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Articoli 26/07/2007

Sul principio di vicinanza alla prova


Foto Blaco

Una recente sentenza della Suprema Corte ha riconfermato in toto la responsabilità dell’ente gestore dell’autostrada in casi che rasentano l’ipotesi del caso fortuito, ma non lo integrano a causa del c.d principio della vicinanza alla prova. Alludiamo alla sentenza n. 2308 del 2.2.2007 della Corte di Cassazione, la cui massima così recita: “la disciplina di cui all’art. 2051 cod. civ. si applica anche in tema di danni sofferti dagli utenti per la cattiva ed omessa manutenzione delle autostrade da parte dei concessionari, in ragione del particolare rapporto con la cosa che ad essi deriva dai poteri effettivi di disponibilità e controllo sulle medesime, salvo che dalla responsabilità presunta a loro carico i concessionari si liberino fornendo la prova del fortuito, consistente non già nella dimostrazione dell’interruzione del nesso di causalità determinato da elementi esterni o dal fatto estraneo alla sfera di custodia (ivi compreso il fatto del danneggiato o del terzo), bensì anche dalla dimostrazione - in applicazione del principio di c.d. vicinanza alla prova - di aver espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla funzione della cosa, in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo, di vigilanza e manutenzione su di essi gravanti in base a specifiche disposizioni normative, e già del principio generale del ‘neminem laedere’, di modo che il sinistro appaia verificatosi per fatto non ascrivibile a sua colpa”. In questo caso la Corte, sulla scorta di tale principio, ha confermato la sentenza impugnata, che aveva ritenuto configurabile la responsabilità da omessa custodia a carico del concessionario gestore di autostrada con riferimento ad un incidente causato dalla presenza sulla sede autostradale di un cane che aveva tagliato la strada al veicolo sopraggiungente, con conseguente sbandamento e ribaltamento dello stesso (a seguito della collisione con i cordoli laterali) e produzione di lesioni personali, senza che l’ente di gestione, su cui incombeva il relativo onere della prova, fosse riuscito a dimostrare che l’immissione dell’animale era riconducibile a un caso fortuito, quale l’abbandono del cane in una piazzola dell’autostrada o il taglio vandalico della rete di recinzione o, ancora, l’abbattimento di questa in conseguenza di precedente incidente, per il quale non era stato possibile intervenire tempestivamente adottando le necessarie cautele. Con un’altra sentenza, di poco precedente (n. 3651 del 20.2.2006), la Corte aveva già ribadito gli stessi principi, in un caso di incidente avvenuto su strada statale, statuendo la responsabilità al riguardo dell’ANAS (e, in ogni caso, della Pubblica Amministrazione). Questa la relativa massima: “in caso di incidente avvenuto su strada statale, la P.A. (o, come nel caso, l’ente gestore ANAS) risponde ai sensi dell’art. 2051 cod. civ. dei danni conseguenti ad omessa o insufficiente manutenzione della strada di cui è proprietaria (art. 14 cod. strada) o custode (tale essendo anche il possessore, il detentore e il concessionario), in ragione del particolare rapporto con la cosa che le deriva dai poteri effettivi di disponibilità e controllo sulla medesima, salvo che dalla responsabilità presunta a suo carico essa si liberi dando la prova del fortuito, consistente non già nell’interruzione del nesso di causalità determinato da elementi esterni’ o dal fatto estraneo alla sfera di custodia - ivi ricompreso il fatto del danneggiato o del terzo -, bensì nella dimostrazione, in applicazione del principio di c.d. vicinanza alla prova, di aver espletato, con la diligenza adeguata alla natura e alla funzione della cosa in considerazione delle circostanze del caso concreto, tutte le attività di controllo, vigilanza e manutenzione su di essa gravanti in base a specifiche disposizioni normative (nel caso, art. 14 cod. strada; art. 2 d.lgs. n. 143 del 1994; D.M. LL.PP. n. 223 del 1992 ) e già del principio generale del ‘neminem laedere’, di modo che pertanto il sinistro appaia verificato per un fatto non ascrivibile a sua colpa”. In questo caso la Corte aveva diffusamente argomentato, adducendo che, in caso di incidente, il danneggiato è tenuto, secondo le regole generali in tema di responsabilità civile, a dare la prova che i danni subiti derivano dalla cosa, in relazione alle circostanze del fatto concreto, e che tale prova (che consiste nella dimostrazione del verificarsi dell’evento dannoso e del suo rapporto di causalità con la cosa in custodia) può essere data anche con presunzioni, in quanto la prova del danno è di per sé indice della sussistenza di un risultato “anomalo”, e cioè dell’obiettiva deviazione dal modello di condotta improntato ad adeguata diligenza che normalmente evita il danno. Il danneggiato, invece, non è tenuto a dare la prova anche della presenza di un’insidia o di un trabocchetto, estranei alla responsabilità ex art. 2051 cod. civ., o dell’insussistenza di impulsi causali autonomi ed estranei alla sfera di controllo propria del custode o della condotta omissiva o commissiva di quest’ultimo. “Facendo quindi eccezione alla regola generale di cui al combinato disposto degli art. 2043 e 2697 cod. civ.” ha affermato ancora la Corte in tale occasione, “l’art. 2051 cod. civ. determina infatti un’ipotesi (non già di responsabilità oggettiva bensì) caratterizzata da un criterio di inversione dell’onere della prova, ponendo (al secondo comma) a carico del custode la possibilità di liberarsi dalla responsabilità presunta a suo carico mediante la prova liberatoria del fortuito (c.d. responsabilità aggravata), dando cioè, in ragione dei poteri che la particolare relazione con la cosa gli attribuisce, cui fanno peraltro riscontro corrispondenti obblighi di vigilanza, controllo e diligenza (i quali impongono di adottare tutte le misure idonee a prevenire ed impedire la produzione di danni a terzi, con lo sforzo adeguato alla natura e alla funzione della cosa e alle circostanze del caso concreto), nonché in ossequio al principio di c.d. vicinanza alla prova, la dimostrazione che il danno si è verificato in modo non prevedibile né superabile con lo sforzo diligente adeguato alle concrete circostanze del caso. Il custode è cioè tenuto a provare la propria mancanza di colpa nella verificazione del sinistro, e non già la mancanza del nesso causale, il criterio di causalità essendo altro e diverso dal giudizio di diligenza (avere preso tutte le misure idonee), che si risolve sostanzialmente sul piano del raffronto tra lo sforzo diligente nel caso concreto dovuto e la condotta, caratterizzata da assenza di colpa, mantenuta. È allora sul piano del fortuito, quale esimente di responsabilità, che possono assumere rilievo (anche) i caratteri dell’estensione e dell’uso diretto della cosa da parte della collettività che, estranei alla ‘struttura’ della fattispecie e pertanto non configurabili come presupposti di applicazione della disciplina ex art. 2051 cod. civ., possono valere ad escludere la presunzione di responsabilità ivi prevista, ove il custode dimostri che l’evento dannoso presenta i caratteri dell’imprevedibilità e della inevitabilità non superabili con l’adeguata diligenza, come pure l’evitabilità del danno solamente con l’impiego di mezzi straordinari (e non già di entità meramente considerevole)”. Il principio di vicinanza alla prova, peraltro, aveva avuto enunciazione nella sentenza n. 11316 del 21.7.2003, quando la Corte (in una fattispecie di colpa medica) aveva dichiarato che “in ogni caso in cui la prova non possa essere data per un comportamento ascrivibile alla stessa parte contro la quale il fatto da provare avrebbe potuto essere invocato, nel quadro dei principi in ordine alla distribuzione dell’onere della prova”, assume allora rilievo ‘la vicinanza alla prova’, e cioè la effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla”. Suscita tuttavia qualche perplessità l’astrazione generalizzata di un simile principio, e soprattutto la sua trasposizione dal piano della responsabilità civile tout court (ove lo spazio per la valutazione dell’impatto di tale principio sul caso concreto è ampio e impregiudicato) a quello di sub-tipologie specifiche di responsabilità a forte connotazione normativa, quali, ad esempio, la responsabilità ex art. 2051 codice civile per danni da cose in custodia, ove massimamente incombe il rischio di una degenerazione in forme di responsabilità oggettiva estranea alla colpa. Scendendo al concreto, sembra azzardato accollare a un soggetto custode una responsabilità per non avere adeguatamente verificato o prevenuto eventi quali l’abbandono estemporaneo di un cane sull’autostrada (magari avvenuto pochi minuti prima) o la presenza di una lacerazione di pochi centimetri su una recinzione lunga chilometri, fatti la cui verifica e prevenzione paiono davvero inesigibili. Né vale, a tale proposito, evocare una maggiore o minore “vicinanza” alla prova del custode, il quale non ha strumenti per “avvicinarsi” veramente alla verità di fatti così labili e imprevedibili, se non la formulazione di presunzioni semplici (le quali sono peraltro alla portata di chiunque e non evocabili in termini di maggiore o minore “vicinanza alla prova”). Tornando alla diversa tipologia della colpa medica, è bene allora richiamare un’altra sentenza (n. 23918 del 9.11.2006), ove la Suprema Corte ha affermato che “in tema di responsabilità civile nell’attività medico-chirurgica, il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del professionista, restando a carico dell’obbligato l’onere di provare l’esatto adempimento, con la conseguenza che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà rileva soltanto per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà”. In altre parole, appare quindi più esatto invocare un principio di “vicinanza alla prova” (che altro non significa se non maggiore disponibilità di strumenti per raggiungere la prova) quando ricorre una precisa mediazione concettuale, quale, ad esempio, il possesso di cognizioni specifiche per meglio interpretare il contesto in cui il fatto dannoso è maturato e su cui l’agente andava a incidere. Quando ciò manca, e si dibatte invece su fatti occasionali, “prosaici”, parlare di “vicinanza alla prova” in base alla sola circostanza, estrinseca, della presenza di un obbligo di custodia comporta il rischio di far ricadere l’imprevedibile e il fortuito nella sfera di vigilanza dell’obbligato, che così può ritrovarsi responsabile in via meramente oggettiva.

* Gip presso il Tribunale di Forlì


da "il Centauro" n. 113

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di Michele Leoni*

Da "il Centauro"
Giovedì, 26 Luglio 2007
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