Prescrizione penale –
Termine triennale previsto per i reati puniti con pene diverse da quelle
detentive e pecuniarie – Applicabilità ai reati di competenza del Giudice di
Pace
La norma contenuta nel
quinto comma dell’art. 157 c.p., così come novellato dalla Legge
n. 251/2005, pertiene ai reati di competenza del Giudice di Pace,
per i quali la legge contempla pene diverse da quella detentiva e pecuniaria. A
conferma di tale diversità milita, tra gli altri indici, l’art. 58 del D.Lgs.
274/2000 che, nell’equiparare agli effetti giuridici l’obbligo di
permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità (sanzioni irrogabili dal
GDP) alla pena detentiva, ne conferma indirettamente la diversità ontologica,
posto che si limita ad introdurre una norma di chiusura applicabile soltanto
nelle ipotesi in cui non si ravvisi una disciplina specifica dettata in
relazione alle pene diverse da quelle ordinarie. Una norma specifica si
rinviene proprio nel nuovo art. 157, quinto comma, c.p. che, del resto, poiché
può essere riferito ai soli reati di competenza del Giudice di Pace, agli
stessi deve applicarsi anche sulla scorta del criterio ermeneutico secondo cui
la norma giuridica deve essere interpretata nel senso in cui possa avere
qualche applicazione, anziché in quello secondo cui non ne avrebbe alcuna.
(Fonte: Altalex
Massimario 18/2007)
Tribunale di Grosseto Sezione di Orbetello Sentenza 24 maggio 2007 MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Gli imputati erano
citati a giudizio dinanzi a questo Tribunale competente per rispondere dei
reati di cui in epigrafe. Si costituiva
regolarmente in giudizio la parte civile chiedendo di essere integralmente
risarcita dei danni conseguenti alle condotte illecite poste in essere a suo
discapito dall’imputato Questo giudice,
subentrato nel ruolo al precedente magistrato, all’udienza del 24.5.2007
decideva la causa come da dispositivo di cui era data lettura in udienza. 2. I reati sono
prescritti. I delitti contestati
rientrano tra quelli indicati dall’art. 4, comma primo, lett. a), d.lgs. n. 274
del 2000, ma la competenza appartiene a questo Tribunale in composizione
monocratica trattandosi di fatti commessi anteriormente al 2 gennaio 2002
(v.art. 64, co. 1). Tuttavia, debbono essere applicate le sanzioni previste per
i reati di competenza del giudice di pace, stante il combinato disposto di cui
agli artt. 63 e 64, comma secondo, primo periodo, d.lgs. cit. In particolare, in
relazione alle sanzioni originariamente previste per i reati contestati (art.
582, co. 1, e 635, co. 1, c.p.) è applicabile il trattamento sanzionatorio
stabilito dall’art. 52, co. 2, lett. a), secondo periodo (pena pecuniaria o
pena del lavoro di pubblica utilità o pena della permanenza domiciliare). 2.1. Orbene, l’art.
157, comma quinto, c.p., come sostituito dall’art. 6 legge n. 251/05, prevede
la prescrizione triennale quando per il reato la legge stabilisce pene diverse
da quella detentiva e da quella pecuniaria. I primi commentatori
hanno subito evidenziato i problemi relativi all’esatta delimitazione del campo
applicativo della norma. Preso atto del silenzio
dei lavori parlamentari sul punto, l’attenzione è stata accentrata sui reati di
competenza del giudice di pace, in relazione alle sanzioni della permanenza
domiciliare e del lavoro di pubblica utilità (v. artt. 52 e ss. d.lgs. n.
274/00). Tali sanzioni, in
effetti, sono diverse dalle pene ordinarie di natura detentiva e pecuniaria,
per cui è ravvisabile l’unico presupposto applicativo contemplato dalla
disposizione di cui al nuovo art. 157, comma quinto, c.p., rappresentato per
l’appunto dalla punibilità del reato per cui si procede con pene diverse da
quelle tipiche. Vi è, in realtà, chi ha
obiettato che la disposizione de qua non può trovare applicazione in
ordine alle pene applicabili dal giudice di pace stante il disposto di cui
all’art. 58, comma primo, d.lgs. cit., in cui si stabilisce che per ogni
effetto giuridico le pene dell’obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro
di pubblica utilità si considerano come pena detentiva della specie
corrispondente a quella della pena originaria. Tale obiezione, però, non
appare condivisibile. La norma di cui all’art.
58, infatti, prevede soltanto un’assimilazione quanto agli effetti giuridici,
finendo però in tal modo per rimarcare, anziché per negare, la diversa natura
giuridica delle pene applicabili dal giudice di pace rispetto alle ordinarie
pene detentive. Il legislatore del 2005,
emulando quello del 1981 (v. art. 57 legge n. 689/81), ha dettato una norma di
chiusura del sistema con l’intento di colmare i vuoti normativi che possono
insorgere ogni qualvolta si debba fare applicazione di una disciplina dettata
per le sole pene ordinarie (e non anche specificatamente per quelle diverse
applicabili nei reati di competenza del giudice di pace). In effetti, il
sistema giuridico penale è costruito attorno alle sanzioni ordinarie (di natura
pecuniaria e detentiva) per cui ogni qualvolta viene prevista una sanzione
differente da quella tipica si pongono problemi di coordinamento con i diversi
istituti giuridici, e di qui l’esigenza di una norma di chiusura come quella
richiamata. Tale disposizione, però, lungi dal produrre un’equiparazione tra le
pene paradentive e quelle detentive ordinarie, ha semplicemente natura
suppletiva, nel senso che è applicabile tutte le volte in cui per un
determinato effetto giuridico non sia ravvisabile una disciplina specifica
dettata proprio in relazione alle pene diverse da quelle ordinarie. Pertanto, la stessa
disposizione non elimina affatto la diversità tra la sanzione atipica e quella
detentiva ordinaria. D’altra parte,
quest’ultima conclusione trova sostegno anche in alcune disposizioni della
stessa disciplina che regola il processo dinanzi al giudice di pace. Così,
l’art. 56 d.lgs. cit. esclude la configurabilità del reato di evasione ex art.
385 c.p. in caso di violazione delle medesime pene atipiche, a dimostrazione
del fatto che l’equiparazione tra le pene suddette è ammissibile solo in
difetto di una disposizione speciale. Analogamente, la non
sospendibilità, ai sensi dell’art. 60 d.lgs. cit., delle pene applicate dal
giudice di pace (ivi comprese quelle del lavoro di pubblica utilità e della
permanenza domiciliare), deve giustificarsi anche in relazione alla diversità
tra le pene c.d. paradentive e quelle detentive ordinarie, posto che,
diversamente, cioè laddove si volesse ravvisare una perfetta equiparazione tra
di esse, si prospetterebbe probabilmente una questione di legittimità
costituzionale della disposizione indicata. Si può allora concludere
che l’art. 58 d.lgs. cit. non consente di affermare che le pene atipiche in
questione sono pene detentive, trattandosi invece di pene diverse da quelle
ordinarie, con la conseguenza che la stessa disposizione non è di per sé
d’ostacolo alla applicabilità del nuovo art. 157, comma quinto, c.p. ai reati
di competenza del giudice di pace in quanto quest’ultima si pone come norma
speciale prevalente. Così, correttamente la
suprema Corte, prima dell’entrata in vigore della legge n. 251/05, ha affermato
con orientamento consolidato che ai fini della determinazione del tempo
necessario per la prescrizione dei reati attribuiti alla cognizione del giudice
di pace, puniti con la pena pecuniaria o, in alternativa, con le sanzioni c.d.
paradetentive, si doveva aver riguardo alla disciplina delle pene detentive
ordinarie in virtù della disposizione di cui all’art. 58 d.lgs. cit. (v., per
tutte, Cass.pen., sez. IV, 22.4.2004, n. 18640). Tale orientamento, però,
non può più essere invocato dopo la novella legislativa in esame, in quanto la
norma di cui al nuovo art. 157, comma quinto, quanto agli effetti della
determinazione del tempo necessario a prescrivere, assume i connotati di norma
speciale prevalente rispetto alla disposizione generale di cui all’art. 58
d.lgs. cit. Ed infatti la suprema Corte, a seguito dell’entrata in vigore della
legge n. 251 del 2005, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del
nuovo articolo codicistico sull’evidente assunto del superamento
dell’art. 58 cit. quanto agli effetti della individuazione dei termini di
prescrizione (v. ord. n. 29786 del 31.8.2006, su cui si tornerà più avanti). Sotto altro profilo e
sempre ai fini della individuazione del campo applicativo della disposizione in
esame, è opportuno osservare che le pene diverse in questione, a differenza
delle sanzioni sostitutive previste dalla legge n. 689/81, non sono
applicabili alternativamente alla pena detentiva ordinaria, in quanto
quest’ultima sanzione non è mai applicabile ai reati di competenza del giudice
di pace. La mancanza di tale discrezionalità porta quindi a considerare le
pene diverse come pene dirette (unitamente a quelle pecuniarie). A favore della tesi che
qui si sostiene milita anche un argomento di natura logica-sistematica, in
quanto si deve ritenere che il legislatore abbia voluto prevedere un termine di
prescrizione più breve per i reati di competenza del giudice di pace, non solo
in relazione alla minore gravità degli stessi, ma anche in considerazione della
durata più breve delle indagini preliminari riguardo a tali procedimenti (v.
art. 16 d.lgs. cit.). Secondo una certa ricostruzione, infatti, la ratio
della disciplina della prescrizione dei reati risponde alla finalità
sostanziale costituita dalla durata ragionevole del processo penale (v.
Cass.pen, sez I, n. 172803/86), e tale impostazione risulta ancor più
convincente a seguito della modifica dell’art. 111 Cost. apportata dalla legge
cost. n. 2 del 1999. Ne deriva che appare conforme a logica ritenere che il
legislatore del 2005 abbia voluto stabilire un termine di prescrizione più
breve in ordine ai reati assoggettati ad una disciplina procedimentale più
celere e snella, qual è quella riservata ai reati de quibus. Infine, può essere
addotto un ulteriore argomento poggiante su una regola ermeneutica di
conservazione della disposizione di legge, secondo cui la norma giuridica deve
interpretarsi nel senso in cui possa avere qualche applicazione, anziché in
quello secondo cui non ne avrebbe alcuna. Ebbene, coloro che sostengono la non
applicabilità della disposizione di cui al comma quinto del nuovo art. 157 c.p.
ai reati di competenza del giudice di pace sono costretti a riconoscere che la
stessa norma non risulta applicabile ad altre fattispecie penali, per cui
appare preferibile l’interpretazione che le riconosce un suo ambito
applicativo. Sotto altro profilo, c’è
chi ha osservato, argomentando principalmente dal dato letterale, che la norma de
qua si applica nelle ipotesi in cui il reato risulti punibile
esclusivamente con pene diverse e non anche nei casi in cui la pena diversa sia
applicabile in via alternativa rispetto a quella pecuniaria. Muovendo da tale
premessa, si è quindi osservato che la stessa disposizione non potrebbe
comunque trovare applicazione in ordine ai reati di competenza del giudice di
pace in quanto, relativamente a questi ultimi, le pene diverse non sarebbero
mai previste come pene principali esclusive, bensì sempre come alternative alla
pena pecuniaria, con la conseguenza che il termine necessario a prescrivere
dovrebbe comunque determinarsi con riferimento al regime previsto per le pene
pecuniarie (nuovo art. 157, comma primo). Quest’ultima osservazione
non è condivisibile perché poggia su un assunto erroneo, in quanto non tiene
conto dell’art. 52, comma terzo, d.lgs. cit., che prevede che nei casi di
recidiva reiterata infraquinquennale si deve applicare la pena della permanenza
domiciliare o quella del lavoro di pubblica utilità, salvo che siano ritenute
prevalenti o equivalenti le circostanze attenuanti. Rispetto a quest’ultima
clausola, si è tentato di individuarvi un argomento a favore della tesi opposta
a quella che qui si sostiene, mediante l’osservazione che non si potrebbe
affermare (neppure rispetto alla ipotesi del recidivo reiterato
infraquinquennale) che la pena paradentetiva sia prevista in via edittale per
la fattispecie di reato, in quanto la sua concreta applicazione dipenderebbe,
oltre che dalla recidivanza qualificata, dal tenore della contestazione, dalla
sussistenza di eventuali circostanze attenuanti e dall’esito del giudizio di
bilanciamento ex art. 69 c.p. L’argomentazione non è
condivisibile. Si osserva, infatti, che
il nuovo art. 157 c.p. stabilisce che il tempo necessario a prescrivere si
determina senza tener conto delle circostanze attenuanti e delle aggravanti,
fatta eccezione per le aggravanti per cui la legge stabilisce una pena di
specie diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale, nel
qual caso si tiene conto dell’aumento massimo di pena previsto (comma secondo).
Inoltre, il successivo terzo comma stabilisce che non si deve tener conto del
giudizio di comparazione ex art. 69 c.p. Ciò significa che in caso
di contestazione della recidiva reiterata infraquinquennale in ordine ad un
reato di competenza del giudice di pace, diverso da quelli di cui al comma
primo ed al comma secondo, lett. a), primo periodo, dell’art. 52 (stante il
disposto di cui al comma quarto), il tempo necessario a prescrivere deve
essere determinato con esclusivo riferimento alle pene principali della
permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità. Infatti, da un
lato deve tenersi conto del trattamento sanzionatorio riservato alla ipotesi di
contestazione della recidiva reiterata infraquinquennale in quanto si tratta di
circostanza aggravante per cui viene prevista una pena diversa da quella
ordinaria (nuovo art. 157, comma secondo) e, dall’altro, non può tenersi conto
della prevalenza o della equivalenza con le attenuanti (stante il divieto di
cui al comma terzo), con la conseguenza che, ai fini della determinazione del
tempo necessario a prescrivere, si deve aver riguardo, in questi casi, solo
alle pene diverse, anche nella ipotesi in cui il giudice, in sede di decisione,
ritenga di dichiarare la equivalenza o la prevalenza delle attenuanti. Risulta, pertanto,
confutata l’obiezione secondo cui i reati devoluti alla competenza del giudice
di pace non sarebbero mai puniti con la sola pena paradentiva, in quanto si è
dimostrato che in ordine alle fattispecie più gravi di competenza del giudice
di pace, in cui sia stata contestata la recidiva reiterata infraquinquennale,
si deve fare riferimento, al fine di valutare il termine di prescrizione,
esclusivamente alle pene paradetentive (non potendosi tener conto neppure
dell’esito del bilanciamento ex art. 69 c.p.). Alla luce di tali
considerazioni, si deve affermare che la nuova disposizione di cui all’art.
157, comma quinto, c.p. si riferisce al trattamento sanzionatorio dei reati di
competenza del giudice di pace. Tale conclusione è stata
condivisa dalla suprema Corte con l’ordinanza n. 29786 del 31.8.2006, con cui è
stata proposta questione di legittimità costituzionale del nuovo art. 157, co.
5, c.p. nella parte in cui prevede il termine di anni tre per i reati puniti
con pene diverse da quelle ordinarie, muovendosi evidentemente dall’assunto
della applicabilità della nuova disposizione proprio ai reati di competenza del
giudice di pace. Non sono, invece,
condivisibili le conseguenze che la suprema Corte fa derivare dalla medesima
disposizione in punto di non manifesta infondatezza della questione. A parere del giudice
rimettente, infatti, la disciplina vigente (che prevede il termine di quattro o
sei anni in caso di reato punito con la sola pena pecuniaria, ai sensi
dell’art. 159, co. 1, e di tre anni nei casi di reati puniti anche con le pene
paradetentive) risulta “priva di razionalità intrinseca e tale da vulnerare, ad
un tempo, il principio di ragionevolezza ed il canone di uguaglianza (…)
giacché l’evidente aporia normativa che con essa si introduce nel sistema non
può giustificarsi alla luce di nessun valore, esigenza o ratio essendi
intrinseca alla intera disciplina che il legislatore ha intesto novellare”. Simile ragionamento non
può essere condiviso per una duplice ragione. Anzi tutto, la questione
– così come proposta dal giudice di legittimità – introduce la problematica
della sindacabilità costituzionale delle norme penali di favore. A tal riguardo, non può
non essere richiamata la recente sentenza della Corte costituzionale (n. 394
del 2006) che ha affrontato in maniera compiuta la problematica suddetta, offrendo
preziosi spunti sia in ordine al principio della riserva di legge quale limite
alle pronunce di incostituzionalità in malam partem sia relativamente al
concetto di norma penale di favore. Molto sinteticamente, a giudizio della
Corte il principio della riserva di legge non può ritenersi violato nei casi di
norme penali di favore, espressione quest’ultima che denota l’insieme di “norme
che sottraggono una determinata classe di soggetti o di condotte dall’ambito
applicativo di un’altra norma comune o comunque più generale (nel senso di
maggiormente comprensiva) accordandogli un trattamento privilegiato”. Non sono,
invece, norme penali di favore quelle che “delimitano l’area di intervento di
una norma incriminatrice, concorrendo alla definizione della fattispecie di
reato”. Ebbene, a modesto avviso
di questo giudice, la disposizione di cui all’art. 159, co. 5, c.p. non può
ricondursi alla categoria delle norme penali di favore. Tale disposizione,
infatti, si riferisce ad un trattamento sanzionatorio (le pene diverse da
quelle detentive e pecuniarie) rispetto al quale non esiste una disciplina
generale. Se è vero, infatti, che
il legislatore del 2005 ha scelto di stabilire i nuovi termini minimi di
prescrizione facendo riferimento, rispettivamente, ai delitti ed alle
contravvenzioni e non già, come nel regime previgente, con riferimento al tipo
di pena ordinaria prevista, è altrettanto vero che anche nel nuovo regime la
disciplina del tempo necessario a prescrivere continua a fare perno sulla
distinzione tra pena detentiva e pena pecuniaria. Così, ad esempio, il comma
quarto – analogamente a quello previgente – stabilisce la prevalenza della pena
detentiva su quella pecuniaria in caso di trattamento congiunto. Va da sé,
allora, che le fattispecie criminose punite con pene diverse da quelle
ordinarie, così come non erano disciplinate dalla vecchia disciplina,
continuerebbero a difettare di esplicita previsione in assenza del nuovo comma
quinto. Si pensi proprio ai reati di competenza del giudice di pace in cui le
pene paradetentive sono previste alternativamente a quelle pecuniarie: in
questi casi, in assenza del comma quinto, si porrebbe la questione di come
risolvere il rapporto fra le diverse sanzioni, in quanto il comma quarto, che
disciplina la relazione tra la pena detentiva e quella pecuniaria, non potrebbe
essere invocato stante l’evidente differenza tra la prima e la pena
paradentiva. Né varrebbe invocare l’art. 58 cit., in quanto si dovrebbe
ripetere che tale norma costituisce solo una disposizione suppletiva deputata a
risolvere problemi di coordinamento e non già a dettare una disciplina generale
in materia di prescrizione. Oltre tutto, la stessa problematica insorgerebbe
ogni qualvolta venisse introdotta una nuova ipotesi di reato punita con pena diversa,
rispetto alla quale non potrebbe essere invocata la norma di cui all’art. 58
che si riferisce solo alle pene paradetentive previste dal d.lgs. n. 274/2000,
e ciò costituisce la riprova della affermazione di partenza, vale a dire che la
norma contenuta nel quinto comma del nuovo art. 157 c.p. non sottrae
determinate ipotesi dalla applicazione della disciplina generale, ma piuttosto
concorre al completamento della normativa del tempo necessario a prescrivere.
Ne segue che la stessa non può essere ricondotta alla categoria delle norme
penali di favore. Ma, come si anticipava in
precedenza, la questione proposta dalla suprema Corte non appare fondata
neppure nel merito. La previsione di un
termine di prescrizione più breve per i reati di competenza del giudice di
pace, infatti, non introduce un trattamento privilegiato sprovvisto di ogni
giustificazione. In primo luogo, i reati de
quibus risultano di minore gravità, per cui è ragionevole supporre che si
tratti anche di fattispecie criminose che necessitano di indagini meno
complesse. D’altra parte, come già rilevato precedentemente, tale ultima
conclusione sembra trovare conferma nella previsione della minor durata delle
indagini preliminari rispetto agli stessi reati (v. art. 16 d.lgs. n.
274/2000). Si è già richiamato in precedenza l’assunto giurisprudenziale
secondo cui la ratio della disciplina della prescrizione dei reati
risponde alla finalità sostanziale costituita dalla durata ragionevole del
processo penale (v. Cass.pen, sez I, n. 172803/86, e le ulteriori
considerazioni che potrebbero essere aggiunte oggi alla luce del nuovo art. 111
Cost.), per cui non è affatto irragionevole la scelta del legislatore di aver
indicato un termine più breve di prescrizione in ordine a quei reati rispetto
ai quali è prevista una minore durata delle indagini preliminari. Incongrua,
semmai, sarebbe risultata la scelta diversa (cui si perverrebbe in caso di
accoglimento della questione di legittimità costituzionale nei termini esposti
dalla suprema Corte), in quanto non si comprenderebbe perché mai, in questi
casi, il giudice dibattimentale dovrebbe poter contare su un maggior lasso di
tempo per concludere i processi. Si ritiene, pertanto, che
la previsione di un termine più breve di prescrizione per i reati di competenza
del giudice di pace non risulti affatto ingiustificata, ma anzi si presenti
come una scelta congrua in relazione alla disciplina procedimentale riservata
agli stessi reati. Vero è che l’attuale
regime normativo difetta di ragionevolezza in un senso opposto a quello
suggerito dal giudice di legittimità, in quanto l’aporia normativa è
ravvisabile nel fatto che il termine più breve di prescrizione è applicabile
solo alle ipotesi di reati puniti alternativamente con pena pecuniaria e pena
paradetentiva, e non anche ai casi di reati (di competenza del giudice di pace)
punito solo con la pena pecuniaria, in quanto in quest’ultima evenienza appare
obbligata l’applicazione del primo comma dell’art. 157 c.p. Questo giudice, difatti,
in altri procedimenti aventi per oggetto reati rientranti tra quelli di cui
all’art. 4 d.lgs. cit. (ma appartenenti alla competenza del tribunale ratione
temporis) puniti con la sola pecuniaria ha sollevato questione di
legittimità costituzionale in relazione all’art. 3 Cost. nel senso inverso a
quello proposto dalla suprema Corte, ritenendo cioè illegittima la previsione
del termine minimo di sei e quattro anni (rispettivamente, per i delitti e le
contravvenzioni di competenza del giudice di pace) anziché di anni tre. Nel presente giudizio,
tuttavia, trattandosi di reati puniti alternativamente con pena pecuniaria e
pene paradetentive, la questione suddetta non rileva, in quanto può farsi
applicazione della nuova disposizione contenuta nel comma quinto dell’art. 157
c.p. che stabilisce il termine di prescrizione in anni tre. Da ultimo, va ribadito
che le nuove disposizioni in materia di prescrizione soggiacciono certamente al
principio della successione di cui all’art. 2, comma 4, c.p., come tra l’altro
ribadito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 393 del 2006 già citata. 2.2. Alla luce di tali
considerazioni, si deve rilevare come nella fattispecie i reati contestati
risultino già prescritti: tutte le condotte, infatti, risalgono all’8.10.2001
per cui la prescrizione massima di anni tre e mesi nove (ai sensi del combinato
disposto di cui al comma quinto del nuovo art. 157 e del comma secondo del
nuovo art. 161 c.p.) è maturata in data 8.7.2005 stante l’assenza di periodi di
sospensione intermedi. D’altra parte, non
essendo state ancora escusse le prove testimoniali e non avendo gli imputati
rinunciato ad avvalersi della prescrizione, non può essere emessa sentenza
assolutoria più favorevole non emergendo dagli atti la prova evidente della
loro innocenza. Infine, appare utile
ricordare che la regola della decisione sulle questioni civili in caso di
pronuncia di estinzione per prescrizione, contemplata dall’art. 578 c.p.p.,
riguarda solo i giudizi di impugnazione e non anche quelli di primo grado come
nel caso di specie.
p.q.m.
Il Tribunale di
Grosseto, sezione distaccata di Orbetello, visto l’art. 531
c.p.p., dichiara
NON DOVERSI PROCEDERE
nei confronti di in
ordine ai reati loro rispettivamente ascritti perché estinti per intervenuta
prescrizione. Indica in gg. trenta
il termine per la motivazione. Orbetello, li 24 maggio
2007.
IL GIUDICE Sergio Compagnucci
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