Foto Blaco Per chi ha voglia di approfondire l’argomento, basta andare sul sito dell’ASAPS ed inserire nel relativo motore di ricerca, la voce “dolo eventuale”. Non sono pochi gli interventi di altri Autori, quali il Leoni, con riferimento alla guida in stato di ebbrezza e/o sotto l’uso di sostanze stupefacenti o del gareggiare in velocità; lo Sbarbada, sempre sul tema dell’ubriachezza alla guida e relative conseguenze; il Coppola, in tema di velocità eccessiva; il Borselli, con riferimento a quanto avviene in Svizzera; le stesse considerazioni di alcuni Magistrati e le decisioni della Magistratura. In termini giurido-dottrinali, uno per tutti, l’Antolisei, ricorda che nel c.d. “dolo eventuale” “si ritengono altresì voluti i risultati del comportamento che sono stati previsti dal soggetto, anche soltanto come possibili, purché egli abbia accettato il rischio, o, più semplicemente, purché non abbia agito con la sicura convinzione che non si sarebbero verificati” (1). Ebbene, ricordando quello che gli autori già citati hanno scritto e proseguendo con l’autorevole analisi di sintesi dell’Antolisei “discende una conseguenza di fondamentale importanza, la quale non deve essere mai perduta di vista nell’applicazione della legge. Allorché la norma incriminatrice non richiede espressamente – come non poche volte avviene – che il soggetto abbia agito con un determinato fine, per potersi parlare di volontà dell’evento, e più precisamente per potersi considerare un certo risultato, non è necessario che questo sia stato il punto di mira o uno dei punti di mira dell’attività criminosa: basta che il reo lo abbia previsto come possibile, accettando il rischio della sua verificazione; basta, in altri termini, che egli abbia agito a costo di determinarlo”. Per altro verso, prosegue l’Antolisei, “solo se il soggetto, pur essendosi rappresentato l’evento, ha operato con la sicura convinzione che non si sarebbe verificato, l’evento medesimo non si considera voluto e l’esistenza del dolo si deve escludere” (2). Non a caso, l’Ufficio delle Indagini Preliminari di Milano, con la decisione del 21 aprile 2004, ha stabilito che “è configurabile il dolo eventuale in capo a chi cagioni la morte di una persona in un incidente automobilistico, allorché l’agente abbia previsto ed accettato il rischio di cagionare un incidente con conseguenze letali mediante la propria condotta di guida spericolata. Non è invece configurabile l’ipotesi di tentato omicidio a danno degli altri utenti del traffico rimasti soltanto feriti, né a danno dei conducenti che avevano corso il rischio di scontrarsi con la vettura dell’imputato, non essendo il dolo eventuale compatibile con il tentativo” (3). Chiaramente, nel caso dell’omicidio o delle lesioni personali colpose, l’agente è comunque nella condizione di prevedere l’evento ma, in tal caso esiste una (non sempre) chiara la linea di confine con il c.d. “dolo eventuale”: questi è determinato dall’elemento volitivo, poiché l’agente opera accettando il rischio di cagionare l’evento quale conseguenza della propria azione od omissione: pone in essere, insomma, la condotta “a costo” di determinare l’evento, che quindi è, sia pure indirettamente, voluto. Nell’altro caso, invece, il soggetto esclude il verificarsi dell’evento e, dunque, non ne accetta il rischio. Val la pena, infine, di citare l’ulteriore differenza esistente tra la figura criminosa di cui all’art. 586 c.p. che presuppone, in relazione alla conseguenza ulteriore della morte o della lesione, la mancanza di ogni profilo di volontarietà, anche indiretta e, dunque, una condizione psicologica incompatibile con la previsione ed accettazione dell’evento diverso, che qualificano la responsabilità a titolo di dolo eventuale (cfr. Cass. Pen., Sez. I, 19 giugno 2002, n. 28647). Infortunistica stradale come misura di prevenzione dell’evento Certamente, anche il legislatore ha inteso porre un freno al grave fenomeno dei sinistri stradali con esiti mortali o, comunque, con conseguenti lesioni, mediante il ricorso allo “inasprimento” delle pene previste dagli artt. 589 s. c.p., come modificati dall’art. 2 della legge 21 febbraio 2006, n.102. Tali disposizioni in materia di conseguenze derivanti da incidenti stradali, bisogna peraltro ricordarlo, non hanno inciso in maniera così determinante sui comportamenti di guida ed anzi, sono state oggetto di critica, talvolta aspra, da una parte della dottrina. Chi scrive, invece, continua a ritenere congrua la misura della pena alla fattispecie da punire sol se questa si configura come tale e non anche quando il ricorso all’economia punitiva, gioca al “massimo ribasso”. Insomma, altra cosa è investire un pedone che improvvisamente attraversa la strada, quando il veicolo marcia entro i limiti di velocità consentiti; altra ancora, è investire un pedone non mantenendo una velocità particolarmente moderata; situazione, ben diversa dalle altre, è quella che attiene a chi viaggia a folle velocità, magari entro un centro abitato, investendo un pedone che si avvale, per attraversare la carreggiata, degli appositi attraversamenti pedonali. Sinceramente, non vedo perché chi usa un veicolo come un fucile mitragliatore debba poi godere di sconti di pena o, allo stesso modo ed in linea morale derivata, essere considerato dal “popolo italiano” (in nome del quale si giudicano i cittadini) come un mero incosciente e non anche come un comune criminale: un vero e proprio criminale! Chiaramente, compito della polizia giudiziaria è quello di prendere notizia dei reati, impedire che vengano portati a conseguenze ulteriori, ricercarne gli autori, compiere gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale (art. 55 c.p.p.) e, nell’ambito di tali attribuzioni e di quelle del P.M. svolgere le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all’esercizio dell’azione penale (art. 326 cod. cit.): dunque, se è vero come è vero che sarà il Pubblico Ministero ad esercitare l’azione penale (art. 405 cod. cit.), è del tutto evidente che l’esercizio dell’azione penale - come l’archiviazione della stessa - sarà in parte (se non in buona parte) condizionata dall’esito delle indagini e dall’oggetto dell’indagine preliminare: sia con riferimento all’oggetto, al soggetto, nonché alla norma violata. Insomma, l’attività investigativa svolta dalla p.g. deve risultare convincente, non solo con riferimento a quanto accaduto ed accertato in sede di indagine ma, non da meno, con riferimento all’autore del fatto ed alla volontà di determinare il fatto stesso. Nel dire questo, non voglio correre il rischio di essere frainteso. Chi scrive è ben convinto che nell’attività di indagine – dalla più semplice alla più complessa – per la polizia giudiziaria deve valere sempre e comunque il “principio di non colpevolezza”; insomma, devono essere sempre adottate tutte le garanzie difensive previste dal codice di rito. Ma dinanzi a fatti particolarmente efferati (come io ritengo tali i sinistri stradali dagli esiti mortali o le lesioni comunque riconducibili ad un comportamento non solo irrispettoso delle leggi e delle comuni regole di prudenza, ma caratterizzati dalla c.d. “accettazione del rischio”, di questo rischio... ma a danno altrui) la polizia giudiziaria deve trattare il sinistro – che normalmente si delinea come un fatto “accidentale”, tanto da essere comunemente definito un “incidente della strada” - alla stregua di un delitto doloso, le cui conseguenze rilevano quindi, ai fini dell’applicazione delle pene previste per le lesioni personali e/o l’omicidio. Ne sono convinto, in primis, perché, in una parola, compito della polizia è quello di accertare i reati come tali e quindi, per come questi appaiono; evitando, cioè, di affidarsi troppo alla c.d. prassi o pratica professionale che dir si voglia, o, più gravemente, alla “consuetudine da manuale”: quella per cui, dinanzi ad un morto ammazzato in seguito ad un incidente stradale, si configura, sempre e comunque, l’ipotesi del reato colposo per violazione ad una regola della circolazione stradale. Ma ne sono convinto, perché se a questa prassi si sostituisse o, per meglio dire, si affiancasse quella della indagine criminale, alcuni criminali della strada, probabilmente, muterebbero il loro comportamento di guida: questo nella consapevolezza che ad un comportamento criminale, lo Stato, risponderebbe con una pena criminale esemplare. In questo, vorrei che mai si dimenticasse che studi sul comportamento umano hanno dimostrato come buona parte di coloro i quali causano sinistri dagli esiti drammatici, in seguito al trauma emotivo che comunque subiscono e a parità di condizioni, rievocando l’evento nefasto, sono portati a ripetere i medesimi errori che hanno determinato l’evento stesso. Aspetti della indagine sul dolo eventuale e relative implementazioni Se condividiamo l’impostazione e le motivazioni di base, possiamo proseguire oltre, cercando di cogliere quelle sfumature operative che ci offre il Maestro Antolisei, ragionando in termini di “elemento soggettivo” del reato. Qui diamo per scontato che: - il sinistro è già avvenuto; - il sinistro è avvenuto in conseguenza della inosservanza di una regola della circolazione stradale; - a causa del sinistro ed in conseguenza del comportamento inosservante della suddetta regola, l’autore del fatto ha causato lesioni, se non il decesso, della controparte. In ipotesi, dunque, ci si muove sul solco delle lesioni personali colpose (art. 590 c.p.) ovvero dell’omicidio colposo (art. 589 st. cod.); in via derivata e da un’analisi più attenta ed approfondita sul comportamento del reo (che è quello che ci proponiamo di fare), si può giungere ad indagare lo stesso per lesioni personali (artt. 582 ss. c.p.) ovvero per omicidio (art. 575 st. cod.). Infatti, l’art. 575 c.p. da ultimo citato, a differenza del codice Zanardelli che prevedeva l’inciso “al fine di uccidere”, non ha riprodotto questa specificazione, ma ha consentito l’ingresso di differenti caratterizzazioni del dolo, permettendo così di ritenere sussistente la volontà omicida non solo quando l’agente abbia agito con l’intenzione di uccidere (dolo diretto), ma anche quando egli si sia rappresentato l’evento morte come conseguenza altamente probabile della sua condotta che ciononostante, ha posto in essere (dolo eventuale) ed infine, quando l’agente si sia rappresentato l’evento morte come indifferente rispetto a quello di lesioni (dolo alternativo) (4). La prova della volontà omicida va ricavata da elementi oggettivi, desumibili dalle modalità dell’azione e dunque, dalla dinamica del sinistro e dalla azione del conducente nel determinare l’evento. Ovviamente, come ricorda l’Antolisei, il fatto che costituisce il reato è l’insieme delle note che lo caratterizzano e queste debbono essere conosciute dall’agente, prima ancora che il reato venga da questi consumato. Ma tale conoscenza non è assorbita dalla volontà, posto che quest’ultima riguarda soltanto la condotta e, nel caso di specie, le conseguenze che ne derivano. Taluni elementi che caratterizzano il reato, dunque, possono restare fuori della volontà, quindi non possono essere voluti, ma devono essere conosciuti. Nel caso di specie (parlando, cioè di omicidio), affinché si abbia dolo, occorre che il conducente del veicolo abbia consapevolezza del fatto che l’oggetto contro cui dirige la sua azione è un uomo: questo non può essere un animale, un veicolo, un oggetto, ecc. Ma il discorso non cambia per le lesioni personali, naturalmente. In buona sostanza e con una terminologia che oserei definire calzante, se non altro per il delicato argomento che trattiamo, l’Antolisei indica il “dolo” come una volontà cattiva al fine di distinguerlo dalla “colpa” che, invece, è leggerezza. Certamente, il comportamento doloso è caratterizzato da un comportamento antisociale del fatto, il che significa che l’agente deve rendersi conto di nuocere ad altri; vale a dire, di ledere o porre in pericolo interessi che non gli appartengono (5). A questo punto, si tratta di stabilire come, dall’indagine infortunistica, possono emergere rilievi tali da caratterizzare l’azione criminosa (in quanto rilevante ai fini dell’applicazione della legge penale) come azione criminale (in quanto punibile a titolo di dolo). Chiaramente, l’indagine infortunistica si svolgerà a ritroso: dato per appurato il c.d. “nesso di causa”, dall’evento (il danno alla persona o la sua morte), si passerà alla causa dell’evento (urto con il veicolo dell’investitore condotto in un certo modo) ed alla gravità dello stesso in relazione alla violazione di regole della circolazione stradale (6). A questo punto, l’attività investigativa si farà veramente intensa, posto che dovrà essere dimostrato quanto poteva essere consapevole l’agente della possibilità di procurare un danno alla persona, sino all’estrema conseguenza dell’ucciderla o del procurargli lesioni. Ciò non basta, se non si possa provare che tale rischio non solo era rappresentabile per l’agente, ma anche accettabile come tale (qui sta il vero e proprio comportamento antisociale, la c.d. volontà cattiva). Ebbene, l’analisi del luogo del sinistro e della tipologia di comportamento di guida, potranno essere senz’altro elementi configuranti tali circostanze. Una cosa, ad esempio, è eccedere in velocità su di un’autostrada, anche raggiungendo velocità “proibitive”, con la conseguenza finale di uccidere un autostoppista. Almeno chi scrive non sarebbe nella condizione di sviluppare la sua indagine sul presupposto che il conducente del veicolo avrebbe previsto di poter investire un uomo (che in termini probabilistici, non avrebbe dovuto esserci, tanto più nell’ambito di un’attività vietata sulle autostrade, come, per l’appunto, fare l’autostop), accettando quindi la possibilità di ucciderlo, in caso di investimento. Altra cosa, sempre a titolo di esempio, è eccedere in velocità in centro abitato segnalato, attraversando una strada locale sprovvista di marciapiedi, con veicoli in sosta laterale e movimentazione di persone, con la conseguenza finale di uccidere un anziano pedone in fase di attraversamento della carreggiata su apposito attraversamento. Non avrei gli stessi dubbi e sicuramente la mia indagine si muoverebbe dalla presunzione di ritenere che il conducente aveva bene in mente il luogo di frequentazione, l’alta pedonalizzazione e dunque la possibilità di investire un uomo; in relazione alla velocità elevata (7), con buona probabilità di ucciderlo o di procurargli lesioni, anche tenuto conto del fatto che prima dell’impatto venivano rilevate al suolo trenta metri di frenata. Per chiarezza e per scongiurare ancora ogni sorta di equivoco a riguardo: la mia “certezza” investigativa, dovrebbe comunque rapportarsi al principio della non colpevolezza e servire esclusivamente per allargare gli orizzonti investigativi: diversamente, questi resterebbero imperniati nel sistema dei reati colposi previsti, in termini molto generali, dagli artt. 589 s. c.p. Conclusione Quello di cui ci siamo detti, potrebbe essere definita come una “indagine per assurdo”. Partendo cioè, da una ipotesi più grave, per restare poi, nell’ambito di una ipotesi “meno” grave; ma, se ciò non è conforme a diritto, per escluderla dal campo delle valutazioni giudiziarie. Il messaggio finale e conclusivo, è senz’altro quello di fare una riflessione più attenta su ciò che può fare la polizia stradale; su quanto può contribuire la polizia stradale a scoraggiare certi criminali della strada che, come qualsiasi altro criminale esprimono una volontà cattiva e malvagia, tale da ledere o porre in pericolo interessi che non gli appartengono; interessi quale la salute, la vita delle persone; valori che, indirettamente, sono sottratti ai familiari delle vittime della strada, per uno stupido gioco, anzi, per un’azione criminale che va punita come tale. La polizia stradale che non deve né vuole fare terrorismo psicologico, ma che, semplicemente, adottando un comportamento investigativo più sensibile e più attento, permette, anche tramite un giudicato penale, che chi uccide altre persone o le priva del bene della salute, sia considerato comunque un criminale: indipendentemente dall’arma della quale ha fatto uso indiscriminato. Un giudizio di condanna, che essendo formulato in nome del popolo italiano, non legittima, non giustifica, non cerca espedienti di colpevolezza, ma riconosce il grave errore di una persona a danno di un’altra persona che per lo Stato è un valore imprescindibile ed insostituibile. Non già una sorta di giustizialismo esasperato, fine a se stesso, ma la ricerca di un metodo operativo per scoraggiare, con la massima diffusione della informazione sul metodo stesso, taluni comportamenti criminali che se tollerati, possono divenire cultura. Quella cultura che a mio modo di vedere, giorno per giorno, è sempre più presente sulle nostre strade. La cultura della indifferenza. Si corre perché si ha fretta; si telefona durante la guida ed in manovre ardite; si sosta in seconda fila o in zona rimozione, per acquistare un giocattolo; si percorre la corsia di emergenza dell’autostrada per non fare la fila; si passa con il rosso, perché dall’altra strada non arriva nessuno o comunque, se arriva, è ancora distante; si fanno sorpassi azzardati perché chi ci precede rispetta i limiti di velocità; si arriva a palla addosso al veicolo in fase di sorpasso e si lampeggia nervosamente, per chiedere il passo... ci si abitua a ritenere questi comportamenti “normali”, finché da uno di questi comportamenti ci “scappa il morto”. E poi si chiede perdono. * Ufficiale della Polizia Municipale, attestato tecnico del segnalamento e tutela delle strade al Politecnico di Milano e CISEL di Rimini; iscritto all’albo dei docenti della Scuola di Polizia Locale dell’Emilia Romagna e dell’Istituto Superiore Operatori di Polizia Locale. Referente A.S.A.P.S. nel comune di Forte dei Marmi. [Note] 1- F. ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, XVI ed., Giuffré- Milano, pag. 353 2- F. ANTOLISEI, Op. cit., pagg. 354 s. 3- Fonte, Banca dati Juris Data, Giuffré-Milano, DVD 4/2006 4- Corte di Assise Monza, 12 aprile 2002, Juris Data, Op. cit. 5- F. ANTOLISEI, Op. cit., pagg. 360 6- Direi, non necessariamente, posto che l’eventuale violazione delle regole della circolazione stradale rilevano soltanto nella ipotesi delle lesioni e dell’omicidio colposo. Infatti, nulla vieta che da un comportamento “osservante” delle regole della circolazione possano derivare comunque dei sinistri stradali dagli esiti comunque prevedibili. Per meglio dire, è convinzione di chi scrive che solo a causa della inosservanza di una regola della circolazione stradale (se non altro ed in termini assai lati, l’art. 140 del codice) si verifica un sinistro stradale; più corretto è dire che non sempre risulta agevole accertare di quale violazione si tratta. Ma nel caso di specie e cioè parlando di “dolo eventuale” ciò che rileva non è ante-fatto ma, piuttosto, il fatto stesso e cioè l’avere provocato lesioni personali o la morte di una persona adottando un comportamento consapevole del rischio: tanto consapevole da accettarne persino le conseguenze. 7- Non si trascuri il fatto, che secondo la medicina ufficiale, un impatto ai 40 km/h è da considerare di per sé mortale ed è rapportabile ad una caduta dal secondo piano di un edificio. da "il Centauro" n. 112 |
|
|
© asaps.it |