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Articoli 24/08/2007

Tanto tuonò, ma non piovve

Osservazioni e critiche al DL 117 del 3 agosto 2007

Foto Coraggio – archivio Asaps 


Il legislatore italiano non perde l’atavico vizio di legiferare sull’onda dell’emergenzialità e dell’emotività.
Si, preferiscono, dunque, interventi apparentemente e pubblicamente eclatanti – e comunque tali da suscitare interesse mediatico, pur nella loro pochezza definitoria di gravi situazioni – a scelte meditate, decisive e, soprattutto, organiche.
I media, inoltre, hanno recepito solamente i profili di maggiore apparenza della novità legislativa e, con un’operazione di travisamento della realtà, frutto di un’ignoranza giuridica senza pari, hanno infatti “bombardato” l’utenza con toni epocali da tregenda, evidenziando che finalmente si sarebbe raggiunta la panacea il toccasana al problema attraverso la possibilità dell’arresto del singolo (sino ad un mese), dimenticando di dire, invece, – ed è questo l’aspetto che maggiormente conta – che nessuna persona sarà arrestata e sottoposata carcerazione preventiva per un mese, perché non è questa la punizione cautelare prevista dalla norma.
Siamo dinanzi, quindi, ad un’opera di colpevole disinformazione, che anche se non poggia affatto su di una sciente volontà appare, comunque, riprovevole perché fornisce una quadro della situazione ben diverso da quello in fieri, inducendo ad aspettative inesistenti.
Il d.l. 117 del 3 Agosto 2007, in relazione alle previsioni repressive contenute, in special modo nell’art. 5, non sfugge, pertanto, alla denunziata perversa logica e palese prova ne è la rubrica del provvedimento che si intitola “Disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella circolazione”.
Appare, dunque, evidente – prima facie - la improprietà ed inadeguatezza della metodologia di intervento normativo che, ispirata a tacitare temporaneamente l’ondata di indignazione e protesta per l’endemizzazione delle stragi stradali, evita – invece - di affrontare in modo articolate ed approfondito, sul piano legislativo il problema in questione.
In secondo luogo, si deve porre attenzione sul merito delle modifiche apportate, le quali paiono più attente ad una sorta di larvato perdonismo, piuttosto che ad una reale punizione di comportamenti che hanno assunto un livello di gravità, (anche sul piano indotto, si pensi alle ulteriori conseguenze che possono derivare dalla guida in stati di alterazione) che si posiziona ai vertici di valore assoluto.
Chi scrive è, per forma mentis e storia personale, un convinto garantista, ma non si deve cadere nell’errore di confondere il garantismo (cioè la corretta applicazione delle regole nel rispetto del cittadino inquisito), con la necessità di norme chiare, precise, inesorabili che puniscano adeguatamente comportamenti che emanano caratteri di chiaro disvalore sia individuale che sociale.
Ciò premesso, ritengo che mantenere nel limbo della categoria delle contravvenzioni regolate dal Codice della Strada le disposizioni attualmente previste dagli artt. 186 e 187 Cds sia un primo grave errore prospettico, che dimostra come i nostri governanti non abbiano chiaro in mente né la portata e gravità della situazione, né, tantomeno, quali siano gli strumenti con cui affrontare la stessa concretamente.
Un primo significativo passo sarebbe, dunque:

fare rientrare le due previsioni normative di violazione dei precetti relativi alle condizioni soggettive del conducente di un autoveicolo nell’ambito del codice penale;
fare rientrare le due anzidette previsioni normative nell’ambito dei delitti.


Per l’opinione pubblica (che andrebbe informata correttamente), forse, tali opzioni strettamente giuridiche potrebbero non apparire decisive, ma così non è!
Va, infatti, rilevato che l’inserimento di reati che specificamente prevedano la guida in stato di ebbrezza o quella sotto l’effetto di stupefacenti, nell’alveo della legge penale per antonomasia – il codice penale - renderebbe il vero senso e la concreta portata dell’importanza che si riconnette a simili comportamenti devianti.
Parimenti, la promozione di tali condotte da mere contravvenzioni a veri e propri delitti, accentuerebbe la petizione di principio riconnessa alla volontà di punire in modo preventivo condotte che possono evolversi progressivamente sfociando in reati ancor più gravi di quelli in esame.
Allo stato, la graduazione delle sanzioni, riconnettendo sinallagmaticamente il loro progressivo aumento al livello di intossicazione alcoolemica accertata, non è affatto una novità.
Va, infatti, sottolineato che, more solito, il legislatore è giunto a soluzioni che da anni varie Procure (quella di Rimini ad esempio, in primis) perseguivano all’evidente scopo di evitare una ingiusta massificazione di comportamenti e, soprattutto, di non punire con pene identiche condotte concrete che presentino, palesemente, connotati di grande differenziazione.
Vale a dire che già da molti anni esistono parametri sanzionatori penali – elaborati dal P.M. -, i quali si fondano su di un condivisibile criterio di progressività che risulta correlato con il valore del tasso alcoolemico accertato in capo al singolo soggetto.
Sicché si può dire che la montagna ha partorito il topolino e che la magistratura ha dovuto svolgere nella fattispecie attività di supplenza dell’ignavia del legislatore.

Vi è, però, di più.
Al di là di quelle scelte strutturali – che, a parere di chi scrive, non paiono più indilazionabili – emerge patente l’inadeguatezza delle sanzioni previste, ove osservate sotto quel fondamentale profilo della dissuasività da reiterazione di comportamenti analoghi futuri, che esse devono produrre quale effetto penalpreventivo.
Se pensiamo al novellato testo del comma 2° dell’art. 186 Cds, possiamo osservare che si tratta di pene (sia pseudo detentive, che pecuniarie) assolutamente irrisorie e come tali inadeguate.
Le sanzioni detentive previste, infatti, possono essere convertite in pecuniarie, vanificando così quegli effetti che ci si attende si manifestino, sia sul piano retributivo (giacchè non si deve avere timore di riaffermare che le sanzioni penali assolvono anche, e soprattutto, alla funzione di rispondere proporzionatamente a comportamenti devianti inaccettabili per la società civile), sia sul piano prospetticamente preventivo.
La stessa previsione di sostituire la sanzione, a richiesta dell’imputato, con l’obbligo di svolgere un’attivita’ sociale gratuita e continuativa presso strutture sanitarie traumatologiche pubbliche per un periodo che può variare a seconda dei casi, dimostra solamente un approccio demagogico al problema e la paura di punire comportamenti devianti.
Essa potrebbe, al più avere un senso in casi eccezionali di minima importanza e non già essere utilizzata come causa estintiva per comportamenti di maggiore gravità.
E’ dunque singolare che la legge preveda una meccanismo in base al quale più è grave il reato e più appare facile eludere la pena; semmai avrebbe avuto un senso il prevedere che tale misura fosse adottata ove il tasso alcoolemico fosse previsto fra 0,50 e 0,80, con esclusione, nel solo caso di prima infrazione (senza che vi sia stato incidente) della sanzione amministrativa della sospensione della patente.
Dimentica, infatti, il legislatore che non si possono o devono copiare maldestramente e goffamente istituti di altri e differenti ordinamenti giuridici stranieri, senza conoscere la filosofia che sottende in tali alvei sociali ad opzioni alternative e senza prevedere, inoltre, quale possa essere l’impatto degli stessi nel nostro paese (non si dimentichi che negli Stati Uniti una certa Paris Hilton ha scontato 23 giorni di carcere per guida con patente sospesa, reato per il quale in Italia nessuno mai sarà arrestato).
La misura alternativa introdotta, infatti, caratterizzata da un velleitarismo di maniera, priva di indicazioni concrete sulle modalità di questa attività di volontariato, finirà per divenire un comodo escamotage per la stragrande maggioranza degli interessati, che in questo modo eluderanno la giusta condotta che dovrebbero ricevere in relazione a condotte gravi.
Vi è, infatti, una enorme differenza concettuale e strutturale fra questa misura alternativa e gli istituti della messa alla prova per minori in corso di giudizio o dell’affidamento in prova al servizio sociale per le persone condannate.
Tali ricordate misure alternative, infatti, non solo sono caratterizzate da profili di eccezionalità, cioè vengono concessi solamente in presenza di condizioni sia oggettive che soggettive estremamente rigorose, ma prevedono preventivamente protocolli applicativi precisi e dettagliati
Queste osservazioni inducono chi scrive, quindi, a criticare la norma in esame per ulteriori varie ragioni anche sul piano squisitamente giuridico-procedimentale.
Nel testo di legge non è, infatti, indicata – come invece avrebbe dovuto essere – la previsione dell’estinzione della pena inflitta all’esito positivo della prova volontaria.

Non è indicato, inoltre, come e chi debba controllare la corretta e costante esecuzione della prova, onde ricavare da ciò il tipo di esito. In buona sostanza non si sa chi sia e divenga il giudice deputato (si tratta poi di ulteriore incarico inutile con dispendio di tempo e danaro) al controllo dell’esecuzione della prova a chi egli deleghi l’attuazione concreta dello stesso e come tale controllo debba avvenire in effetti.
Questa carenza è rilevante perché è necessario che vi sia un soggetto autorizzato che possa certificare l’esatto adempimento dell’obbligo, attesi gli impliciti effetti estintivi che vengono riconnessi alla misura alternative.
Non sono indicate, neppure, le modalità, il tipo di attività specifica da svolgere (l’interessato resterà a guardare gli ospiti della struttura ospedaliera o cosa dovrà fare in concreto?) e le cadenze con cui la prova dovrà essere svolta.
Si tratta di altra grave lacuna, che dimostra l’approssimazione del legislatore, in quanto va, infatti, sottolineato che i già menzionati istituti della messa alla prova e dell’affidamento al servizio sociale presuppongono una definizione preventiva del modus operandi del soggetto ammesso alla misura estintiva la pena.
Non possono, da ultimo, essere tralasciati dubbi sulla fondatezza e costituzionalità della misura prevista, atteso che essa verrebbe a prevedere – in realtà – una pena (perché tale essa è e si manifesta) che appare differente da quelle codicisticamente ed istituzionalmente previste e cioè la reclusione, l’ammenda, la multa e l’arresto.
Il giudizio sull’innovazione introdotta, dunque, appare totalmente negativo, anche perché, si ribadisce, non pare che misure del genere possano fungere da deterrente per persone che hanno necessità di comprendere il disvalore della loro condotta in modo rigoroso.
Si tratta del classico intervento a macchia di leopardo, destinato ad esser sostituito alla prossima emergenza da norme asseritamente nuove, ma in realtà all’apparenza del tutto analoghe.
Nulla quaestio (e ci mancherei altro) sul quantum delle sanzioni accessorie.
Si deve, infatti, ritenere che la privazione della patente per congrui periodi di tempo possa assolvere ad un effetto particolarmente importante della presa di coscienza del disvalore della condotta in questione.
Va detto, comunque, che nessuna previsione si rinviene in relazione alla possibilità di reiterazione di condotte di questo genere e specie, sicché è sconsolante concludere che la quotidiana esperienza relativa a personaggi plurirecidivi specifici nulla ha insegnato al legislatore governativo, il quale non pare informato di tale eventualità che si verifica, per vero, spesso.
Insoddisfacente appare, dunque, l’approccio sistematico alla risoluzione del problema, anche alla luce della “morbida” previsione di aumento di pena (che viene raddoppiata) per le violazioni in oggetto nell’ipotesi che dalle stesse derivi la verificazione di un incidente stradale.

Non si dimentichi mai – poi - che si tratta, in fin dei conti, di pene che sovente, per non dire sempre, rimarranno sulla carta, cioè pure petizioni di principio che non incideranno seriamente sul condannato, inducendolo ad una revisione del proprio comportamento.
Certo è, attese queste premesse che, - sia consentito osservare con una brevissima digressione dall’argomento principale - sarebbe stato, anche, logico e naturale attendersi una rimodulazione del sistema sanzionatorio anche in relazione all’art. 116 co. 13 in materia di guida senza patente.
Invece, a riprova della colpevole sottovalutazione del problema e dell’approccio populistico demagogico al problema rimane una pena dell’ammenda da euro 2.257 a euro 9.032, sia per chi non ha conseguito la patente di guida, sia per coloro che guidano senza patente perché revocata o non rinnovata per mancanza dei requisiti previsti dal presente codice.
Analoghe critiche devono essere mosse alla modifica apportata all’art. 187 Cds, anche perché tale tematica avrebbe dovuto essere affrontata in maniera parzialmente differente da quella della guida in stato di ebbrezza alcolica.
Fatta la premessa che l’uso di droghe non è un diritto e risulta sine dubio nocivo a chi le assuma, non è solo da oggi, infatti, maturata la necessità di verificare i reali e concreti effetti derivati dall’assunzione delle singole sostanze stupefacenti sull’uomo.

Illustri tossicologi, infatti, hanno evidenziato scientificamente come non possano essere affatto omologabili le conseguenze dirette od indirette dell’ingestione di droghe, a seconda delle stesse, le metodiche di rilevamento di tracce di psicotropi nel sangue e nelle urine dei singoli esaminati, i tempi di presenza nell’organismo dei metabolici concernenti gli stupefacenti.
Sicché è evidente che, per quanto importante possa essere, anche sul piano prognostico futuro (per la possibile adozione di misure preventive), il rinvenire di tracce di cannabis in capo ad una persona che fosse alla guida di un veicolo è pacifico che tale risultato non può essere equiparato – ad esempio - alla scoperta di tracce di cocaina od eroina.
E’, infatti, noto non solo il differente effetto di tali sostanze sul sistema nervoso centrale, ma anche il diverso periodo di metabolizzazione delle singole sostanze; sicché una persona può risultare positiva alla cannabis anche a rilevante distanza di tempo dall’assunzione di tale stupefacente, cioè in un periodo che non può essere posto in relazione diretta con la condotta di guida.
E’ evidente che risulta molto difficile in circostanze di tempo e luogo che inducono ed impongono agli agenti di p.g. scelte repentine, immediate e non differibili ad altra fase temporale, fruire di strumenti che possano permettere una valutazione approfondita del tipo di quella paventata.
D’altronde, non si può creare spazi di impunità, in quanto la necessità di verificare il momento esatto di assunzione dello stupefacente (leggero) potrebbe risultare in concreto un comodo escamotage per coloro che, invece, avessero assunto cannabis poco prima di porsi al volante.
Reputo, quindi, necessario che si imponga una scelta di mediazione sanzionatoria e cioè sia scelta opportuna quella di distinguere la sanzione (che peraltro va ripensata allo stesso modo di quanto sostenuto per la guida in stato di ebbrezza) a seconda del tipo di sostanza stupefacente risulti assunta dal soggetto.
Si tratta di tornare ad un concetto di reale offensività del comportamento specifico.

Ribadita che drogarsi non potrà mai essere riconosciuta come un diritto e che sul piano scientifico è dimostrato che tale condotta, al di fuori di trattamenti terapeutici ad hoc, minaccia la salute, è, invece, giusto – a parere di chi scrive – operare una seria e rigorosa distinzione sul piano dell’offensività delle singole sostanze.
Si deve tornare al criterio distintivo tra droghe leggere e droghe pesanti, che – diversamente da quanto sostenuto demagogicamente a livello politico - non è, né potrà mai essere parametro di liberalizzazione dell’uso della droga, ma è paradigma di proporzionalità ed adeguatezza del giudizio di disvalore (che si traduce in sanziona penale) che l’ordinamento riconnette a condotte che sono simili tra loro solo all’apparenza.
L’assunzione di cocaina, eroina, crack, extasy et similia risponde indubbiamente a parametri assolutamente differenti (che non è il caso in questa sede di approfondire) rispetto a quelli che sottendono l’uso di hashish o marijuana.
Consegue, quindi, che ferma la sanzionabilità della condotta di chi venga trovato alla guida di un veicolo dopo avere ingerito sostanze droganti, si deve porre l’attenzione su quella situazione soggettiva che viene riassunta nella locuzione “stato di alterazione psico-fisica”, perché questo dato non deve essere più considerato una delle condizioni per la contestazione del reato in oggetto, ma – a parere di chi scrive – deve divenire una circostanza qualificante e legittimante la previsione di una sanzione di maggiore gravità.
Vale, dunque, a dire che potrebbe essere un’ipotesi perseguibile quella di un reato base che preveda una pena differenziata a seconda del tipo di stupefacente che risulti assunto; ulteriore previsione aggravata dovrebbe riguardare l’ipotesi in cui il soggetto manifesti il citato “stato di alterazione psico-fisica”.
 

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Speriamo che non si debbano attendere altri e numerosi lutti per poter affrontare più radicalmente il tema.

 

*Avvocato del foro di Rimini



Di Carlo Alberto Zaina *

Venerdì, 24 Agosto 2007
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