In tema di guida in
stato di ebbrezza, la situazione che giustifica la richiesta dell’esame
alcolimetrico deve emergere in base a circostanze obiettive le quali facciano
ritenere agli agenti di polizia che un
determinato soggetto stia guidando sotto l’influsso di bevande alcoliche.
L’art. 186,
comma 4, c.s. non impone un generalizzato obbligo, per tutti i conducenti,
a prestarsi a verifiche immotivate e discrezionali, ma richiede che il pubblico
ufficiale verifichi in concreto la verosimile esistenza di una condizione di
rischio. (Nella fattispecie l’imputato si era rifiutato reiteratamente di
sottoporsi all’esame alcolimetrico pur presentando un’ alitosi alcolica tale
da rendere legittima la richiesta del predetto esame).
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE. - Con
decreto del 4 settembre 2003, il P.M. presso il Tribunale ordinario di Milano
disponeva la citazione a giudizio dell’imputato come sopra nominato per i reati
di cui al capo di incolpazione riportato in epigrafe. All’esito dell’ istruttoria dibattimentale e della discussione,
le parti rassegnavano le proprie conclusioni come riportate in atti ed il
Giudice enunciava il dispositivo. La sera del 13 novembre 2003, ha riferito il teste
B. - operante della G.d.F. - lui ed i suoi colleghi stavano svolgendo servizio
in zona viale Brianza di Milano, quando la loro attenzione veniva attratta da
un furgone Fiat Ducato, il quale, proveniente da piazzale Loreto, procedeva ad
alta velocità. D’improvviso il mezzo, dopo aver creato una pericolosa
situazione per la circolazione, bloccava la propria marcia e, con brusca
manovra, montava sopra un marciapiede laterale. A quel punto gli operanti,
attratti dalla scena, si avvicinavano al mezzo. Il conducente - dice il teste
- scendeva dal veicolo e cercando di nascondersi girava attorno al mezzo.
Soggiunge il B. che il soggetto, identificato per l’odierno imputato, appariva
in evidente stato di ebbrezza; condizione manifestata da alitosi, minacce,
bestemmie e frasi sconnesse rivolte verso i militari. A quel punto gli operanti
rappresentavano al M. la necessità di verificare il suo eventuale stato di
ebbrezza; tuttavia, non disponendo di attrezzatura, gli stessi facevano
presente che sarebbe stato necessario recarsi presso gli uffici della Polizia
Municipale in corso San Gottardo. L’imputato, sostenendo di non essere affatto ebbro,
accettava spontaneamente l’offerta e saliva con i militari sulla loro
automobile di servizio. Tuttavia, giunti presso il comando dei Vigili, l’imputato,
su consiglio del suo difensore sopraggiunto nel frattanto in loco, rifiutava di
sottoporsi al test alcolimetrico. Cosicché il medesimo veniva
denunciato a piede libero per i reati per i quali oggi si procede. Se questi sono i fatti in rapida sintesi, è ora necessario esaminare separatamente
ciascuna delle imputazioni onde acclararne la materiale sussistenza. Quanto al capo A,
appare chiaro come la mancata esecuzione del test alcolimetrico
obbliga il tribunale a valutare l’eventuale stato di ebbrezza sulla base del
giudizio soggettivo dell’operante intervenuto sul posto. Ora, se pure è noto
come non vi sia alcun ostacolo di principio a tale modo di procedere (Cass.,
S.D., 5 febbraio 1996, n. 1299), valuta il Giudice che nel caso di specie non
si possa ritenere pienamente raggiunta la prova della condizione di ubriachezza
dell’imputato. Il B. parla di un M. che farnetica frasi sconnesse, con
fare aggressivo e minaccioso; atteggiamento attribuito dall’operante alla
condizione di ebbrezza del soggetto. Orbene, il M. non ha affatto negato di
avere verbalmente aggredito gli operanti, rivolgendogli anche frasi
estremamente offensive. Tuttavia egli ha spiegato che il suo atteggiamento fu
dovuto ad una situazione di esagitazione determinata da una lite che poco
tempo prima aveva avuto con dei marocchini, nonché a sue precedenti ruggini con
le Forze dell’ordine. Ovviamente il tribunale non è tenuto a dare credito alle
parole dell’imputato; d’altronde qui non si tratta di accertare fatti
obiettivi, ma di valutare l’attendibilità di giudizi soggettivi e quindi la
questione, è molto più delicata. Se l’imputato fornisce una ragionevole
spiegazione del suo contegno, alternativa a quella supposta dall’operante, non
si può non tenerne conto. Soprattutto sono i frangenti successivi che lasciano
qualche dubbio. Come visto, B. parla di un soggetto in chiarissimo stato di
ebbrezza tanto da manifestare comportamenti fuori di senno; ora è piuttosto
singolare che una persona in questo stato, sostenendo di non esser affatto
ubriaco, acconsenta a lasciare il suo mezzo per recarsi dall’altra parte della
città a dimostrare la sua innocenza. Né può essere utilizzato come argomento a
contrario il fatto che poi il M. rifiutò di eseguire il test, giacché - come
spontaneamente affermato dallo stesso imputato e confermato indirettamente dal
teste S. - fu il difensore dell’imputato, presente al comando dei vigili, a
consigliare a M. di non soffiare nell’etilometro (cfr. trasc. imp., 24 ottobre
2005, pag. 9 «si, si infatti ho chiamato il mio avvocato e mi ha detto - ti sto
raggiungendo , dopodiché quando dovevo soffiare ho chiesto un consiglio
legale - soffio o no? perché intanto non ho niente da nascondere - e lui mi ha
detto - non soffiare -, va bene, non soffio -»). Non solo, ma il fatto stesso
che l’imputato abbia avuto la lucidità per contattare il suo avvocato nel
mentre si compiva il tragitto verso corso San Gottardo pare ulteriore
dimostrazione del fatto che il medesimo non fosse così «evidentemente» ebbro. Ulteriormente, una volta giunto dalla Polizia Municipale,
il M. viene in contatto con l’agente S.. Ebbene, S. dice che l’imputato si
presenta in condizioni normali: il teste spiega che cosa avrebbe dovuto fare
l’imputato e quest’ultimo, consultatosi con il suo legale, decide di non
soffiare nell’etilometro. Quello che importa è che l’impressione dello S. è diversa
da quella di B.. Dice il teste che, a giudicare dall’alito, il M. poteva avere
bevuto qualcosa; ma in ogni modo il soggetto parlava normalmente, non dava
segni di escandescenza, non barcollava né palesava sintomi di evidente
ebbrezza. Ora, anche se tra l’intervento del B. e quello dello S. sarà
intercorso un certo periodo di tempo, non sono quei dieci, venti o trenta
minuti sufficienti a fare smaltire quella che il primo testimone ha descritto
come una sonora sbornia. In conclusione, la versione di Buccheri non è sembrata
confermata da circostanze obiettive di natura tale da potere fare affermare,
con assoluta certezza, che il M. recasse in corpo un quantitativo di alcol
superiore al limite legale consentito. Come giustamente ha detto S., questo lo
si sarebbe potuto verificare con sicurezza solo sottoponendo il M. a quella
prova alcolimetrica che l’imputato si è rifiutato
di eseguire (d’altronde non è un caso se il rifiuto integra esso stesso
condotta criminosa). Dunque, per il capo di cui si discute, si impone una
sentenza assolutoria perché è sufficiente ed incompleta la prova della
sussistenza del fatto contestato. Quanto al capo B, la questione è del tutto diversa e
la violazione appare integrata in modo indiscutibile. Preliminarmente va
precisato che il capo di imputazione è palesemente
errato nell’indicazione nominativa del reato violato. Infatti, la norma che
unisce il comportamento descritto non è l’articolo 187 comma 7, ma l’articolo
186, comma 7 c.d.s. D’altronde - sebbene tale precisazione manchi nel
dispositivo - si tratta di mero errore materiale senza alcun effetto concreto. Ciò detto, lo S. ha riferito che, una volta arrivato
l’imputato presso la sede dei vigili, egli spiegò che il tutto consisteva nel
soffiare in un tubo. Il M., alla presenza del suo avvocato, declinò l’offerta.
A quel punto lo S. chiarì espressamente che un eventuale rifiuto avrebbe
comportato l’applicazione di una sanzione e ciò nonostante il M. non retrocesse
dalla sua determinazione. La cosa - prosegue S. finì lì e tutti, incluso l’imputato,
rimasero ancora un po’ al comando per completare la redazione dei vari atti e
adempimenti burocratici. Come si vede il M. ha reiteratamente rifiutato di
sottoporsi all’accertamento imposto dalla legge, questo pur dopo essere stato
espressamente avvertito di quelle che sarebbero state le conseguenze. Peraltro le circostanze del caso rendevano più che
giustificata la richiesta degli operanti. Il M. - come riferito da B. e
confermato da S. - presentava alitosi alcolica e tale circostanza rendeva più
che legittima la richiesta - quantomeno - di effettuare una verifica obiettiva.
Peraltro, va anche ricordato che, in un primo tempo, il M. decide
spontaneamente di sottoporsi a prova con etilometro, tanto da salire volontariamente
sulla macchina dei militari della G.d.F. Solo una volta giunto agli uffici
della Polizia Municipale ed avere parlato con il suo difensore, l’imputato
cambia idea e si oppone all’alcol test. L’ultima tematica rimane quella relativa all’asserita
incostituzionalità della norma incriminatrice della cui applicazione si
discute. A parere del difensore la violazione del dettato costituzionale si
porrebbe in ragione del fatto che la norma attribuisce alla polizia, sotto
minaccia penale, il potere di imporre al quisque de populo la
sottoposizione ad accertamenti in qualche modo limitativi della sua libertà. Ad opinione del tribunale la problematica potrebbe porsi,
in via meramente astratta, sotto due profili: quello della libertà personale
garantita dall’articolo 13 Cost. e quello del diritto di difesa garantito dall’
articolo 24 Cost.. Ora, quanto al primo aspetto la questione è palesemente
infondata. Come insegna Corte cost. n. 238/ 1996, dubbi di legittimità sorgono
quando si tratta di accertamenti coattivi da eseguire sulla persona (es.
prelievo forzoso di sangue). Nel caso di specie nessuna delle due condizioni è verificata: l’accertamento non è coattivo,
in quanto il soggetto può opporre un rifiuto e non è intrusivo della sfera di
integrità dell’individuo, in quanto si esegue non violando i confini del corpo,
ma soffiando in un tubo. Quanto al successivo aspetto, la conclusione non può che
essere medesima. L’obiezione che potrebbe muoversi all’articolo 186 comma 7
c.d.s. è che esso viola il principio
per cui nemo contra se detegere tenetur (e, quindi, mediatamente
l’articolo 24 Cost.) nei limiti in cui si prospetta una sanzione penale per chi
non presti una collaborazione dalla quale potrebbero emergere circostanze in
grado di dimostrare una propria responsabilità penale. Orbene, la regola per
cui nessuno può essere tenuto a comportamenti auto-incriminanti non è
espressione di un principio assoluto e generalmente prevalente, ma deve entrare
in un giudizio di bi1anciamento con altri valori di rango parimenti
costituzionale (ad es. Corte cost., ord. n. 48512002 dà un esempio di questa operazione, contemperando diritto al
silenzio e principio costituzionale del contraddittorio). Nel caso di specie la imposizione di un obbligo di
cooperazione, eventualmente anche contra se, si giustifica in ragione
della prioritaria esigenza di proteggere l’incolumità fisica dei terzi, che
partecipano all’attività di circolazione stradale, al cospetto di un pericolo
immediato e contingente, rappresentato dalla presenza di un conducente in stato
di ebbrezza. Peraltro la situazione che giustifica la richiesta
dell’esame alcolimetrico deve emergere in base a circostanze obiettive, le
quali facciano ritenere agli agenti di polizia che un determinato soggetto stia
guidando sotto l’influsso di bevande alcoliche (art. 186, comma 4 c.d. s.). In
altre parole la disposizione di cui si parla non impone un generalizzato
obbligo, per tutti i conducenti, a prestarsi a verifiche immotivate e
discrezionali, ma richiede che il pubblico ufficiale verifichi in concreto la
verosimile esistenza di una condizione di rischio. Alla luce delle predette considerazioni, il reato contestato
è perfettamente legittimo e palesemente integrato dalla condotta del M. Il M. merita la
concessione delle attenuanti generiche; ciò lo si può dire in ragione del
contegno processuale tenuto dall’ imputato, improntato all’ idea di un proficuo
contraddittorio con la Corte.
Il fatto in sè non
presenta una gravità tale da giustificare l’irrogazione di una sanzione di
particolare entità. Né, ai fini della intensità dell’elemento soggettivo, il
tribunale può trascurare di considerare il ruolo svolto dal difensore del M.
in quella fatidica serata del 13 novembre 2003. Senza, con ciò, volere
assolutamente giudicare o interferire con le strategie difensive, non si può
fare a meno di prendere in considerazione che il M. fu quantomeno coadiuvato, nella sua idea di non prestare il consenso
al test, dai suggerimenti del suo legale. Questo particolare
naturalmente non esclude la responsabilità dell’imputato, al quale venne
esplicitamente spiegata quale sarebbe stata la conseguenza del suo rifiuto; tuttavia
si tratta di circostanza utile a valutare l’atteggiamento della volontà del
predetto al momento del fatto.
Tanto premesso, ed alla luce dei criteri di cui all’articolo
133 C.p.,
sembra congrua una pena di giorni quindici di arresto ed euro 450,00 di
ammenda. L’applicazione dello sconto per le generiche, porta ad una pena
finale di giorni dieci di arresto ed euro 300,00 di ammenda. Tenuto conto della peculiarità del reato per il quale si
procede, il tribunale giudica opportuno convertire la pena detentiva in pena
pecuniara così come consentito dalla legge n. 689/1981. Si ritiene infatti che una sanzione in denaro,
immediatamente efficace (e peraltro di identica natura rispetto a quella già
irrogata con il decreto penale inopinatamente opposto dal M.), possa svolgere
una maggiore efficacia dissuasiva, i reati di «disobbedienza» come quello in
oggetto, rispetto a misure restrittive della libertà che presentano sempre
effetti collaterali di segno negativo. Alla condanna segue pure il pagamento delle spese
processuali. Il M. non può beneficiare della sospensione della
pena. Al di là della specifica condizione soggettiva del predetto - il M. pare
avere una precedente condanna patteggiata -la tipologia della pena prescelta
deve andare di pari passo con la effettiva esecuzione della stessa. Solo in
questo si bilancia il trattamento di maggiore favore derivante da una sanzione
di tipo pecuniario, garantendo una reale efficacia specialpreventiva della
stessa. (Omissis).
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