La
Sezione Lavoro
della Corte di Cassazione ha stabilito che se un lavoratore risulta stressato
per causa imputabile del datore di lavoro e, a causa dello stress, provoca un
incidente stradale, potrebbe avere diritto al risarcimento del danno dal suo
datore di lavoro.
I Giudici di Piazza Cavour hanno però precisato che il diritto sussiste a
condizione che il lavoratore dimostri la stretta relazione tra l’attività
lavorativa prestata e lo stress subito.
La responsabilità del datore, affermano i Giudici, sta nel mancato rispetto di
quanto stabilito dall’art. 2087 c.c. che espressamente stabilisce che il datore
“è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa e misure che, secondo la
particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare
l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Gli Ermellini hanno quindi evidenziato che anche in passato, le altre sezioni
della Corte hanno “individuato una responsabilità dell’imprenditore in tutte le
ipotesi in cui non sia possibile ravvisare una «condotta dolosa del lavoratore,
ovvero la presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente
rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso»
precisando che la dimensione inadeguata dell’organico, ravvisata nel caso di
specie, costituiva una condizione lavorativa stressante, dalla quale poteva
derivare una specifica responsabilità datoriale”.
(Data: 27/06/2007 - Autore: Cristina Matricardi
Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza
n. 13309/2007
Motivi della decisione
l. Con il primo motivo di ricorso la difesa del ricorrente denuncia violazione
e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2087, 2110 e 2043 c.c., 32 e 38
Cost., omessa e contraddittoria motivazione su punto decisivo.
Deduce che il giudice del rinvio si è illegittimamente discostato dal principio
di diritto fissato nella sentenza rescindente ed ha arbitrariamente ristretto
l’accertamento dei fatti, non tenendo conto dell’ampio ambito di prova indicato
dalla Cassazione.
Assume che la sentenza rescindente aveva posto a carico del lavoratore, «che
lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla
salute, l’onere di provare esclusivamente l’esistenza di tale danno, la
nocività delle condizioni di lavoro ed il nesso causale tra questi due
elementi»; e, correlativamente, a carico del datore di lavoro «l’onere di
dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il
verificarsi del danno ovvero che il danno lamentato dal dipendente non è
ricollegabile all’inosservanza dei suoi obblighi».
Assume ancora che la nozione di nesso causale delineata nella sentenza
rescindente è notevolmente diversa da quella adottata dal Tribunale di Roma e
che era stato precisato che l’eventuale concorso di colpa del lavoratore non è
sufficiente ad interrompere un nesso causale che non può essere limitato ai
soli eventi costituenti conseguenza necessitata della condotta datoriale, ma
deve essere esteso a tutti gli eventi possibili, rispetto ai quali tale
condotta si ponga con nesso di causalità adeguata.
Deduce che la sentenza rescindente ha quindi individuato una responsabilità
dell’imprenditore in tutte le ipotesi in cui non sia possibile ravvisare una
«condotta dolosa del lavoratore, ovvero la presenza di un rischio elettivo
generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o
esorbitante dai limiti di esso». precisando che la dimensione inadeguata
dell’organico, ravvisata nel caso di specie, costituiva una condizione
lavorativa stressante, dalla quale poteva derivare una specifica responsabilità
datoriale; e che ha richiesto la prova «di tutte le circostanze del caso» per
verificare l’esistenza di tale nesso causale, «per un lavoratore obbligato o
autorizzato all’uso di autoveicolo nell’espletamento elle proprie mansioni in
situazione di trasferta, tra le condizioni di stress e l’incidente stradale.»
Afferma quindi che era risultato provato che: il ricorrente aveva
reiteratamente rappresentato il suo contingente stato di patologia;
l’inserimento nella task force prevedeva anche la partecipazione a missioni e
non solo lo svolgimento di lavoro fuori sede; esisteva almeno un’altra sede
possibile per la missione, cioè Chiusi, più confacente alla particolare
situazione, personale e familiare, dei P.; alla data del 17.1.1991, su 600
giorni di calendario corrispondenti al periodo trascorso dalla sua entrata in
task force, il ricorrente ne aveva vissuto in missione ben 407, percorrendo
alla guida della propria auto 80.409 chilometri, oltre alla sua normale
attività lavorativa; l’entità del danno risarcibile in misura non inferiore al
valore corrispondente ad un miliardo di lire; l’esistenza di un nesso di
causalità tra la condotta tenuta da Bna ed evento dannoso da cui il ricorrente
è rimasto leso.
2. Con il secondo motivo la difesa P. denuncia violazione e falsa applicazione
degli artt. 384, 389 e 394 c.p.c. e vizio di motivazione su altro punto
decisivo.
Deduce che la Corte di rinvio non solo ha seguito in modo marginale il
principio di diritto illustrato nel primo motivo, ma ha stravolto l’impianto
giuridico dato alla fattispecie nella sentenza rescindente.
Tale stravolgimento si è realizzato, da parte del giudice di rinvio, con
l’esclusione: a) che altre cause, tra cui principalmente lo stato personale di
stress, unito all’ansia e alla preoccupazione per le condizioni di salute dei
familiari, potessero determinare l’evento lesivo; b) che lo stato di stress
fosse stato acuito ed aggravato dal profondo insoddisfacimento per una
progressione di carriera ingiustamente negata; c) che le direttive impartite
dalla Cassazione comportassero l’accertamento anche su fatti non costituenti
oggetto delle richieste istruttorie del primo grado; d) limitando l’assunzione
delle prove all’interno delle istanze formulate nel ricorso ex art. 414 c.p.c.,
ma ammettendo tre soli capitoli.
3. I due motivi di ricorso, che si trattano congiuntamente, non sono fondati.
Essi muovono da una lettura distorta della sentenza rescindente, la quale, come
si è sopra evidenziato, si è limitata a correggere il principio affermato dal
Tribunale di Roma in materia di nesso causale, ricordando il principio della
cd. causalità adeguata; a richiamare il consolidato orientamento della Corte
sulla natura della responsabilità di cui all’art. 2087 c.c. e sul riparto
dell’onere probatorio fra lavoratore e datore di lavoro; ad affermare, quindi,
che «non si può escludere a priori che vi sia un nesso causale, per un
lavoratore obbligato o autorizzato all’uso di autoveicolo nell’espletamento
delle proprie mansioni in situazione di trasferta, tra le condizioni di stress
e l’incidente stradale, senza prima consentire la prova richiesta (ed
ovviamente la controprova ritualmente richiesta) di tutte le circostanze del
caso.»
Non è vero, quindi, che la sentenza rescindente abbia autorizzato il giudice di
rinvio ad ammettere prove e controprove diverse da quelle già tempestivamente
richieste, così travolgendo le regole dettate dall’art. 394 del codice di rito.
La sentenza del Tribunale di Roma è stata cassata per violazione di norme di
diritto, relativa alla nozione del nesso causale rilevante ai sensi dell’art.
2087 c.c., con conseguente erroneo rigetto delle richieste istruttorie
formulate per la dimostrazione di quel nesso fra condotta datoriale ed
incidente.
Il giudice di rinvio era vincolato al principio di diritto enunciato e tenuto
ad esprimere una valutazione, sulla sussistenza o meno del nesso causale
invocato, solo all’esito delle prove richieste.
E ciò che la Corte di L’Aquila ha fatto, osservando con congrua motivazione,
dopo avere esaminato tutte le circostanze dedotte e ritenute provate, che il
comportamento datoriale non ha avuto efficienza causale nella determinazione
dell’incidente stradale dei 17 gennaio 1991, allorquando il lavoratore,
percorrendo a velocità eccessiva una curva pericolosa con strada umida, invase
l’opposta corsia scontrandosi con un veicolo procedente nella opposta
direzione.
Il ricorrente non muove specifiche censure alle argomentazioni del giudice di
rinvio ma sembra affermare che la sentenza rescindente aveva già sancito la
responsabilità dell’imprenditore in tutte le ipotesi in cui non sia possibile
ravvisare una «condotta dolosa del lavoratore, ovvero la presenza di un rischio
elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del
lavoro o esorbitante dai limiti di esso»; condotta dolosa o rischio elettivo
ovviamente estranei alla conduzione di un veicolo, per ragioni di lavoro, da
parte di un lavoratore.
Ma non è quello che la sentenza rescindente ha affermato. Le massime nella
stessa richiamate, fra le quali quelle sulla rilevanza del concorso di colpa
del lavoratore, sottolineano in primo luogo l’obbligo del lavoratore, che
agisca facendo valere la responsabilità di cui all’art. 2087 c.c., di provare la
nocività delle condizioni di lavoro e il nesso causale fra tali condizioni ed
il danno subito. Una volta che il lavoratore abbia provato tali circostanze
continua la sentenza n. 5 del 2002 grava sul datore di lavoro l’onere di
dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il
verificarsi del danno; aggiungendo che non è sufficiente il semplice concorso
di colpa dei lavoratore per interrompere il nesso causale, potendo tale nesso
essere interrotto solo da una condotta dolosa del lavoratore o la presenza di
un rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo
svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso. Ed ha citato Cass., 1
settembre 1997, n. 8267 secondo la quale anche una condizione lavorativa
stressante (nella specie per sottorganico) può costituire fonte di
responsabilità per il datore di lavoro.
Tale essendo il contenuto della sentenza rescindente, ed atteso che il giudice
del rinvio, espletate le prove tempestivamente richieste, si è espresso con
ampie argomentazioni sulla insussistenza di uno stress imputabile al datore di
lavoro e tale da avere a sua volta provocato l’incidente stradale, le censure
di inosservanza dell’art. 384 e 394 c.p.c., così come quelle di violazione
dell’art. 2087 c.c., risultano infondate.
Per tutto quanto esposto il ricorso va rigettato.
Il ricorrente va condannato al rimborso delle spese nei confronti della Banca …
omissis…, mentre si ritiene equo compensare le spese fra la S. e le altre
parti.
PQM
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore
della Banca … omissis …, delle spese di giudizio, in € 42,50 per spese ed in €
5.000,00 (cinquemila) per onorario di avvocato, oltre spese generali, Iva e
c.p.a.; compensa le spese fra la Sai e le altre parti.
Da Studio Cataldi
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