Rivolgersi ad una persona con il “vaffa…” non è più un
reato, perché tale espressione, ampiamente diffusa, non è più un’offesa ma fa
ormai parte del linguaggio comune. Lo ha stabilito la Quinta Sezione Penale
della Corte di Cassazione che ha assolto dall’accusa di ingiuria un consigliere
comunale di Giulianova che, durante una seduta del Consiglio comunale,
rivolgendosi al vicesindaco, aveva pronunciato l’incriminato “vaffa…”. La
Suprema Corte ha dettagliatamente motivato la propria decisione, spiegando che
vi sono talune parole ed anche frasi che, pur rappresentative di concetti
osceni o a carattere sessuale, sono diventate di uso comune ed hanno perso il
loro carattere offensivo, prendendo il posto nel linguaggio corrente di altre
aventi significato diverso, le quali invece vengono sempre meno utilizzate; un
simile fenomeno si è verificato rispetto a numerose locuzioni, quali ad
esempio: “me ne fotto” in luogo di “non mi cale”; “è un gran casino” in luogo
di “è una situazione disordinata” e del pari con riguardo all’espressione
oggetto dell’imputazione, “vaffanculo”, la quale trasformatasi sinanco dal
punto di vista strutturale (trattasi ormai di un’unica parola), viene
frequentemente impiegata per dire “non infastidirmi”, “non voglio prenderti in
considerazione” ovvero “lasciami in pace”. In realtà è l’uso troppo frequente,
quasi inflazionato, delle suddette parole che ne ha modificato la carica
offensiva, determimando certamente un impoverimento del linguaggio e
dell’educazione, non potendo peraltro negarsi che, in numerosi casi, l’impiego
delle medesime non superi più la soglia della illiceità penale; è evidente che
se le espressioni incriminate vengono pronunciate dall’interessato nei
confronti di un’insegnante che fa un’osservazione o di un vigile che dà una
multa, esse assumono carattere di spregio, mentre diversa è la situazione se
esse si collocano nel discorso che si svolge tra soggetti in posizione di
parità ed in risposta a frasi che non postulano, per serietà ed importanza del
loro contenuto, manifestazione di specifico rispetto. Nel caso in questione,
“la parola incriminata fu pronunciata da un consigliere nei confronti di un
altro e di rimando ad una frase del primo evocativa di errori passati del
comunismo, ma del tutto qualunquistica, ossia priva di serio esame e di
consapevole critica con riguardo al presente: ne consegue che la condotta
verbale dell’imputato rappresentò una maleducata e volgare manifestazione di
insofferenza, ma non fu tale da offendere l’onore ed il decoro
dell’interlocutore ai sensi dell’art. 594 c.p.”. Il fatto, dunque, “non
sussiste”. (03 settembre 2007)
Suprema Corte di
Cassazione, Sezione Quinta Penale, sentenza n.27966/2007
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA
PENALE MOTIVI DI RICORSO E RAGIONI DELLA DECISIONE
Con sentenza
30.11.99 il Tribunale monocratico di Giulianova assolveva B. V.
dall’impugnazione di ingiuria (addebitatagli per avere – nel corso di una
seduta del consiglio comunale di Giulianova, svoltasi il 23.11.99 – offeso
l’onore ed il decoro di D. C. D., assessore e vice sindaco, dicendogli "Di
Ca’ vaffanculo") perché la di lui condotta era da ritenersi scriminata ai sensi dell’art. 599 c. 2 c.p. [1]. In
particolare il giudicante, nel ravvisare la ricorrenza dell’esimente, rilevava
che il De Carlo, pur consapevole che la seduta del consiglio de quo assistevano
molte persone che si riconoscevano nell’area comunista, aveva affermato che ci
si doveva vergognare di essere comunisti. Con pronuncia
10.2.06 la Corte di appello di L’Aquila, su appello della parte civile avanzato
anche ai fini penali, dichiarava l’imputato responsabile del reato ascrittogli
e, con le generiche equivalenti, lo condannava a pena ritenuta di giustizia ed
al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, in favore della
citata parte. Avverso la
decisione di secondo grado l’imputato ha proposto ricorso per cassazione,
deducendo vizio di motivazione in ordine all’interpretazione dei dati
acquisiti. La Corte osserva. Ricorrono gli
estremi per un proscioglimento ex art. 129 c.p.p., in quanto risulta evidente
l’insussistenza del fatto. All’uopo s’impone
un duplice ordine di considerazioni. Vi sono talune
parole ed anche frasi che, pur rappresentative di concetti osceni o a carattere
sessuale, sono diventate di uso comune ed hanno perso il loro carattere
offensivo, prendendo il posto nel linguaggio corrente di altre aventi
significato diverso, le quali invece vengono sempre meno utilizzate; un simile
fenomeno si è verificato rispetto a numerose locuzioni, quali ad esempio:
"me ne fotto" in luogo di "non mi cale"; "è un gran
casino" in luogo di "è una situazione disordinata" e del pari
con riguardo all’espressione oggetto dell’imputazione, "vaffanculo",
la quale trasformatasi sinanco dal punto di vista strutturale (trattasi ormai
di un’unica parola), viene frequentemente impiegata per dire "non
infastidirmi", "non voglio prenderti in considerazione" ovvero
"lasciami in pace". In realtà è l’uso
troppo frequente, quasi inflazionato, delle suddette parole che ha modificato
in senso connotativo la loro carica: il che ha determinato e determina
certamente un impoverimento del linguaggio e dell’educazione, non potendo
peraltro negarsi che, in numerosi casi, l’impiego delle medesime non superi più
la soglia della illiceità penale. S’innesta al
proposito il secondo profilo della questione. Quando sinora
esposto è senza dubbio condizionato dal contesto in cui si inseriscono le
espressioni citate: è evidente che se queste vengono pronunciate
dall’interessato nei confronti di un’insegnante che fa un’osservazione o di un
vigile che dà una multa, esse assumono carattere di spregio; diversa è la
situazione se esse si collocano nel discorso che si svolge tra soggetti in
posizione di parità ed in risposta a frasi che non postulano, per serietà ed
importanza del loro contenuto, manifestazione di specifico rispetto. Orbene, nel caso in
esame la parola incriminata fu pronunciata da un consigliere nei confronti di
un altro e di rimando ad una frase del Di Caro evocativa di errori passati del
comunismo, ma del tutto qualunquistica, ossia priva di serio esame e di
consapevole critica con riguardo al presente: ne consegue che la condotta
verbale dell’imputato rappresentò una maleducata e volgare manifestazione di
insofferenza, ma non fu tale da offendere l’onore ed il decoro
dell’interlocutore ai sensi dell’art. 594 c.p.. In conformità a
quanto esposto si richiamano i seguenti precedenti: Cass. V sez. pen. 9.5.07 n.
1179, Pres. D. Nardi, rel. A. Nappi, non ancora massimata; Cass. 3.6.05 n.
39454 RV. 232339). L’impugnata
sentenza deve pertanto essere annullata senza rinvio, perché il fatto non
sussiste.
P.Q.M. La Corte annulla la
sentenza impugnata senza rinvio perché il fatto non sussiste.
Depositata in
Cancelleria il 13 luglio 2007.
da CittadinoLex.it
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