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Corte di Cassazione 02/07/2007

Cassazione: lavoratore stressato subisce incidente stradale? Va risarcito dal datore di lavoro

(Sent. n. 13309/2007)

La Sezione Lavoro della Corte di Cassazione ha stabilito che se un lavoratore risulta stressato per causa imputabile del datore di lavoro e, a causa dello stress, provoca un incidente stradale, potrebbe avere diritto al risarcimento del danno dal suo datore di lavoro.
I Giudici di Piazza Cavour hanno però precisato che il diritto sussiste a condizione che il lavoratore dimostri la stretta relazione tra l’attività lavorativa prestata e lo stress subito.
La responsabilità del datore, affermano i Giudici, sta nel mancato rispetto di quanto stabilito dall’art. 2087 c.c. che espressamente stabilisce che il datore “è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa e misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Gli Ermellini hanno quindi evidenziato che anche in passato, le altre sezioni della Corte hanno “individuato una responsabilità dell’imprenditore in tutte le ipotesi in cui non sia possibile ravvisare una «condotta dolosa del lavoratore, ovvero la presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso» precisando che la dimensione inadeguata dell’organico, ravvisata nel caso di specie, costituiva una condizione lavorativa stressante, dalla quale poteva derivare una specifica responsabilità datoriale”.

(Data: 27/06/2007 - Autore: Cristina Matricardi
 


Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, Sentenza n. 13309/2007

Motivi della decisione

l. Con il primo motivo di ricorso la difesa del ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 2087, 2110 e 2043 c.c., 32 e 38 Cost., omessa e contraddittoria motivazione su punto decisivo.
Deduce che il giudice del rinvio si è illegittimamente discostato dal principio di diritto fissato nella sentenza rescindente ed ha arbitrariamente ristretto l’accertamento dei fatti, non tenendo conto dell’ampio ambito di prova indicato dalla Cassazione.
Assume che la sentenza rescindente aveva posto a carico del lavoratore, «che lamenti di aver subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare esclusivamente l’esistenza di tale danno, la nocività delle condizioni di lavoro ed il nesso causale tra questi due elementi»; e, correlativamente, a carico del datore di lavoro «l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno ovvero che il danno lamentato dal dipendente non è ricollegabile all’inosservanza dei suoi obblighi».
Assume ancora che la nozione di nesso causale delineata nella sentenza rescindente è notevolmente diversa da quella adottata dal Tribunale di Roma e che era stato precisato che l’eventuale concorso di colpa del lavoratore non è sufficiente ad interrompere un nesso causale che non può essere limitato ai soli eventi costituenti conseguenza necessitata della condotta datoriale, ma deve essere esteso a tutti gli eventi possibili, rispetto ai quali tale condotta si ponga con nesso di causalità adeguata.
Deduce che la sentenza rescindente ha quindi individuato una responsabilità dell’imprenditore in tutte le ipotesi in cui non sia possibile ravvisare una «condotta dolosa del lavoratore, ovvero la presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso». precisando che la dimensione inadeguata dell’organico, ravvisata nel caso di specie, costituiva una condizione lavorativa stressante, dalla quale poteva derivare una specifica responsabilità datoriale; e che ha richiesto la prova «di tutte le circostanze del caso» per verificare l’esistenza di tale nesso causale, «per un lavoratore obbligato o autorizzato all’uso di autoveicolo nell’espletamento elle proprie mansioni in situazione di trasferta, tra le condizioni di stress e l’incidente stradale.»
Afferma quindi che era risultato provato che: il ricorrente aveva reiteratamente rappresentato il suo contingente stato di patologia; l’inserimento nella task force prevedeva anche la partecipazione a missioni e non solo lo svolgimento di lavoro fuori sede; esisteva almeno un’altra sede possibile per la missione, cioè Chiusi, più confacente alla particolare situazione, personale e familiare, dei P.; alla data del 17.1.1991, su 600 giorni di calendario corrispondenti al periodo trascorso dalla sua entrata in task force, il ricorrente ne aveva vissuto in missione ben 407, percorrendo alla guida della propria auto 80.409 chilometri, oltre alla sua normale attività lavorativa; l’entità del danno risarcibile in misura non inferiore al valore corrispondente ad un miliardo di lire; l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta tenuta da Bna ed evento dannoso da cui il ricorrente è rimasto leso.
2. Con il secondo motivo la difesa P. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 384, 389 e 394 c.p.c. e vizio di motivazione su altro punto decisivo.
Deduce che la Corte di rinvio non solo ha seguito in modo marginale il principio di diritto illustrato nel primo motivo, ma ha stravolto l’impianto giuridico dato alla fattispecie nella sentenza rescindente.
Tale stravolgimento si è realizzato, da parte del giudice di rinvio, con l’esclusione: a) che altre cause, tra cui principalmente lo stato personale di stress, unito all’ansia e alla preoccupazione per le condizioni di salute dei familiari, potessero determinare l’evento lesivo; b) che lo stato di stress fosse stato acuito ed aggravato dal profondo insoddisfacimento per una progressione di carriera ingiustamente negata; c) che le direttive impartite dalla Cassazione comportassero l’accertamento anche su fatti non costituenti oggetto delle richieste istruttorie del primo grado; d) limitando l’assunzione delle prove all’interno delle istanze formulate nel ricorso ex art. 414 c.p.c., ma ammettendo tre soli capitoli.
3. I due motivi di ricorso, che si trattano congiuntamente, non sono fondati.
Essi muovono da una lettura distorta della sentenza rescindente, la quale, come si è sopra evidenziato, si è limitata a correggere il principio affermato dal Tribunale di Roma in materia di nesso causale, ricordando il principio della cd. causalità adeguata; a richiamare il consolidato orientamento della Corte sulla natura della responsabilità di cui all’art. 2087 c.c. e sul riparto dell’onere probatorio fra lavoratore e datore di lavoro; ad affermare, quindi, che «non si può escludere a priori che vi sia un nesso causale, per un lavoratore obbligato o autorizzato all’uso di autoveicolo nell’espletamento delle proprie mansioni in situazione di trasferta, tra le condizioni di stress e l’incidente stradale, senza prima consentire la prova richiesta (ed ovviamente la controprova ritualmente richiesta) di tutte le circostanze del caso.»
Non è vero, quindi, che la sentenza rescindente abbia autorizzato il giudice di rinvio ad ammettere prove e controprove diverse da quelle già tempestivamente richieste, così travolgendo le regole dettate dall’art. 394 del codice di rito.
La sentenza del Tribunale di Roma è stata cassata per violazione di norme di diritto, relativa alla nozione del nesso causale rilevante ai sensi dell’art. 2087 c.c., con conseguente erroneo rigetto delle richieste istruttorie formulate per la dimostrazione di quel nesso fra condotta datoriale ed incidente.
Il giudice di rinvio era vincolato al principio di diritto enunciato e tenuto ad esprimere una valutazione, sulla sussistenza o meno del nesso causale invocato, solo all’esito delle prove richieste.
E ciò che la Corte di L’Aquila ha fatto, osservando con congrua motivazione, dopo avere esaminato tutte le circostanze dedotte e ritenute provate, che il comportamento datoriale non ha avuto efficienza causale nella determinazione dell’incidente stradale dei 17 gennaio 1991, allorquando il lavoratore, percorrendo a velocità eccessiva una curva pericolosa con strada umida, invase l’opposta corsia scontrandosi con un veicolo procedente nella opposta direzione.
Il ricorrente non muove specifiche censure alle argomentazioni del giudice di rinvio ma sembra affermare che la sentenza rescindente aveva già sancito la responsabilità dell’imprenditore in tutte le ipotesi in cui non sia possibile ravvisare una «condotta dolosa del lavoratore, ovvero la presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso»; condotta dolosa o rischio elettivo ovviamente estranei alla conduzione di un veicolo, per ragioni di lavoro, da parte di un lavoratore.
Ma non è quello che la sentenza rescindente ha affermato. Le massime nella stessa richiamate, fra le quali quelle sulla rilevanza del concorso di colpa del lavoratore, sottolineano in primo luogo l’obbligo del lavoratore, che agisca facendo valere la responsabilità di cui all’art. 2087 c.c., di provare la nocività delle condizioni di lavoro e il nesso causale fra tali condizioni ed il danno subito. Una volta che il lavoratore abbia provato tali circostanze continua la sentenza n. 5 del 2002 grava sul datore di lavoro l’onere di dimostrare di aver adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno; aggiungendo che non è sufficiente il semplice concorso di colpa dei lavoratore per interrompere il nesso causale, potendo tale nesso essere interrotto solo da una condotta dolosa del lavoratore o la presenza di un rischio elettivo generato da una attività non avente rapporto con lo svolgimento del lavoro o esorbitante dai limiti di esso. Ed ha citato Cass., 1 settembre 1997, n. 8267 secondo la quale anche una condizione lavorativa stressante (nella specie per sottorganico) può costituire fonte di responsabilità per il datore di lavoro.
Tale essendo il contenuto della sentenza rescindente, ed atteso che il giudice del rinvio, espletate le prove tempestivamente richieste, si è espresso con ampie argomentazioni sulla insussistenza di uno stress imputabile al datore di lavoro e tale da avere a sua volta provocato l’incidente stradale, le censure di inosservanza dell’art. 384 e 394 c.p.c., così come quelle di violazione dell’art. 2087 c.c., risultano infondate.
Per tutto quanto esposto il ricorso va rigettato.
Il ricorrente va condannato al rimborso delle spese nei confronti della Banca … omissis…, mentre si ritiene equo compensare le spese fra la S. e le altre parti.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso, in favore della Banca … omissis …, delle spese di giudizio, in € 42,50 per spese ed in € 5.000,00 (cinquemila) per onorario di avvocato, oltre spese generali, Iva e c.p.a.; compensa le spese fra la Sai e le altre parti.

Da Studio Cataldi


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Lunedì, 02 Luglio 2007
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