Giurisprudenza di legittimità LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Ha pronunciato la seguente S E N T E N Z A Sul ricorso proposto da: AUTOSTRADA TORINO-MILANO SPA, in
persona del suo Presidente e legale rappresentante dott. Riccardo Formica,
elettivamente domiciliata a ROMA VIA FLAMINIA 213, presso lo studio
dell’avvocato ROMOLO REBOA che la difende unitamente all’avvocato PIER GIORGIO
SCOTTA,giusta delega in atti; -ricorrente-
C. R, elettivamente domiciliato in
ROMA PIAZZA DANTE 12, presso lo studio dell’avvocato SILVIO AVELLANO, che lo
difende unitamente all’avvocato GUIDO CRAVETTO, giusta delega in atti; -controricorrente- avverso la sentenza n. 936/02
della Corte d’Appello di Torino, terza sezione civile, emessa il 19/04/02,
depositata il 27/06/02, R.g. 123/01; udita la relazione della causa
svolta nella pubblica udienza del 22/11/06 dal consigliere Dott. Francesco
TRIFONE; udito l’Avvocato Romolo REBOA; uditi gli avvocati Guido CRAVETTO
e Silvio AVELLANO; udito il P.M., in persona del
Sostituto Procuratore Generale dott. Pietro ABBRITTI, che ha concluso per il
rigetto del ricorso.
Con citazione innanzi al tribunale
di Torino del 3 aprile 1997 R. C. conveniva in giudizio la società Autostrade
Torino-Milano Spa per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni
conseguenti al sinistro occorsogli in data 8 marzo 1996, nel quale alla guida
della sua autovettura, nel tentativo di evitare di investire un cane che gli si
era improvvisamente parato davanti, aveva perduto il controllo del veicolo e,
sbattendo contro il cordolo di cemento alla destra della corsia di immissione
in un’area di servizio, si era ribaltato piu’ volte, riportando lesioni
personali. La società convenuta si costituiva
e contrastava la domanda, che il tribunale rigettava con sentenza depositata il
10 maggio 2000. Sull’impugnazione del soccombente
provvedeva la Corte d’appello di Torino con la sentenza pubblicata il 27 giugno
2002, che, in accoglimento del gravame, condannava la società a risarcire
all’appellante i danni all’autovettura ed alla persona, con rivalutazione ed
interessi, ed a pagare le spese del doppio grado del giudizio. I giudici di secondo grado,
premesso che l’atto d’appello conteneva tutti gli elementi idonei per
individuare l’oggetto dell’impugnazione ed i motivi del gravame, consideravano,
nel merito, che, sebbene l’attore con la citazione introduttiva del giudizio
avesse fondato la responsabilità della società convenuta sulla norma di cui
all’art. 2043 c.c., non poteva dirsi preclusa la possibilità di valutare la
fattispecie alla stregua del parametro di cui all’art. 2051 c.c. [1], dato
che la modifica del titolo costitutivo della domanda costituisce una mera emendatio,
consentita qualora i fatti allegati rimangono immutati, potendo il giudice,
nell’esercizio del potere che gli spetta di inquadrare la fattispecie
nell’esatta sua disciplina giuridica, dare al rapporto controverso una
qualificazione giuridica diversa da quella prospettata dalle parti. La Corte di merito, di
conseguenza, riteneva l’operatività nella specie dell’art. 2051 c.c. per la
considerazione che l’attore non aveva allegato a sostegno dell’azione fatti
diversi da quelli indicati in citazione. Rilevava che la società
proprietaria dell’autostrada aveva il preciso obbligo di munirne il percorso di
una rete di protezione e di curarne la manutenzione con controlli diretti ad
evitare danni ingiusti ai terzi, per cui, non essendo contestato il fatto che
l’attore aveva perduto il controllo dell’autovettura per la presenza del cane sulla
carreggiata, considerava detta circostanza, inconciliabile con la conformazione
strutturale della rete autostradale, come una chiara violazione del dovere di
custodia previsto dalla norma dell’art. 2051 c.c., con la conseguenza che, non
avendo la società appellata fornito la prova che la presenza dell’animale sulla
sede autostradale fosse riconducibile al fortuito ovvero al fatto del terzo,
essa dovesse rispondere dei danni derivati all’appellante. Per la cassazione della sentenza
ha proposto ricorso la società Autostrade Torino-Milano Spa, che ha affidato
l’accoglimento dell’impugnazione a tre motivi. Ha resistito con controricorso
R.C. La società ricorrente ha
presentato memoria.
Con il primo motivo
dell’impugnazione – deducendo la violazione e la falsa applicazione di legge
per error in procedendo in relazione
alle norme di cui agli articoli 132, 158 e 161 c.p.c. e 97 delle disposizioni
di attuazione dello stesso codice nonché l’omessa, inesatta e contraddittoria
motivazione su un punto decisivo della controversia - la società ricorrente
denuncia l’inesistenza, l’inammissibilità ovvero la nullità insanabile
dell’atto di appello, che, per l’impossibilità di identificare senza incertezze
il provvedimento impugnato ed il giudice di primo grado che lo aveva emesso,
avrebbe perciò impedito di porre in essere il necessario esame di raffronto tra
la pronuncia ed i motivi del gravame. La censura è infondata. Il giudice di secondo grado,
invero, in motivazione adeguata ed immune da vizi logici, ha spiegato, a fronte
della relativa eccezione, le ragioni per le quali non vi era assolutamente
incertezza circa l’individuazione della sentenza appellata (della quale erano
indicati i nomi delle parti, il riferimento alla decisione del giudice di primo
grado, l’oggetto della domanda proposta dall’attore con l’atto introduttivo del
giudizio, le difese della parte convenuta). La Corte territoriale ha anche
precisato che l’atto d’appello aveva riassunto in maniera dettagliata i fatti
di causa e l’iter argomentativo della sentenza del tribunale,
aggiungendo anche che erano precise e specifiche le censure che l’appellante
muoveva alla decisione di primo grado, di cui era stata prodotta copia
autentica, sicché tanto bastava a fare ritenere soddisfatti i requisiti di
validità dell’impugnazione, richiesti dalla norma dell’articolo 342 c.p.c. Di conseguenza – poiché
l’interpretazione del contenuto dell’atto di appello, che è demandata
istituzionalmente al giudice del merito e non è denunciabile in cassazione se
congruamente motivata, è soggetta alle regole generali di ermeneutica e non può
essere limitata alle espressioni letterali usate, ma deve tener conto delle
sostanziali finalità perseguite dalla parte – deve escludersi, sulla scorta
delle circostanze evidenziate dal giudice di secondo grado, la pretesa
inammissibilità per genericità della citazione in appello, e ancor prima , la
dedotta sua inesistenza, certamente non ravvisabile in presenza di atto idoneo
a produrre gli effetti suoi propri. Con il secondo motivo
dell’impugnazione – deducendo la tardiva mutatio libelli e la violazione
di norme di diritto in relazione agli articoli 2907 c.c., 101, 112, 113 e 183
c.p.c e 3 e 24 Cost. – la società ricorrente assume che, avendo l’attore
specificato in primo grado che l’azione da lui proposta era quella aquilana ex
art. 2043 c.c., la domanda di risarcimento dei danni, in quanto basata sulla
previsione diversa di cui alla fattispecie dell’art. 2051 c.c., introdotta con
la comparsa conclusionale in primo grado e in ordine alla quale non vi era
stata accettazione del contraddittorio, costituiva domanda nuova preclusa in
appello. Il motivo non può essere accolto. La questione relativa alla
sussistenza o meno della mutatio libelli nel caso in cui, proposta
domanda di responsabilità per danni ai sensi dell’art. 2043 cod. civ. , il
giudice pronunci, invece, condanna al risarcimento dei danni per la diversa
ipotesi di responsabilità prevista dall’art. 2051 c.c., deve senz’altro, in
tesi, essere risolta in senso positivo. La giurisprudenza di questa Corte,
infatti, nel rapporto che intercorre tra azione di responsabilità per danni a
norma dell’articolo 2043 cod. civ. ed azione di responsabilità a norma
dell’articolo 2051 stesso codice, ha già chiarito (Cass., sez. un., n.
10893/2001; Cass. N. 7938/2001; Cass. N. 12329/2004) che l’applicabilità
dell’una o dell’altra norma implica, sul piano eziologico e probatorio, diversi
accertamenti e coinvolge distinti temi d’indagine, trattandosi di accertare,
nel primo caso, se sia stato attuato un comportamento commissivo od omissivo,
dal quale è derivato un pregiudizio a terzi, e dovendosi prescindere, invece,
nel caso di responsabilità per danni da cosa in custodia, dal profilo del
comportamento del custode, che è elemento estraneo alla struttura della
fattispecie normativa di cui all’art. 2051 cod. civ. nella quale il fondamento
della responsabilità è costituito dal rischio, che grava sul custode, per i
danni prodotti dalla cosa che non dipendano dal caso fortuito (ex plurimis:
Cass. , n. 584/2001). Tanto premesso, essendo evidente
che a fronte di un determinato evento di danno diversa è la causa pretendi
dell’azione risarcitorie a seconda che si tratti di responsabilità del
convenuto ai sensi dell’articolo 2043 cod. civ. ovvero della diversa sua
responsabilità ex art. 2051 stesso codice, il problema, nella specie, consiste
nello stabilire se le due azioni siano state proposte entrambe, ancorché l’una
subordinatamente al mancato accoglimento dell’altra, ovvero se R. C. abbia
inteso proporne una soltanto in primo grado. Al riguardo il giudice del merito
ha affermato che, pure avendo l’attore in citazione richiamato a fondamento
della sua pretesa la responsabilità della società convenuta ai sensi dell’art.
2043 c.c., non era, tuttavia, da escludere che i fatti esposti a sostegno della
pretesa consentissero di qualificare l’azione proposta come ipotesi di
responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c., giacché rientrava nei suoi compiti
dare al rapporto controverso una qualificazione diversa da quella indicata, con
il solo limite di lasciare inalterati il petitum e la causa pretendi
e di non introdurre nel tema in contestazione nuovi elementi di fatti. Di conseguenza, la Corte
territoriale ha ritenuto che l’attore Cavetto non aveva allegato a fondamento
della domanda fatti diversi, essendo rimasti immutati quelli originariamente
prospettati nella citazione. In tale situazione, nella quale il
petitum e la causa pretendi venivano a concretare
indifferentemente lo schema sia della responsabilità ex art. 2043 che di quella
ex art. 2051 c.c., le due azioni risultavano proposte entrambe in via
alternativa, per cui non è censurabile sul punto la decisione adottata. Questa corte, infatti, afferma, in
indirizzo costante (da ultimo: Cass., n. 11039/2006), che il principio della
corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (art. 112 c.p.c.) non osta a
che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei
fatti, autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base alla
qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed, in genere, all’applicazione di
una norma giuridica, diversa da quella invocata dall’istante; ma implica
soltanto il divieto per il giudice di attribuire alla parte un bene della vita
diverso da quello richiesto del petitum mediato oppure di emettere
qualsiasi pronuncia – su domanda nuova, quanto a causa pretendi – che
non si fondi, cioè, sui fatti ritualmente dedotti o, comunque, acquisiti al
processo, bensì su elementi di fatto, che non siano stati, invece, ritualmente
acquisiti come oggetto del contraddittorio. Con il terzo motivo
dell’impugnazione – deducendo la violazione e la falsa applicazione delle norme
di cui agli articoli 2043, 2051 e 2697 c.c. e 115 c.p.c. nonché l’omessa,
contraddittoria e perplessa motivazione su un punto decisivo della controversia
– la società ricorrente critica l’impugnata sentenza e denuncia che il giudice
del merito: a) si sarebbe discostato
dall’indirizzo interpretativo che, in tema di danni subiti dall’utente di
autostrada, esclude la responsabilità ai sensi dell’art. 2051 c.c. dell’ente
proprietario o concessionario per la impossibilità di esercitare un controllo
continuo ed efficace, che valga ad impedire l’insorgenza di cause di pericolo
per i terzi; b) avrebbe esposto una motivazione
solo apparente circa l’operatività della norma di cui all’art. 2051 c.c. per
aver considerato che la rete di recinzione non facesse parte dell’autostrada e
per aver omesso di considerare che circostanze ben specifiche (quali, in
particolare, il fatto che l’incidente si sia verificato nei pressi dell’area di
servizio, il mancato riscontro da parte della polizia della strada di varchi
nella rete di recinzione nel tratto dei dieci chilometri antecedenti e
successivi dell’autostrada in entrambe le direzioni, la probabile provenienza
del cane dell’area di servizio) avrebbero dovuto far concludere per la
sussistenza del caso fortuito e la conseguente esclusione della responsabilità
della società concessionaria anche ai sensi dell’art. 2043 c.c. Anche l’ultimo motivo non può
essere accolto per nessuno dei due profili in cui esso si articola. Quanto al denunciato vizio di
violazione di legge, di cui sub a), occorre rilevare che la piu’ recente
giurisprudenza di questa Corte (Cass., n. 3651/2006) ha chiarito che la
disciplina di cui all’art. 2051 c.c. si applica anche in tema di danni sofferti
dagli utenti per la cattiva od omessa manutenzione dell’autostrada da parte del
concessionario, in ragione del particolare rapporto con la cosa che ad esso
deriva dai poteri effettivi di disponibilità e controllo sulla medesima, salvo
che dalla responsabilità presunta a suo carico il concessionario si liberi
dando la prova del fortuito,consistente non già nella dimostrazione
dell’interruzione del nesso di causalità determinato da elementi esterni o dal
atto estraneo alla sfera di custodia (ivi compreso il fatto del danneggiato o
del terzo), bensì anche nella dimostrazione – in applicazione del principio di
cd. vicinanza alla prova - di avere espletato, con la diligenza adeguata alla
natura e alla funzione della cosa, in considerazione delle circostanze del caso
concreto, tutte le attività di controllo, vigilanza e manutenzione su di esso
gravanti in base a specifiche disposizioni normative e già del principio
generale del neminem laedere, di modo che, pertanto, il sinistro appaia
verificato per un fatto non ascrivibile a sua colpa. E’ stato anche rilevato che la
responsabilità presunta per danni da cose in custodia è configurabile anche con
riferimento ad elementi accessori e pertinenze inerti di una strada, a
prescindere dalla relativa intrinseca dannosità o pericolosità per persone o
cose – in virtù di connaturale forza dinamica o per l’effetto di concause umane
o naturali (c.d. idoneità al nocumento) – viceversa rilevante nella diversa
ipotesi di responsabilità per danni da esercizio di attività pericolosa ex art.
2050 c.c., in quanto pure le cose normalmente innocue sono suscettibili di
assumere ed esprimere potenzialità dannosa in ragione di particolari
circostanze o in conseguenza di un processo provocato da elementi esterni. Di conseguenza, è stato anche
precisato che la prova, che il danneggiato deve dare per ottenere il
risarcimento del danno sofferto per l’omessa o insufficiente manutenzione della
strada, consiste nella dimostrazione del verificarsi dell’evento dannoso e del
suo rapporto di causalità con la cosa in custodia ed essa può derivare anche
per presunzioni, giacchè la prova del danno è, di per sé, indice della
sussistenza di un risultato anomalo, e cioè dell’oggettiva deviazione dal
modello di condotta improntato all’adeguata diligenza che normalmente evita il
danno, non essendo il danneggiato, viceversa, tenuto a dare la prova anche
dell’insussistenza di impulsi causali autonomi ed estranei alla sfera di
controllo propria del custode o della condotta omissiva o commissiva di costui. L’impugnata sentenza ha deciso in
conformità alle suddette regole di diritto, avendo essa accertato che
l’incidente si era verificato per la presenza sulla sede autostradale di un
cane, che, fuoriuscito dalla barriera che delimita le due carreggiate, stava
attraversando la corsia percorsa da R. C. , e che la società concessionaria (a
carico della quale era il relativo onere) non aveva dimostrato che l’immissione
del cane era riconducibile ad ipotesi di caso fortuito, quale l’abbandono
dell’animale in una piazzola dell’autostrada ovvero il taglio vandalico della
rete di recinzione ovvero il suo abbattimento da precedente incidente, che non
era stato possibile riparare con un intervento tempestivo. Quanto al denunciato vizio di
motivazione di cui al profilo sub b) del motivo d’impugnazione, rileva questa
Corte che trattasi di censura inammissibile in questa sede, giacché la parte
ricorrente, piuttosto che evidenziare vizi logici dell’iter argomentativi
esposto nella impugnata sentenza, tende, invece, ad ottenere dal giudice di
legittimità il non consentito riesame delle fonti di prove per farne emergere
una conclusione difforme da quella cui è pervenuta la Corte territoriale. Il ricorso, pertanto, è rigettato
e la soccombente società ricorrente è condannata a pagare le spese del presente
giudizio di legittimità nella misura liquidata in dispositivo.
La corte rigetta il ricorso e
condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione, che liquida in
complessivi euro 2.100,00 (duemilacento/00), di cui euro 2.000,00 (duemila/00)
per onerari, oltre spese generali ed accessori come per legge. Roma,22 novembre 2006 IL 2 FEBBRAIO 2007 |
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