in cui questa s’è compiuta.

Il motivo è fondato nei limiti di cui si dirà.

VI.2 – Dal brano della sentenza, testualmente trascritto in precedenza, ed, in particolare, dall’inciso “accertamento definitivo” sembra di dover comprendere che la Corte territoriale abbia fatto decorrere il termine prescrizionale del primo comma dell’art.2947 c.c. dalla sentenza del Consiglio di Stato (la n. 2199 del 23 aprile 2002), che ha definitivamente concluso la vicenda giudiziaria relativa all’impugnazione innanzi al giudice amministrativo del provvedimento emesso dall’Autorità Garante in data 28 luglio 2000.

Siffatta tesi, che configura la definitività dell’accertamento amministrativo dell’illiceità dell’intesa come una sorta di pregiudiziale amministrativa all’azione di risarcimento del danno aquiliano, non può essere condivisa.

L’art.2935 c.c. stabilisce, infatti, che la prescrizione comincia a decorrere dal momento in cui il diritto può essere fatto valere.

L’art.33 della l. n.287 del 1990 stabilisce, poi, che: “1. I ricorsi avverso i provvedimenti amministrativi adottati sulla base delle disposizioni di cui ai titoli I al IV della presente legge rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Essi devono essere proposti davanti al Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio. 2. Le sanzioni di nullità e di risarcimento del danno, nonché i ricorsi intesi ad ottenere provvedimenti di urgenza in relazione alla violazione delle disposizioni di cui ai titoli dal I al IV sono promossi dinanzi alla Corte d’Appello competente per territorio”.

Come è chiaro nella legge e come è pacifico in dottrina, l’azione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale tra imprese e di risarcimento del danno, proponibile davanti alla Corte di Appello, non è impedita dal mancato (o non esaurito) accertamento in sede amministrativa di tale intesa illecita.

Anzi, il fatto che la legge attribuisca alla Corte di Appello non solo la giurisdizione sui danni, ma anche quella sulla dichiarazione di nullità dell’intesa, dimostra che non è necessario un precedente accertamento dell’intesa stessa in sede amministrativa, anche se ciò comporta un aggravio probatorio per la posizione del danneggiato.

Ciò emerge con maggiore evidenza se si tiene conto dell’origine storica del secondo comma dell’art.33 in questione, da ricercarsi nel cd. “Progetto Rossi” (progetto di legge n. 1202 della X legislatura), che subordinava espressamente l’azione risarcitoria in sede civile all’esistenza di un preventivo esame della fattispecie ad opera dell’autorità appositamente istituita per la tutela della concorrenza. Pregiudizialità che non è stata – significativamente – trasfusa nel testo vigente.

Milita, poi, contro la tesi sostenuta nella sentenza impugnata la tendenza normativa e giurisprudenziale del giudice delle leggi (come rilevato anche dalla più volte citata Cass. Sez. Un., 4 febbraio 2005, n.2207) sempre meno favorevole alla concezione del “doppio binario di tutela”.

Sul punto va, infine, osservato che questa Corte (Cass. 1° febbraio 1999, n. 827, anch’essa già citata in precedenza), nell’interpretare l’art. 2 della legge n.287 del 1990, ha ritenuto che la dichiarazione di nullità dell’intesa anticoncorrenziale possa essere presa dal giudice ordinario pur in assenza di un corrispondente provvedimento dell’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, alla mera condizione che l’accertamento dell’esistenza di una restrizione di concorrenza “consistente” all’interno del mercato nazionale o di una sua parte rilevante sia congruamente motivata dal giudice di merito.

VI.3 – Neppure può essere accolta la tesi della ricorrente che, facendo leva sul testo dell’art.2947 c.c., vorrebbe far decorrere il termine di prescrizione dalla data in cui è stata stipulata la polizza assicurativa della quale si tratta, ritenendo che questo sia il momento in cui “il fatto” dannoso si è verificato.

La tesi tiene conto di due diverse circostanze: in primo luogo, se, per un verso, l’art.2947 c.c. fa decorrere la prescrizione del diritto al risarcimento del danno dal giorno in cui “il fatto” si è verificato, per altro verso, la disposizione generale in tema di prescrizione, contenuta nell’art.2935 c.c., stabilisce che la prescrizione comincia a decorrere “dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere”; in secondo luogo, nella particolare fattispecie della quale si discute, il momento dell’inflizione del danno ad opera del danneggiante ed il momento della sua percezione da parte del danneggiato non coincidono, ma tra loro si verifica uno stacco temporale che consente di definire quello in esame come un esempio di danno lungolatente.

Quanto al primo punto, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che non è giuridicamente esatta l’affermazione che la norma di cui all’art. 2947 c.c. riveste carattere di specialità e, quindi, di efficacia prevalente e derogatoria, rispetto a quella di cui all’art. 2935 c.c.: le due disposizioni si collocano su diversi piani di operatività giuridica, in quanto la prima attiene alla determinazione del termine prescrizionale applicabile a una delle varie, specifiche ipotesi che il legislatore ha assoggettato a prescrizione più breve rispetto a quella ordinaria decennale, mentre l’altra disciplina la decorrenza della prescrizione, con riferimento a qualsivoglia termine applicabile, escludendone il periodo durante il quale non sia possibile far valere il diritto, onde fra l’una e l’altra non può configurarsi un conflitto che possa essere risolto in termini di prevalente specialità (cfr. Cass. 1° settembre 1997, n.8297, in motivazione).

Il testo dell’art. 2947 c.c – che riecheggia quello contenuto nella norma di suo diretto riferimento, ossia l’art. 2043 c.c. in tema di “fatto illecito” – deve essere, dunque, letto ed interpretato compatibilmente al criterio di fondo che informa la disciplina codicistica della prescrizione, secondo il quale l’inerzia del titolare del diritto acquista significato solo di fronte alla possibilità di esercizio del diritto stesso, quando cioè l’atto di esercizio vale a soddisfare l’interesse tutelato. Al contrario, non si può parlare di inerzia quando l’esercizio del diritto non è giuridicamente possibile, perché in questo caso non s’è neppure in presenza di un interesse insoddisfatto.

E’ l’inerzia del titolare del diritto, infatti, che domina i precetti contenuti negli artt. 2934 e 2935 c.c., nel senso che la prescrizione reagisce ad essa per adeguare la situazione di fatto a quella di diritto, assecondando la certezza dei rapporti e del traffico giuridico.

Allora, se la tutela aquiliana del danno presuppone la verificazione di un danno ingiusto, è indispensabile che il titolare del diritto al risarcimento, affinchè lo eserciti, sia adeguatamente informato non solo dell’esistenza del danno, ma anche dell’attribuibilità ad esso del carattere dell’ingiustizia. Diversamente non può riscontrarsi nel suo comportamento l’inerzia e, dunque, la ragione stessa che, come s’è visto, è al fondo della prescrizione.

D’altronde, il segnale informativo percepito da colui che sostiene essere danneggiato (titolare di una situazione giuridica attiva) è il medesimo che è destinato ad essere poi riversato sul presunto danneggiante, il quale dovrà essere, a sua volta, informato di essere esposto ad una azione risarcitoria e, quindi, di essere titolare di una situazione giuridica passiva.

VI.4 – Già in precedenza questa S.C. ha interpretato la disposizione dell’art.2947 c.c. nel senso che la prescrizione inizia a decorrere non dal momento in cui l’agente compie l’illecito o da quello in cui il fatto del terzo determina ontologicamente il danno all’altrui diritto, bensì dal momento in cui la produzione del danno si manifesta all’esterno, divenendo oggettivamente percepibile e riconoscibile (Cass. 9 maggio 2000, n. 5913; Cass. 28 luglio 2000, n. 9927).

Si tenga conto, in particolare, di Cass. 21 febbraio 2003, n. 2645, la quale ha ritenuto che il termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno del soggetto che assuma di aver contratto per contagio una malattia per fatto doloso o colposo di un terzo inizia a decorrere non dal momento in cui il terzo determina la modificazione che produce danno all’altrui diritto o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, ma da quello in cui essa viene percepita – o può essere percepita – quale danno ingiusto conseguente al comportamento colposo o doloso di un terzo, usando l’ordinaria diligenza, tenuto conto, altresì, della diffusione delle conoscenze scientifiche.

Il dato rilevante di questa giurisprudenza è quello di interpretare il “fatto”, di cui all’art. 2947, comprensivo, non solo del comportamento doloso o colposo, ma anche dell’evento dannoso. In tal modo la prescrizione decorre non dalla cessazione della condotta generatrice del danno, ma dall’esteriorizzazione del danno stesso. Interpretazione questa assolutamente coerente con la più moderna visione della clausola risarcitoria dell’art. 2043 c.c., secondo la quale (come s’è ampiamente detto in precedenza) il connotato dell’ingiustizia è da attribuirsi al danno e non al comportamento che cagiona il danno.

Lunedì, 26 Marzo 2007
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