Foto Blaco
Una recente sentenza della
Suprema Corte ha riconfermato in toto la responsabilità dell’ente gestore
dell’autostrada in casi che rasentano l’ipotesi del caso fortuito, ma non lo
integrano a causa del c.d principio della vicinanza alla prova.
Alludiamo alla sentenza n. 2308 del 2.2.2007 della Corte di Cassazione, la cui
massima così recita: “la disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ. si applica
anche in tema di danni sofferti dagli utenti per la cattiva ed omessa
manutenzione delle autostrade da parte dei concessionari, in ragione del
particolare rapporto con la cosa che ad essi deriva dai poteri effettivi di
disponibilità e controllo sulle medesime, salvo che dalla responsabilità
presunta a loro carico i concessionari si liberino fornendo la prova del fortuito,
consistente non già nella dimostrazione dell’interruzione del nesso di
causalità determinato da elementi esterni o dal fatto estraneo alla sfera di
custodia (ivi compreso il fatto del danneggiato o del terzo), bensì anche dalla
dimostrazione - in applicazione del principio di c.d. vicinanza alla prova - di
aver espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla funzione della
cosa, in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività
di controllo, di vigilanza e manutenzione su di essi gravanti in base a
specifiche disposizioni normative, e già del principio generale del ‘neminem
laedere’, di modo che il sinistro appaia verificatosi per fatto non
ascrivibile a sua colpa”. In questo caso la Corte, sulla scorta di tale
principio, ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto
configurabile la responsabilità da omessa custodia a carico del concessionario
gestore di autostrada con riferimento ad un incidente causato dalla presenza
sulla sede autostradale di un cane che aveva tagliato la strada al veicolo
sopraggiungente, con
conseguente sbandamento e ribaltamento dello stesso (a seguito della collisione
con i cordoli laterali) e produzione di lesioni personali, senza che l’ente di
gestione, su cui incombeva il relativo onere della prova, fosse riuscito a
dimostrare che l’immissione dell’animale era riconducibile a un caso fortuito,
quale l’abbandono del cane in una piazzola dell’autostrada o il taglio
vandalico della rete di recinzione o, ancora, l’abbattimento di questa in conseguenza
di precedente incidente, per il quale non era stato possibile intervenire
tempestivamente adottando le necessarie cautele. Con un’altra sentenza, di poco
precedente (n. 3651 del 20.2.2006), la Corte aveva già ribadito gli stessi
principi, in un caso di incidente avvenuto su strada statale, statuendo la
responsabilità al riguardo dell’ANAS (e, in ogni caso, della Pubblica
Amministrazione). Questa la relativa massima: “in caso di incidente avvenuto su
strada statale, la P.A. (o, come nel caso, l’ente gestore ANAS) risponde ai
sensi dell’art. 2051 cod. civ. dei danni conseguenti ad omessa o insufficiente
manutenzione della strada di cui è proprietaria (art. 14 cod. strada) o custode
(tale essendo anche il possessore, il detentore e il concessionario), in
ragione del particolare rapporto con la cosa che le deriva dai poteri effettivi
di disponibilità e controllo sulla medesima, salvo che dalla responsabilità
presunta a suo carico essa si liberi dando la prova del fortuito, consistente
non già nell’interruzione del nesso di causalità determinato da elementi
esterni’ o dal fatto estraneo alla sfera di custodia - ivi ricompreso il fatto
del danneggiato o del terzo -, bensì nella dimostrazione, in applicazione del
principio di c.d. vicinanza alla prova, di aver espletato, con la diligenza
adeguata alla natura e alla funzione della cosa in considerazione delle
circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo, vigilanza e
manutenzione su di essa gravanti in base a specifiche disposizioni normative
(nel caso, art. 14 cod. strada; art. 2 d.lgs. n. 143 del 1994; D.M. LL.PP. n.
223 del 1992 ) e già del principio generale del ‘neminem laedere’, di
modo che pertanto il sinistro appaia verificato per un fatto non ascrivibile a
sua colpa”. In questo caso la Corte aveva diffusamente argomentato, adducendo
che, in caso di incidente, il danneggiato è tenuto, secondo le regole generali
in tema di responsabilità civile, a dare la prova che i danni subiti derivano
dalla cosa, in relazione alle circostanze del fatto concreto, e che tale prova
(che consiste nella dimostrazione del verificarsi dell’evento dannoso e del suo
rapporto di causalità con la cosa in custodia) può essere data anche con
presunzioni, in quanto la prova del danno è di per sé indice della sussistenza
di un risultato “anomalo”, e cioè dell’obiettiva deviazione dal modello di
condotta improntato ad adeguata diligenza che normalmente evita il danno. Il
danneggiato, invece, non è tenuto a dare la prova anche della presenza di
un’insidia o di un trabocchetto, estranei alla responsabilità ex art. 2051 cod.
civ., o dell’insussistenza di impulsi causali autonomi ed estranei alla sfera
di controllo propria del custode o della condotta omissiva o commissiva di
quest’ultimo. “Facendo quindi eccezione alla regola generale di cui al
combinato disposto degli art. 2043 e 2697 cod. civ.” ha affermato ancora la
Corte in tale occasione, “l’art. 2051 cod. civ. determina infatti un’ipotesi
(non già di responsabilità oggettiva bensì) caratterizzata da un criterio di inversione
dell’onere della prova, ponendo (al secondo comma) a carico del custode la
possibilità di liberarsi dalla responsabilità presunta a suo carico mediante la
prova liberatoria del fortuito (c.d. responsabilità aggravata), dando cioè, in
ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce,
cui fanno peraltro riscontro corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e
diligenza (i quali impongono di adottare tutte le misure idonee a prevenire ed
impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e
alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto), nonché in
ossequio al principio di c.d. vicinanza alla prova, la dimostrazione che il
danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo
diligente adeguato alle concrete circostanze del caso. Il custode è cioè tenuto
a provare la propria mancanza di colpa nella verificazione del sinistro, e non
già la mancanza del nesso causale, il criterio di causalità essendo altro e
diverso dal giudizio di diligenza (avere preso tutte le misure idonee), che si
risolve sostanzialmente sul piano del raffronto tra lo sforzo diligente nel
caso concreto dovuto e la condotta, caratterizzata da assenza di colpa,
mantenuta. È allora sul piano del fortuito, quale esimente di responsabilità,
che possono assumere rilievo (anche) i caratteri dell’estensione e dell’uso
diretto della cosa da parte della collettività che, estranei alla ‘struttura’
della fattispecie e pertanto non configurabili come presupposti di applicazione
della disciplina ex art. 2051 cod. civ., possono valere ad escludere la
presunzione di responsabilità ivi prevista, ove il custode dimostri che
l’evento dannoso presenta i caratteri dell’imprevedibilità e della
inevitabilità non superabili con l’adeguata diligenza, come pure l’evitabilità
del danno solamente con l’impiego di mezzi straordinari (e non già di entità
meramente considerevole)”. Il principio di vicinanza alla prova, peraltro,
aveva avuto enunciazione nella sentenza n. 11316 del 21.7.2003, quando la Corte
(in una fattispecie di colpa medica) aveva dichiarato che “in ogni caso in cui
la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa
parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel
quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova”,
assume allora rilievo ‘la vicinanza alla prova’, e cioè la effettiva
possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla”. Suscita tuttavia
qualche perplessità l’astrazione generalizzata di un simile principio, e
soprattutto la sua trasposizione dal piano della responsabilità civile tout
court (ove lo spazio per la valutazione dell’impatto di tale principio sul caso
concreto è ampio e impregiudicato) a quello di sub-tipologie specifiche di
responsabilità a forte connotazione normativa, quali, ad esempio, la
responsabilità ex art. 2051 codice civile per danni da cose in custodia, ove
massimamente incombe il rischio di una degenerazione in forme di responsabilità
oggettiva estranea alla colpa. Scendendo al concreto, sembra azzardato
accollare a un soggetto custode una responsabilità per non avere adeguatamente
verificato o prevenuto eventi quali l’abbandono estemporaneo di un cane
sull’autostrada (magari avvenuto pochi minuti prima) o la presenza di una
lacerazione di pochi centimetri su una recinzione lunga chilometri, fatti la
cui verifica e prevenzione paiono davvero inesigibili. Né vale, a tale
proposito, evocare una maggiore o minore “vicinanza” alla prova del custode, il
quale non ha strumenti per “avvicinarsi” veramente alla verità di fatti così
labili e imprevedibili, se non la formulazione di presunzioni semplici (le
quali sono peraltro alla portata di chiunque e non evocabili in termini di
maggiore o minore “vicinanza alla prova”). Tornando alla diversa tipologia
della colpa medica, è bene allora richiamare un’altra sentenza (n. 23918 del
9.11.2006), ove la Suprema Corte ha affermato che “in tema di responsabilità
civile nell’attività medico-chirurgica, il paziente che agisce in giudizio
deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il
contratto e allegare l’inadempimento del professionista, restando a carico
dell’obbligato l’onere di provare l’esatto adempimento, con la conseguenza che
la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la
soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà rileva soltanto per la
valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa,
restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di
particolare difficoltà”. In altre parole, appare quindi più esatto invocare un
principio di “vicinanza alla prova” (che altro non significa se non maggiore
disponibilità di strumenti per raggiungere la prova) quando ricorre una precisa
mediazione concettuale, quale, ad esempio, il possesso di cognizioni specifiche
per meglio interpretare il contesto in cui il fatto dannoso è maturato e su cui
l’agente andava a incidere. Quando ciò manca, e si dibatte invece su fatti occasionali,
“prosaici”, parlare di “vicinanza alla prova” in base alla sola circostanza,
estrinseca, della presenza di un obbligo di custodia comporta il rischio di far
ricadere l’imprevedibile e il fortuito nella sfera di vigilanza dell’obbligato,
che così può ritrovarsi responsabile in via meramente oggettiva. |
|
© asaps.it |