Niente devolution per le multe elevate dalla polizia locale: la massima autorità in fatto di sanzioni del codice della strada era, e resterà sempre, il prefetto. Parola della Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 3038 del 15 febbraio 2005 ha rimesso in ordine gerarchico, “allineati e coperti” tra loro, enti statali e locali, secondo i canoni dettati dal diritto della circolazione stradale.
Andiamo ai fatti: tutto è partito con una disputa tra amministrazione municipale e agenzia di privati in una città dell’alta Emilia. Un esercente di impianti pubblicitari installa manifesti a tutto campo ai margini di una strada, in barba, almeno secondo i vigili, al principio secondo cui la pubblicità stradale non deve procurare eccessive distrazioni per l’automobilista di passaggio. C’è di mezzo l’articolo 23 del codice, che antepone la sicurezza della circolazione all’interesse di pubblicizzare i prodotti commerciali sulle vie di comunicazione e di grande traffico. Logico, condivisibile, ma anche una vera spina nel fianco per chi con la pubblicità ci “campa”.
La lettera della norma, d’altra parte, non lascia spazio a sotterfugi: è vietato, si legge nelle prime righe, lungo le strade o in vista di esse collocare insegne, cartelli, manifesti impianti di pubblicità o propaganda, segni orizzontali reclamistici, sorgenti luminose, visibili dai veicoli che transitano, che per dimensioni, forma, colori,disegno o ubicazione, possono ingenerare confusione con la segnaletica, coprirla, arrecare disturbo visivo agli utenti o distrarne l’attenzione. A proposito di pubblicità il vecchio Ford insegnava: “sapete…, le oche fanno l’uovo riservatamente, in perfetto silenzio, le galline lo strillano al cielo: ecco spiegato come mai, in tutto il mondo, è con le uova di gallina che si fanno le frittate”. Ma allora, come si fa a rinunciare ad un bel manifesto per “starnazzare” al mondo la bontà del prodotto, pubblicizzandolo su vie dove centinaia di migliaia di occhi, pur incrociandola fugacemente, possono sublimare nel cervello l’immagine più grata al consumismo dilagante.
Resta il fatto, però, che l’articolo 23 del codice della strada, caparbiamente insiste nel desiderare che nel cervello degli utenti si sublimi solo l’immagine imperitura della segnaletica stradale. Proprio per questo motivo, gli agenti, hanno proceduto a carico dell’amministratore dell’agenzia con un verbale piuttosto salato e, quel che è peggio, con il preciso ordine di stracciare il manifesto imputato.
E qui arriviamo al punto. Il verbale della polizia municipale viene notificato, ma l’agenzia ricorre al Prefetto allegando tutte le proprie buone ragioni. Del resto, a quanto pare, l’accertamento effettivamente non era stato perfetto e così, ascoltate le difese del trasgressore, secondo i poteri conferitigli dalla legge, l’autorità prefettizia emette un decreto di archiviazione del verbale.
Tutto a posto dunque: il manifesto resta al suo posto, ad essere stracciato è invece il verbale degli agenti, nessuna spesa per il procedimento. Insomma la vicenda poteva finire con una sportiva stretta di mano.
L’avvocatura del Comune, però, per motivi del tutto intuibili non ci ha messo più di un attimo a manifestare un diverso punto di vista.
Non sarà certo stato per salvare quel verbale tra i centomila che i vigili compilano ogni anno, né per il contestare il mancato introito della relativa somma tutt’altro che cospicua, se paragonata alla mole delle entrate comunali.
Piuttosto occorreva evitare il diffondersi dell’idea che, in balia dei pubblicitari, una bella città ricca di monumenti e di storia potesse trasformarsi in un arlecchino di colori, tappezzata di accattivanti ma poco decorosi manifesti di propaganda commerciale. Ora, come si fa a far rimangiare al Prefetto il suo decreto? Per il Comune si intravedeva una sola via, rivelatasi purtroppo, col senno di poi quella sbagliata: ricorrere al giudice di pace. D’altra parte che male c’è se una volta tanto le parti si invertono: capita sempre alle amministrazioni comunali di dover difendere i propri atti davanti alla toga, questa volta sarà l’ente pubblico a chiedere giustizia contro l’annullamento del prefetto. La logica sottesa attinge a principi di umilissima eguaglianza. Perché non riconoscere anche al Comune il diritto, garantito ad ogni cittadino, di far valere le proprie ragioni davanti al giudice terzo?
Con un atto di estrema umiltà, dunque, l’ente si è seduto al banco delle comparse, trascinando in giudizio niente di meno che il rappresentante locale del Governo.
Sul piano giuridico due ragionamenti: prima di tutto il diritto di far valere una pretesa in giudizio, in linea con i principi informatori del nostro ordinamento civile; in secondo luogo, anche il Comune deve beneficiare del diritto di difesa, come ogni altro abitante del mondo giuridico.
Senza sprecare troppo inchiostro il giudice di pace ha però soffocato sul nascere ogni possibile conflitto tra enti pubblici, dichiarando lapidariamente il ricorso non ricevibile. La bocciatura era stata decretata con una motivazione per la verità molto stringata ed avida di spiegazioni.
Ciò non toglie che la sostanza del rifiuto nella sentenza si traspariva con estrema chiarezza tra le righe della carta bollata: il Comune non può chiamare nelle aule di giustizia il Governo della Repubblica, sia pure nella sua rappresentanza periferica.
Ecco che il giudice territoriale non ha saputo cogliere il travaglio di un ente indifeso davanti alle motivazioni di una prefettura disposta ad archiviare non solo il verbale, ma con esso la passione per una città più pulita, più ordinata, più bella. Resta un’ultima speranza: si va a Roma, in Cassazione. Tentativo tanto legittimo quanto “pio”, poiché la Corte, con ventidue pagine scritte fitte fitte, ha definitivamente tarpato le ali ai Comuni che, pur di difendere una multa elevata dai propri agenti palesemente si insubodinano all’autorità dei prefetti. Va esclusa – dice la sentenza n. 3038 del 15 febbraio 2005 – la proponibilità da parte del Comune, dell’opposizione all’ordinanza di archiviazione pronunciata dal prefetto perché non è ammissibile che un organo di amministrazione attiva insorga avverso le statuizioni degli organi preposti al controllo o alla revisione del suo operato, evocandoli in giudizio e ponendosi in opposizione ad essi. Ed il diritto di difesa che la costituzione elargisce a piene mani come corollario dei fondamentali diritti umani? Beh, con l’ordinamento degli enti non c’entra proprio nulla: ci mancherebbe che l’ufficio controllato facesse addirittura valere la convenzione di Ginevra contro il controllore. Morale: a difendersi può essere solo il destinatario del verbale, mentre il sistema di verifiche interne della pubblica amministrazione risponde a rigorosi criteri gerarchici, e niente giudici terzi.
Sussidiarietà? Grande principio, ma non esageriamo quando a far la vittima è il Comune.
* Funzionario della Polizia di Stato
Comandante della P.M. di Parma