In tema di risarcimento del danno esistenziale la perdita o la
compromissione anche soltanto psichica della sessualità (come avviene nei casi
di stupro o di pedofilia) costituisce di per sé un danno esistenziale, la cui
rilevanza deve essere autonomamente apprezzata e valutata equitativamente in
termini non patrimoniali e con una congrua stima dell’equivalente economico del
debito di valore. La
Suprema Corte, con la sentenza n. 2311 del 2 febbraio 2007, torna ad occuparsi
della definizione di danno esistenziale, criticando la Corte d’Appello che non
aveva risarcito autonomamente tale voce di danno ritenendola inclusa nel quantum
previsto per il danno biologico. In
particolare, la Corte afferma l’impossibilità per il danno biologico, anche
nella sua complessità e globalità, di assorbire tutte le eventuali lesioni ai
diritti umani inviolabili. Il
caso concreto, oggetto della sentenza in epigrafe, si riferisce al diritto alla
sessualità (già riconosciuto come diritto inviolabile della persona, Corte
Cost. n. 561/1987) il quale viene distinto nelle sue due componenti: l’una
puramente legata al danno alla salute del soggetto leso per la conseguita impotentia
coeundi; l’altra afferente alla perdita o alla compressione – anche
soltanto psichica – della sessualità del danneggiato. Mentre il primo profilo
costituirebbe il danno biologico, il secondo costituirebbe di per sé danno
esistenziale.
(Altalex,
29 marzo 2007. Nota di Tiziana
Cantarella)
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE III CIVILE Sentenza 2 febbraio 2007, n. 2311
(Presidente Nicastro – Relatore Petti)
Svolgimento del processo
Con
citazione (15/29 luglio 1997) C. L., nella veste di danneggiato da incidente
stradale (avvenuto in Roma il 23 giugno 1994) conveniva dinanzi al tribunale di
Roma il conducente danneggiante M. M., il proprietario assicurato S. G. e
l’impresa assicuratrice W. e ne chiedeva la condanna in solido al risarcimenti
di tutti i danni, biologici, morali, patrimoniali e non patrimoniali
conseguenti all’incidente, riferito alla responsabilità esclusiva della M.. Si
costituiva la impresa assicuratrice contestando le pretese, restavano contumaci
le altre parti. Il
Tribunale di Roma, con sentenza del 10 giugno 1999 accertava la responsabilità
esclusiva della conducente M. venuta a collisione con il veicolo condotto dal
C., e condannava in solido l’impresa e le parti convenute al risarcimento dei
danni nella misura complessiva di 810 milioni ai valori attuali, oltre
interessi legali e spese di lite da distrarsi in favore del difensore
antistatario. La decisione era impugnata dalla W. che ne chiedeva la riforma
sulla base di due motivi, resisteva il C. e proponeva appello incidentale per
una migliore liquidazione delle voci di danno biologico e per la grave
compromissione dell’attività sessuale. Restavano contumaci le altre parti. La
Corte di appello di Roma con sentenza del 8 maggio 2002 così decideva: accoglie
l’appello principale per quanto di ragione, rideterminando la liquidazione vedi
amplius in motivazione) e compensando tra le parti la metà delle spese dei due
gradi del giudizio, ponendo il resto a carico dell’assicuratrice; rigetta
l’appello incidentale e incidentale condizionato. Contro
la decisione ricorre il C. deducendo tre motivi di ricorso; le controparti non
hanno svolto difese.
Motivi della decisione
Il
ricorso è infondato in ordine al primo motivo, mentre merita accoglimento per
il secondo ed il terzo per le seguenti considerazioni. Nel primo motivo si
deduce l’error in iudicando per la violazione degli articoli 1224, 1226, 2056
del c.c., in punto di ridotta liquidazione del danno da inabilità, in
accoglimento della censura dell’assicurazione. La tesi è che essendo convenzionale,
quale parametro di riferimento, la tabella attuariale del tribunale di Roma in
ordine alle poste risarcitorie della inabilità assoluta e relativa del
danneggiato, era apodittica la riduzione basata sul parametro delle tabelle,
essendo la liquidazione a carattere equitativo. In
senso contrario si osserva che la Corte riduce lo aumento della diaria
giornaliera, compiuto dal primo giudice, in quanto non giustificato, dal
momento che la liquidazione è stata determinata all’attualità della sentenza, allorché
erano in vigore le tabelle elaborate dal tribunale. Tale
riduzione rientra nel potere discrezionale valutativo dalla congruità della
perdita non patrimoniale (tale essendo la incapacità del fare in relazione alla
inabilità che precede la guarigione), sulla base di una specifica censura. Il
motivo di ricorso sostiene invece una migliore misura, ma non indica le ragioni
della maggiorazione o della erroneità dei parametri utilizzati al fine del
migliore ristoro: difetta dunque di specificità e concerne un apprezzamento in
fatto adeguatamente motivato. Nel
secondo motivo di ricorso si deduce l’error in iudicando ed il vizio della
motivazione, insufficiente e contraddittoria, in merito alla perdita della
capacità lavorativa, pur evidente nella consequenzialità di una invalidità
calcolata nella misura del 20%. La
censura è fondata, essendo carente sul punto la motivazione, là dove esclude la
maggiore usura delle energie psicofisiche dello infortunato, adagiandosi sul
parere negativo del consulente di ufficio. Come
è noto il riconoscimento della perdita della capacità lavorativa generica, come
componente strutturale del danno biologico nella sua complessità e nella sua
natura dinamica e permanente, risale a teorie scientifiche della medicina
legale italiana, ed è scientificamente testata come perdita di capacità
lavorativa, per la permanente riduzione della resistenza fisica al lavoro
esercitato o alle chances lavorative, secondo l’evoluzione delle offerte di
lavoro e delle libere scelte del giovane lavoratore. La stessa riforma del
mercato di lavoro si fonda sul principio della mobilità. orbene, se è logico
che nella valutazione globale del danno biologico, la indicazione del punteggio
finale derivi dalla valutazione di tutte le componenti, fisiche e psichiche,
interrelazionali ed esistenziali (come si desume dalla definizione analitica
del danno biologico di non lieve entità, contenuta nell’articolo 138 del codice
di assicurazione, che considera i criteri uniformi di risarcimento ai fini
dell’illecito civile della circolazione) al fine della realizzazione del
principio fondamentale del risarcimento integrale del danno alla persona
(cfr:Corte costituzionale 184/86 e Cassazione 8899/01 e successive, sino a
Cassazione 22599/04), la esclusione di tale componente fisico psichica usurante
da una compromissione non lieve e permanente della salute, appare una
contraddizione in termini e deve essere adeguatamente motivata, posto che deve
essere a prova scientifica controfattuale. Si
vuol dire che per la regola causale della probabilità elevata, la lesione grave
della salute reca come conseguenza negativa una apprezzabile perdita della
capacità lavorativa. Il negare tale rilevanza costituisce fattore eccezionale,
presente in taluni casi in cui, per la eminente attività intellettuale
prestata, una menomazione psicofisica potrebbe non incidere sulla potenzialità
delle capacità lavorative, pur compromesse. Esigere dal lavoratore una prova
rigorosa in relazione al cd. danno futuro, o negare la natura biologica di tale
perdita, contraddice la stessa configurazione del danno biologico come danno a
struttura complessa, che incide su vari aspetti della vita fisica e psichica
della persona. Il motivo appare dunque fondato in relazione alla illogicità
della motivazione, che non personalizza il danno biologico in relazione a tale
componente essenziale, data la gravità del danno. Sotto
altro aspetto la perdita della capacità lavorativa integra la lesione del
diritto del cittadino ad accedere al lavoro in condizioni di piena integrità
(cfr. articolo 4 della Costituzione correlato agli articoli 3 secondo comma e
32 della Costituzione e cfr.Corte costituzionale 45/165) e come tale ha un
autonomo rilievo come perdita patrimoniale, ove l’attività lavorativa sia in
atto. Il
motivo dev’essere pertanto accolto ed il giudice di rinvio dovrà attenersi ai
principi di diritto come sopra enunciati, attraverso una valutazione analitica
ed a prova scientifica e causale, in relazione alla presenza di una menomazione
della capacità lavorativa,in soggetto in età lavorativa. Parimenti fondato
appare il terzo motivo dove si deduce la mancata liquidazione della perdita
della capacità di avere rapporti sessuali per la conseguita impotenza coeundi
(per la invalidità dell’asta virile e la insufficienza del tono erettile) con
conseguente sindrome soggettiva ansioso depressiva. La
sentenza impugnata sul punto sorvola, con una enunciazione illogica e contraria
al principio fondamentale della inviolabilità dei diritti umani (articolo 2
della Costituzione e Corte costituzionale 242/83 secondo cui i diritti
involabili sono quei diritti che costituiscono il patrimonio irretrattabile
della persona umana). Si legge in vero nella motivazione "Il Collegio
ritiene che il danno esistenziale o la lesione dei diritti umani non sono
categorie che esulano dal danno biologico,cosi come inteso dalla dottrina e
dalla giurisprudenza. Se cosi è, deve ritenersi che il CTU abbia tenuto conto
di tutte le circostanze, nel momento in cui ha determinato i postumi nella
misura del 20%" . Dove
il ragionamento è errato in punto di principi fondamentali, posto che i diritti
umani inviolabili né si confondono con i danni esistenziali né restano
assorbiti nella globalità e complessità del danno biologico, ove abbiano una
lesione propria, giuridicamente configurata come lesione del diritto. Quanto
al diritto alla sessualità, occorre ricordare l’incipit della Corte
Costituzionale (Corte costituzionale 561/87) che lo inquadra tra i diritti
inviolabili della persona (articolo 2), come modus vivendi essenziale per io
espressione e lo sviluppo della persona. Certamente la perdita della sessualità
costituisce anche danno biologico (la cui valutazione nelle tabelle medico legali
convenzionali supera normalmente il livello della micropermanente e determina
un rilevante ritocco del punteggio finale) consequenziale alla lesione per
fatto della circolazione (come è nel caso di specie), ma nessuno ormai nega
(v:da ultimo Cassazione, Sezioni Unite 6572/06 e 13546/06) che la perdita o la
compromissione anche soltanto psichica della sessualità (come avviene nei casi
di stupro e di pedofilia) costituisca di per sé un danno esistenziale, la cui
rilevanza deve essere autonomamente apprezzata e valutata equitativamente in
termini non patrimoniali e con una congrua stima dell’equivalente economico del
debito di valore. Non
vengono qui in questione altri aspetti inerenti alla procreazione o alla vita
sessuale familiare, dato lo status della vittima, ma certamente questi
ulteriori aspetti sarebbero rilevanti ai fini della equilibrata valutazione del
danno anche ai fini di un congruo ristoro. L’accoglimento
del secondo e del terzo motivo determina il rinvio ad altra sezione della Corte
di Appello di Roma che si atterrà ai principi di diritto come sopra enunciati
nella considerazione della compromissione della capacità lavorativa e della
capacità sessuale, e dei conseguenti effetti sulle perdite patrimoniali e non
patrimoniali seguendo i principi espressi dalla Corte Costituzionale e da
questa Corte nelle sentenze sopracitate. Il giudice del rinvio provvederà anche
in ordine alle spese di questo giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo del ricorso,accoglie il secondo ed il terzo,
cassa in relazione e rinvia anche per le spese del giudizio di cassazione ad
altra sezione della Corte di Appello di Roma.
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