(foto Coraggio) (ASAPS) ROMA, 16 aprile 2007 – Intimidire un Pubblico
Ufficiale che sta contestando un illecito amministrativo integra il reato di
“resistenza”: lo ha sancito la Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione
che, con la sentenza numero 14.659, ha condannato a quattro mesi di reclusione
un automobilista, reo di aver minacciato una vigilessa durante la redazione di
un verbale di contravvenzione. “…Famme la
multa e poi sistemo io a te…”: era il 9 giugno 2004 e Monica, agente di
Polizia Municipale di Velletri (Roma),
venne apostrofata, più o meno con queste parole, da un 30enne del posto, al
quale la donna aveva appena contestato un’infrazione al codice della strada.
L’agente non accettò il sopruso e denunciò l’uomo per resistenza a pubblico
ufficiale (articolo 337 del Codice Penale). La notizia criminis, così come l’aveva formulata la Polizia
Giudiziaria alla Procura della Repubblica di Velletri, venne portata avanti dal
Pubblico Ministero e si concluse con la condanna in primo grado per resistenza,
applicando dunque una pena decisamente più pesante rispetto alla semplice
minaccia (articolo 336 del Codice Penale). La sentenza del Tribunale di
Velletri, che tenne conto delle attenuanti generiche, fu dunque molto severa
con l’automobilista, il quale decise di non fermarsi al primo grado di
giudizio. Il 6 aprile 2006, la Corte
d’Appello di Roma ribadì che il precedente verdetto era stato correttamente
pronunciato, ed all’imputato non rimase che rivolgersi ai giudici di piazza
Cavour, ma il responso non è cambiato. Massimiliano, l’automobilista che
minacciò la poliziotta municipale, proferì una frase con “contenuti oggettivamente idonei a rappresentare una ragionevole portata
intimidatoria, direttamente collegata al compimento dell’atto di servizio del
pubblico ufficiale”. Non c’è alcun dubbio – hanno detto i giudici della
Suprema Corte – che quelle parole realizzino la “condotta di resistenza a pubblico ufficiale”, escludendo in questo
modo ipotesi meno gravi. La tesi difensiva, secondo la quale le parole
pronunciate non avevano un contenuto effettivamente minaccioso, ma erano
espressione di un “atteggiamento parolaio
e genericamente minaccioso, senza alcuna finalizzazione ad incidere
sull’attività svolta dal pubblico ufficiale”, non ha retto. (ASAPS) |
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