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News 17/10/2007

Nuovo processo per il caso di Eluana Englaro, la ragazza in stato vegetativo da 15 anni dopo un incidente stradale

La giovane è tenuta in vita tramite un sondino nasogastrico
Lo ha stabilito la prima Sezione della Suprema Corte di Cassazione

Eluana Englaro prima dell’incidente- Foto Ansa

(ASAPS) - Una sentenza che farà discutere e che
ribalta quanto richiesto dal sostituto procuratore generale della Cassazione Giacomo Caliendo (vedi notizia 5 ottobre 2007). Ci sarà infatti un nuovo processo “in una diversa sezione della Corte d’Appello di Milano” sul caso di Eluana Englaro, la ragazza in stato vegetativo da 15 anni in seguito a un terribile incidente stradale avvenuto nel 1992. A stabilirlo è stata la Suprema Corte di Cassazione attraverso una nota in cui si precisa che “l’idratazione e l’alimentazione artificiali con sondino nasograstrico non costituiscano in sé, oggettivamente una forma di accanimento terapeutico, pur essendo indubbiamente un trattamento sanitario”. La prima sezione della Corte di Cassazione ha quindi deciso che “il giudice può, su istanza del tutore, autorizzarne l’interruzione soltanto in presenza di due circostanze concorrenti: a) la condizione di stato vegetativo del paziente sia apprezzata clinicamente come irreversibile, senza alcuna sia pur minima possibilità, secondo standard scientifici internazionalmente riconosciuti, di recupero della coscienza e delle capacità di percezione; b) sia univocamente accertato, sulla base di elementi tratti dal vissuto del paziente, dalla sua personalità e dai convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che ne orientavano i comportamenti e le decisioni, che questi, se cosciente, non avrebbe prestato il suo consenso alla continuazione del trattamento”. “Ove l’uno o l’altro presupposto non sussista, deve essere negata l’autorizzazione, perché allora va data incondizionata prevalenza al diritto alla vita, indipendentemente dalla percezione, che altri possano avere, della qualità della vita stessa. Deve escludersi che il diritto alla autodeterminazione terapeutica del paziente incontri un limite allorché da esso consegua il sacrificio del bene della vita”. I supremi giudici della prima sezione civile ritengono che “la salute dell’individuo non possa essere oggetto di imposizione autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da parte del diretto interessato c’é spazio, per una strategia della persuasione, perché il compito dell’ordinamento è anche quello di offrire il supporto della massima solidarietà concreta nelle situazioni di debolezza e di sofferenza, e c’é, prima ancora, il dovere di verificare che quel rifiuto alle cure sia informato, autentico ed attuale”. (ASAPS) 


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Mercoledì, 17 Ottobre 2007
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