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Corte di Cassazione 04/09/2007

L’espressione non è più offensiva in quanto fa ormai parte del linguaggio comune - Il “vaffa" non è più reato

(Cassazione 27966/2007)



Rivolgersi ad una persona con il “vaffa…” non è più un reato, perché tale espressione, ampiamente diffusa, non è più un’offesa ma fa ormai parte del linguaggio comune. Lo ha stabilito la Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione che ha assolto dall’accusa di ingiuria un consigliere comunale di Giulianova che, durante una seduta del Consiglio comunale, rivolgendosi al vicesindaco, aveva pronunciato l’incriminato “vaffa…”. La Suprema Corte ha dettagliatamente motivato la propria decisione, spiegando che vi sono talune parole ed anche frasi che, pur rappresentative di concetti osceni o a carattere sessuale, sono diventate di uso comune ed hanno perso il loro carattere offensivo, prendendo il posto nel linguaggio corrente di altre aventi significato diverso, le quali invece vengono sempre meno utilizzate; un simile fenomeno si è verificato rispetto a numerose locuzioni, quali ad esempio: “me ne fotto” in luogo di “non mi cale”; “è un gran casino” in luogo di “è una situazione disordinata” e del pari con riguardo all’espressione oggetto dell’imputazione, “vaffanculo”, la quale trasformatasi sinanco dal punto di vista strutturale (trattasi ormai di un’unica parola), viene frequentemente impiegata per dire “non infastidirmi”, “non voglio prenderti in considerazione” ovvero “lasciami in pace”. In realtà è l’uso troppo frequente, quasi inflazionato, delle suddette parole che ne ha modificato la carica offensiva, determimando certamente un impoverimento del linguaggio e dell’educazione, non potendo peraltro negarsi che, in numerosi casi, l’impiego delle medesime non superi più la soglia della illiceità penale; è evidente che se le espressioni incriminate vengono pronunciate dall’interessato nei confronti di un’insegnante che fa un’osservazione o di un vigile che dà una multa, esse assumono carattere di spregio, mentre diversa è la situazione se esse si collocano nel discorso che si svolge tra soggetti in posizione di parità ed in risposta a frasi che non postulano, per serietà ed importanza del loro contenuto, manifestazione di specifico rispetto. Nel caso in questione, “la parola incriminata fu pronunciata da un consigliere nei confronti di un altro e di rimando ad una frase del primo evocativa di errori passati del comunismo, ma del tutto qualunquistica, ossia priva di serio esame e di consapevole critica con riguardo al presente: ne consegue che la condotta verbale dell’imputato rappresentò una maleducata e volgare manifestazione di insofferenza, ma non fu tale da offendere l’onore ed il decoro dell’interlocutore ai sensi dell’art. 594 c.p.”. Il fatto, dunque, “non sussiste”. (03 settembre 2007)

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza n.27966/2007

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUINTA PENALE
MOTIVI DI RICORSO E RAGIONI DELLA DECISIONE

Con sentenza 30.11.99 il Tribunale monocratico di Giulianova assolveva B. V. dall’impugnazione di ingiuria (addebitatagli per avere – nel corso di una seduta del consiglio comunale di Giulianova, svoltasi il 23.11.99 – offeso l’onore ed il decoro di D. C. D., assessore e vice sindaco, dicendogli "Di Ca’ vaffanculo") perché la di lui condotta era da ritenersi scriminata ai sensi dell’art. 599 c. 2 c.p. [1]. In particolare il giudicante, nel ravvisare la ricorrenza dell’esimente, rilevava che il De Carlo, pur consapevole che la seduta del consiglio de quo assistevano molte persone che si riconoscevano nell’area comunista, aveva affermato che ci si doveva vergognare di essere comunisti.
Con pronuncia 10.2.06 la Corte di appello di L’Aquila, su appello della parte civile avanzato anche ai fini penali, dichiarava l’imputato responsabile del reato ascrittogli e, con le generiche equivalenti, lo condannava a pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore della citata parte.
Avverso la decisione di secondo grado l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, deducendo vizio di motivazione in ordine all’interpretazione dei dati acquisiti.
La Corte osserva.
Ricorrono gli estremi per un proscioglimento ex art. 129 c.p.p., in quanto risulta evidente l’insussistenza del fatto.
All’uopo s’impone un duplice ordine di considerazioni.
Vi sono talune parole ed anche frasi che, pur rappresentative di concetti osceni o a carattere sessuale, sono diventate di uso comune ed hanno perso il loro carattere offensivo, prendendo il posto nel linguaggio corrente di altre aventi significato diverso, le quali invece vengono sempre meno utilizzate; un simile fenomeno si è verificato rispetto a numerose locuzioni, quali ad esempio: "me ne fotto" in luogo di "non mi cale"; "è un gran casino" in luogo di "è una situazione disordinata" e del pari con riguardo all’espressione oggetto dell’imputazione, "vaffanculo", la quale trasformatasi sinanco dal punto di vista strutturale (trattasi ormai di un’unica parola), viene frequentemente impiegata per dire "non infastidirmi", "non voglio prenderti in considerazione" ovvero "lasciami in pace".
In realtà è l’uso troppo frequente, quasi inflazionato, delle suddette parole che ha modificato in senso connotativo la loro carica: il che ha determinato e determina certamente un impoverimento del linguaggio e dell’educazione, non potendo peraltro negarsi che, in numerosi casi, l’impiego delle medesime non superi più la soglia della illiceità penale.
S’innesta al proposito il secondo profilo della questione.
Quando sinora esposto è senza dubbio condizionato dal contesto in cui si inseriscono le espressioni citate: è evidente che se queste vengono pronunciate dall’interessato nei confronti di un’insegnante che fa un’osservazione o di un vigile che dà una multa, esse assumono carattere di spregio; diversa è la situazione se esse si collocano nel discorso che si svolge tra soggetti in posizione di parità ed in risposta a frasi che non postulano, per serietà ed importanza del loro contenuto, manifestazione di specifico rispetto.
Orbene, nel caso in esame la parola incriminata fu pronunciata da un consigliere nei confronti di un altro e di rimando ad una frase del Di Caro evocativa di errori passati del comunismo, ma del tutto qualunquistica, ossia priva di serio esame e di consapevole critica con riguardo al presente: ne consegue che la condotta verbale dell’imputato rappresentò una maleducata e volgare manifestazione di insofferenza, ma non fu tale da offendere l’onore ed il decoro dell’interlocutore ai sensi dell’art. 594 c.p..
In conformità a quanto esposto si richiamano i seguenti precedenti: Cass. V sez. pen. 9.5.07 n. 1179, Pres. D. Nardi, rel. A. Nappi, non ancora massimata; Cass. 3.6.05 n. 39454 RV. 232339).
L’impugnata sentenza deve pertanto essere annullata senza rinvio, perché il fatto non sussiste.

P.Q.M.
La Corte annulla la sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non sussiste.

Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2007.

da CittadinoLex.it

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Martedì, 04 Settembre 2007
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