La Suprema Corte interviene a
definire i limiti entro i quali si possa invocare, da parte del conducente di
un veicolo, la scusabilità del proprio comportamento in relazione
all’investimento di un pedone, e lo fa affermando l’imposizione di un preciso onere della prova a carico
dell’interessato.
Nel caso di specie,
infatti, i giudici di legittimità
offrono una visione giurisprudenziale del problema, in base alla quale la
condotta del pedone – tra l’altro ubriaco – deve apparire come un evento
inatteso ed imprevedibile. In buona sostanza, sul
conducente di un veicolo grava un preciso obbligo di ispezionare continuamente
la strada che sta per impegnare, attraverso l’esercizio di un costante
controllo del veicolo in rapporto alle condizioni della strada stessa e del
traffico. Chi si pone alla guida di un
mezzo, dunque, deve prevedere, secondo i Supremi Giudici, tutte quelle
situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire
intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada. Questo insieme di elementi
configura in capo all’automobilista, quindi, una precisa posizione soggettiva
che si rifà al più generale obbligo di diligenza riconnesso all’esercizio di
un’attività foriera di pericolosità come la circolazione stradale. Deriva, quindi, sul piano
squisitamente giuridico, una prospettiva probatoria per nulla equilibrata,
posto che, con la pronunzia in questione, viene superata quella sorta di
presunzione (anche se non si tratta di vera e propria presunzione), per la
quale la dimostrata condizione ed il provato stato di ubriachezza del pedone,
potevano già di per sé sole orientare il giudizio in ordine alle responsabilità
del sinistro, sollevando non poco il conducente sotto il profilo probatorio. La Corte di legittimità, in
concreto, rimane fedele a sé sessa ed a quell’orientamento più volte espresso
(cfr. ex plurimis Cass. Pen. Sez IV, 13-10-2005, n. 44660 Galano, Fonti Foto
It., 2006, 9, 2, 502 “Il conducente di un’autovettura deve tenere un
comportamento improntato alla massima prudenza imposta dalle circostanze di
tempo e di luogo per evitare qualsiasi incidente, ovvero dalle condizioni della
strada, dalle condizioni ambientali e dallo stato di usura degli pneumatici, in
quanto elementi tutti negativamente incidenti sull’efficacia frenante; la colpa
concorrente del pedone che attraversi la strada fuori dalle strisce pedonali
esclude la responsabilità dell’automobilista, solo se l’imprevedibile
accelerazione della velocità della sua andatura sia tale da impegnare la strada
al sopraggiungere dell’autovettura in modo tanto repentino, da rendere
inevitabile l’investimento da parte dell’automobilista (nella specie,
l’imputato, alla guida di un’autovettura con battistrada dotato di pneumatici
anteriori talmente usurati da costituire una superficie liscia, veniva ritenuto
responsabile di omicidio colposo per aver investito un pedone, persona di età
avanzata, impossibilitata a correre speditamente poiché portatore di placche,
mentre quest’ultimo impegnava la strada percorsa dell’auto, attraversandola
diagonalmente e sotto una pioggia insistente)”), e ripreso anche in
sede di merito (“Ai fini della configurabilità di una condotta colposa a
carico dell’imputato per reato di omicidio colposo occorre verificare innanzitutto
se, da un punto di vista oggettivo, il comportamento da lui tenuto alla guida
dell’autovettura si sia uniformato alle regole di diligenza e prudenza che
presidiano la disciplina della circolazione stradale ovvero sia stato
inosservante di tali regole precauzionali di condotta, con la precisazione che
in materia di investimento di un pedone perché possa essere esclusa la
responsabilità el conducente dell’autoveicolo è necessario che questi si sia
trovato, per motivi estranei a ogni suo obbligo di diligenza, nell’oggettività
impossibilità di avvistare il pedone e di osservarne tempestivamente i
movimenti, attuati in modo rapido e inatteso, occorrendo, inoltre, che nessuna
infrazione alle norme della circolazione stradale e a quelle di comune prudenza
sia riscontrabile nel suo comportamento” Trib. Nola, 20-01-2004)
secondo il quale è preliminare, e pregiudizievole a qualsiasi altra disamina,
la verifica del modo di atteggiarsi del conducente il veicolo. Il comportamento del pedone
nonchè le sue condizioni psico-fisiche integrano un giudizio puramente
sussidiario, che però determina una verifica solo successiva in termini
processual-temporali, ed eventuale. Se l’ordine cronologico appare,
dunque, dato certo, non altrimenti sicura è l’effettività di questa verifica,
posto che l’inammissibilità della stessa è fortemente condizionata dalla
sussistenza della prova dell’inosservanza dell’obbligo di diligenza da parte
del conducente il veicolo. Si deve, inoltre, rilevare che
siffatta visione del problema, così come prospettata dalla pronunzia in
commento, non può, però, definirsi consolidata e pacifica in quanto
recentemente la Corte di Appello di Genova Sez. II, sentenza 17.04.2007, che ha
sottolineato, invece, che nel caso di incidenti stradali in cui venga investito
un pedone, è sempre necessario verificare un eventuale concorso di colpa di
quest’ultimo nella causazione dell’incidente. Nell’evidente contrasto fra le
due contrapposte correnti di pensiero, si deve, comunque, cogliere l’indubbio
rischio, insito nella decisione della S.C., di un trasferimento globale ed
integrale della posizione di responsabilità in capo da un soggetto con
correlativa e sinallagmatica deresponsabilizzazione di altra persona che, per
converso, potrebbe apparire come concorrente (sul piano colposo e eziologico)
nella causazione dell’evento. Se, infatti, non è revocabile in
dubbio la circostanza che l’assenza di infrazione da parte dell’automobilista
(o motociclista) concreti un parametro di favore assolutamente intangibile per
lo stesso, tale da porlo in una positiva condizione di assenza di elementi di
antidoverosità, è altrettanto vero, però, che maggiormente rispondente a
criteri di giustizia sostanziale sia l’opera di bilanciamento fra gli aspetti
di colpa che possono contraddistinguere le contrapposte condotte. Parimenti meritevole di una
specifica attenzione appare l’elemento dell’imprevedibilità, carattere che deve
connotare il comportamento del pedone e che configura la causa di esclusione
della punibilità del soggetto investitore. Senza perdersi in lunghe ed
inutili dissertazioni, ritengo che tale parametro valutativo debba formare
oggetto di una considerazione e di una elaborazione più approfondita rispetto a
quanto emerge dalla sentenza in commento. Soprattutto, corre l’impegno di
meglio focalizzare il concetto di “oggettiva impossibilità”
stabilendo rigorosamente cosa si intende far rientrare nel contesto
dell’oggettività, perché ad impossibilia nemo tenetur.
* Avvocato e
consulente Asaps
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
SEZIONE IV PENALE
Sentenza 13 luglio 2007, n. 27740
(Presidente Marzano – Relatore Piccialli)
Fatto e diritto
I. A. ricorre contro la sentenza in data 15 giugno 2006,
con la quale la Corte di appello dell’Aquila, in parziale riforma della
sentenza di primo grado sostituiva la pena dell’arresto inflitta per il reato
di guida in stato di ebbrezza ex art. 186, commi 1 e 2, codice della strada,
con la sanzione pecuniaria di euro 1000, confermando il giudizio di
responsabilità per il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione
delle norme sulla circolazione stradale e la relativa pena statuita dal giudice
di primo grado (fatto avvenuto in data 14.11.2002). Sui motivi di appello, diretti ad ottenere l’assoluzione
nel merito dell’imputato, sul duplice rilievo dell’asserito comportamento
colposo del pedone, che procedeva barcollando ed in stato di alterazione, e
della affermata mancanza di prove che la velocità dell’autovettura fosse
superiore a quella consentita, la Corte ne argomentava l’infondatezza,
osservando che lo stesso imputato aveva ammesso di aver notato la vittima
percorrere il margine della strada con andatura barcollante e che, pertanto,
essendo prevedibile anche una improvvisa deviazione del pedone, la condotta di
guida dello I. si palesava con evidenza inadeguata alla situazione concreta e
colposa. Veniva altresì dato atto anche del concorso di colpa della
vittima senza stabilirne però l’incidenza. Avverso la sentenza, propone ricorso l’imputato che
articola tre distinti motivi di doglianza. Con il primo prospetta la violazione di legge in ordine al
giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, non essendo imputabile
allo I. alcun profilo di colpa specifica né generica. Sotto il primo profilo, si sostiene che l’imputato non aveva
violato la norma precauzionale prevista dall’art. 142 del codice della strada,
emergendo dalla stessa sentenza che al momento dell’investimento l’autovettura
osservava il limite di velocità di 50 Km orari né quella di cui all’art. 141
dello stesso codice, che, nell’imporre al conducente di regolare la velocità al
fine di arrestare tempestivamente il mezzo, avrebbe riferimento esclusivamente
agli eventi prevedibili tra i quali non poteva certamente rientrare la condotta
della vittima. Parimenti, nessun profilo di colpa generica sarebbe
imputabile allo I., essendo del tutto imprevedibile l’improvviso
attraversamento del pedone. Con il secondo motivo denuncia la manifesta illogicità
della motivazione laddove i giudici di appello affermano la facile prevedibilità
dell’attraversamento da parte del pedone, così applicando un giudizio non
giustificato sulla base di massime di esperienza generalmente riconosciute. La
contraddittorietà della sentenza emergerebbe anche dalla circostanza che la
stessa Corte di appello ha dato atto che l’imputato tentò, pur se invano, di
porre in essere una cd. manovra di emergenza. Inoltre, in assenza di una
consulenza cinematica sull’autovettura, il giudice di merito non aveva a
disposizione elementi probatori sufficienti a fondare il giudizio di
responsabilità dello I., non potendosi escludere logicamente che il cd.
comportamento alternativo lecito non sarebbe valso ad impedire l’investimento
del pedone. Con il terzo motivo denuncia l’erronea interpretazione
dell’art. 133 c.p., avendo i giudici del merito inflitto una pena (mesi cinque
di reclusione per l’omicidio colposo) non commisurata ai fatti ed alla
personalità dell’imputato, incensurato.
Il ricoorso è infondato.
I primi due motivi strettamente connessi, meritano
trattazione congiunta, vertendo tutti sull’assenza di colpa dell’imputato a
fronte del comportamento gravemente colposo del pedone. Prima di procedere all’esame dei motivi, appare opportuno
soffermarsi sui principi più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità
in ordine agli obblighi gravanti sul conducente. In primo luogo, il conducente è tenuto a vigilare al fine
di avvistare il pedone. L’avvistamento del pedone implica la percezione di una
situazione di pericolo, in presenza della quale ogni conducente è tenuto a
porre in essere una serie di accorgimenti (in particolare, moderare la velocità
e, all’occorrenza, arrestare la marcia del veicolo), al fine di prevenire il
rischio di un investimento. Circa i doveri di attenzione del conducente tesi ad avvistare
il pedone, si è sottolineato che grava sul conducente l’obbligo di ispezionare
continuamente la strada che sta per impegnare, mantenendo un costante controllo
del veicolo in rapporto alle condizioni della strada stessa e del traffico e di
prevedere tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo
da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada (v.
Sez IV, 2 marzo 2007, Basta; 23 gennaio 2007, Tassi e 13 ottobre 2005,
Tavoliere). Al fine di escludere la responsabilità del conducente è,
perciò, necessario che lo stesso sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo
obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone e di
osservarne i movimenti, attuati in modo rapido ed inatteso; occorre, inoltre
che nessuna infrazione alle norme della circolazione stradale ed a quelle di
comune prudenza sia riscontrabile nel suo comportamento (v. le citate sentenze
Sez. IV). Alla luce di tale premessa, ritiene il Collegio che la
sentenza impugnata sia esente da vizi logico-giuridici. I giudici dell’appello all’esito della valutazione degli
elementi acquisiti, hanno ritenuto di attribuire rilievo nel determinismo
causale dell’evento alla imprudenza e negligenza dell’imputato, il quale, pur
avendo avvistato il pedone (il quale, come ammesso dallo stesso imputato,
percorreva il margine della strada con andatura barcollante), non ovviava alla
situazione di pericolosità, arrestando l’autovettura o riducendo la velocità,
in modo da rendere possibile l’arresto in caso di improvvisa invasione della
carreggiata da parte di persona, che, come rilevato dalla Corte di merito
manifestava segni di non adeguato controllo della propria persona. La Corte di merito ha, inoltre escluso, anche questa volta
con motivazione esente da censure, che il comportamento della vittima
nell’attraversamento fosse qualificabile come repentino ed improvviso, e come
tale, idoneo ad escludere la responsabilità dello I., avendo avuto l’imputato
la possibilità di avvistare il pedone e di osservarne tempestivamente i
movimenti. Ad analoga conclusione i giudici di secondo grado
pervenivano con riferimento alla vana manovra di deviazione dell’autovettura
verso destra, posta in essere dal guidatore per schivare il pedone, il cui
asserito arresto al centro della strada – peraltro indimostrato – è stato
legittimamente ritenuto irrilevante, a fronte del comportamento gravemente
imprudente del guidatore. Il giudizio espresso sul punto attiene al merito dei fatti
e non è sindacabile in sede di legittimità perché frutto di un apprezzamento
delle emergenze processuali in ordine alla condotta di guida del ricorrente, ai
profili di colpa in essa ravvisati e alla loro incidenza sotto il profilo
causale, del quale è stata data congrua e coerente giustificazione. Infondata è anche la censura relativa all’erronea
applicazione dell’art. 133 c.p., con riferimento al trattamento sanzionatorio
applicato. È decisiva, in tal senso, la considerazione che la facile
prevedibilità dell’attraversamento del pedone come correttamente rilevato dalla
corte di merito, implica un grado di colpa del ricorrente, in relazione al
quale la pena inflitta è certamente adeguata, essendo, oltretutto, prossima ai
minimi edittali. Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente
al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte Suprema di cassazione rigetta il ricorso e
condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Spaccio di sostanze stupefacenti, aggravante della ingente
quantità Cassazione penale , sez. VI, sentenza 26.07.2007 n° 30534 Stampa
Spaccio di sostanze stupefacenti – aggravante della
ingente quantità – quantità del principio attivo – legittimità [D.p.r.
309/1990] Nell’ambito dello spaccio di sostanze stupefacenti,
l’aggravante dell’ingente quantità può essere ravvisata nel caso in cui la
quantità di principio attivo della droga sequestrata sia elevata. (1) (1) Relativamente allo spaccio di sostanze stupefacenti
avente per oggetto sostanze non comprese nella lista, si veda Cassazione penale
19056/2007. (Fonte: Altalex Massimario 13/2007)
SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE SEZIONE VI PENALE Sentenza 26 luglio 2007, n. 30534
(Presidente Oliva – Relatore Agrò)
Ritenuto in fatto 1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello
di Napoli confermava la sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva
ritenuto F. L. responsabile di trasporto e detenzione di ingente quantità di
cocaina. Escluse le aggravanti del numero delle persone e di esserne stato
organizzatore, confermava, in relazione ad A. G., la medesima sentenza quanto
alla partecipazione ad un’associazione diretta allo spaccio di stupefacenti e
quanto agli episodi di trasporto e detenzione di cocaina, esclusa, per questi,
l’aggravante dell’ingente quantità. 2. Contro tale decisione ricorre F. L. il quale, in primo
luogo, deduce il vizio di motivazione relativamente alla sua identificazione
nel soggetto che ebbe ad incontrare i corrieri della droga. In subordine lamenta il riconoscimento della sussistenza
dell’aggravante dell’ingente quantità, riconoscimento fondato sul principio
attivo della droga, elemento che non trova riferimenti normativi. D’altronde la
stessa aggravante per la stessa partita di droga sarebbe stata esclusa dal Gip
nei confronti di Leonardo La Pietra, nella sentenza pronunziata il 25 novembre
2002. 3. Ricorre A. G. che lamenta in primo luogo che la
pronunzia abbia respinto la sua eccezione di improcedibilità dell’azione penale
(eccezione avanzata ai sensi dell’art. 405 comma 1 bis c.p.p.) rifacendosi ad
argomenti riguardanti la posizione di Nunzio Panella e altre posizioni e non
valutando che, per quanto riguarda il ricorrente, esisteva una sentenza della
Cassazione che affermava l’insussistenza degli indizi per il reato associativo. Con un secondo motivo si duole del vizio di motivazione
circa la ritenuta sussistenza di un’associazione per delinquere finalizzata al
commercio della droga e circa la partecipazione del ricorrente a tale
associazione. La sentenza, nonostante i motivi d’appello relativi al punto, non
spiegherebbe perché sia proprio A. G. (e non un suo fratello) l’interlocutore
del padre P. e quali criteri siano stati adottati per sovvertire il giudizio di
mancanza di elementi già espresso dalla Cassazione. Con un terzo motivo rileva che la pronunzia avrebbe
affermato l’esistenza di un’associazione in assenza degli elementi costitutivi
del delitto e in particolare quello del numero dei sodali. Si duole infine della determinazione della pena e del
diniego delle attenuanti generiche. 4. In prossimità dell’udienza il G. ha presentato motivi
ad integrazione del ricorso. In primo luogo ha ribadito con ulteriori argomenti
l’applicabilità alla specie del comma 1 bis dell’art. 405 c.p.p., per come
introdotto dall’art. 3 della legge n. 46 del 2006. Ha quindi sostenuto l’inutilizzabilità degli atti di
indagine anteriori al compimento della maggior età dell’imputato,
inutilizzabilità non superata dal fatto che il reato permanente si è
perfezionato dopo la maggiore età, in quanto la notitia criminis era stata
appresa quando l’imputato era ancora minorenne e in quanto tra Tribunale dei
minorenni e Tribunale ordinario vi sarebbe una ripartizione di giurisdizione e
non di competenza ai sensi dell’art. 26 comma 1 c.p.p.. Ribadisce nel merito il vizio di motivazione relativo
all’identificazione dell’autore del reato e sottolinea come non sia stato
nemmeno identificato quale ruolo avrebbe avuto il ricorrente nell’associazione
per delinquere, ruolo che, con disparità di trattamento rispetto ai coimputati,
sembra essere stato surrogato dal rapporto di parentela col presunto capo.
Ripropone poi il problema del numero dei partecipanti all’associazione, con
particolare riguardo alla posizione di tal "penna bianca", la cui
qualità di sodale non sarebbe stata dimostrata. Si duole infine del diniego
delle attenuanti generiche che sarebbe stato motivato per relationem nonostante
che in sede di appello la responsabilità del ricorrente fosse stata
ridimensionata.
Considerato in diritto
1. Il ricorso del L. è privo di fondamento. Va infatti rilevato che, stando alla decisione del
Tribunale, l’identificazione nel ricorrente del soggetto interlocutore nelle
conversazioni intercettate e del soggetto che intervenne nella sosta dei
corrieri presso il ristorante X. di Pompei appare dovuta alla diretta
conoscenza del timbro di voce e delle fattezze del L. da parte della polizia.
In appello, la difesa del ricorrente, sembrando far acquiescenza alle
risultanze così accertate, ha allora sostenuto la tesi, confutata nella
sentenza impugnata e oggi abbandonata, che il giungere del L. presso il
ristorante, certo nella sua storicità, non era però dovuto a ragioni di droga. Sulla questione che per la prima volta oggi viene avanzata
(che cioè gli agenti operanti nel ristorante X. non conoscevano il sembiante
fisico del L.) la decisione impugnata non aveva dunque ragione per
pronunziarsi. La questione peraltro non è proponibile in questa Sede in quanto
da un lato tipica quaestio facti e dall’altro non dedotta nelle fasi di merito. 2. Quanto poi all’aggravante dell’art. 80 l.s., la
sentenza impugnata si allinea al condivisibile orientamento per cui la legge ha
in primo luogo riguardo alla quantità della droga trattata, intesa in termini
assoluti. E in questa prospettiva, per serbarsi fedeli agli interessi che si
sono intesi tutelare, sembra addirittura evidente che il riferimento al
principio attivo dello stupefacente, o in altri termine alla sua capacità di
moltiplicarsi in dosi destinate al consumo, sebbene non esplicitamente richiamato
dal legislatore, connoti di significatività negativa il dato ponderale della
sostanza sequestrata. Con la conclusione che è proprio la quantità di principio
attivo o la purezza del narcotico l’elemento determinate per accertare, a
parità di peso del compendio, la sussistenza della circostanza dell’ingente
quantità. La quale nella specie è stata ragionevolmente ritenuta per
un sequestro di kg. 1,953 di cocaina con principio attivo pari al 66%. Né può dedursi una sorta di disparità di trattamento con
riguardo a concorrenti nel reato giudicati in separato processo, dato che
preliminarmente si sarebbe dovuto dimostrare che sia corretta la soluzione
raggiunta per costoro ed erronea quella adottata per il ricorrente,
dimostrazione che invece non è stata nemmeno tentata. 3. Alla reiezione del ricorso segue la condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali. 4. Venendo così al ricorso del G., senza addentrarsi in
questioni di diritto intertemporale, va subito respinta la censura di violazione
dell’art. 405 1 bis c.p.p., per la ragione risolutiva che nella specie la
Cassazione, con la sentenza invocata del 17 giugno del 2005, non si è
pronunziata "in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza" di partecipazione ad associazione per delinquere, ma
soltanto sulla motivazione addotta al riguardo dal Tribunale del riesame. La norma invocata intende creare un raccordo tra la fase
cautelare e quella di merito, onde evitare contraddizioni di dicta in ordine
alla sussistenza e alla rilevanza degli stessi elementi probatori. Essa perciò,
giusta del resto la sua dizione letterale, è applicabile quando la Cassazione
conosca direttamente dell’indizio (ad esempio sotto il profilo
dell’utilizzabilità) e pervenga, per l’assenza o l’inidoneità degli elementi
probatori raccolti, ad un annullamento senza rinvio del provvedimento oggetto
di controllo. Annullamento destinato a far stato anche nell’esercizio
dell’azione penale. La stessa norma invece non riguarda l’esame della
Cassazione sulla sufficienza o sulla tenuta logica dell’argomentazione in
materia di indizi, anche se, come nella specie, si sia profilata la necessità
di una nuova deliberazione da parte del giudice di merito. 5. Ancora da respingersi è la questione
dell’utilizzabilità degli indizi raccolti durante la minore età del ricorrente,
dato che, anche a voler condividere le premesse della deduzione (ma nulla
impone al p.m., nell’uso discrezionale dei suoi poteri di indagine, di
frazionare il reato non figurandoselo come permanente), il rapporto tra giudice
dei minori e tribunale ordinario è di separazione funzionale di competenza,
nell’ambito del principio di unità della giurisdizione penale, con
applicabilità pertanto dell’art. 26 comma 1 c.p.p.. 6. Non v’è poi difetto di motivazione in ordine
all’identificazione nel ricorrente, dato che il tenore delle conversazioni (dà
del papà al padre) ha confermato la sua qualità di interlocutore, ricavata in
primo luogo (e a preferenza di fratelli) dal riconoscimento del timbro di voce
di A. G. da parte degli operanti. 7. Fondata (e assorbente gli ulteriori motivi) è per
contro la censura di violazione di legge circa la ritenuta sussistenza di
un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, di cui
il ricorrente avrebbe fatto parte. Va rilevato che nella sentenza di primo grado non si
poneva questione sulla pluralità soggettiva dell’associazione ipotizzata,
essendosi identificati, oltre a P. G. capo del sodalizio, quali componenti
dello stesso F. L., S. C. e il ricorrente. Con la sentenza in esame sia il L. che il C. sono stati
assolti dal reato associativo per non aver commesso il fatto, e, onde
assicurare l’elemento soggettivo del sodalizio, si è ritenuto farne parte anche
un non meglio identificato “penna bianca” o “testa bianca” o “testa calda”,
soggetto che appare quale interlocutore in alcune conversazioni intercettate,
con il ruolo di fornitore della droga. La pronunzia in esame, per sostenere la partecipazione di
questo individuo all’associazione di P. G. si vale del costante insegnamento di
questa Corte secondo cui l’associazione può costituirsi anche tra fornitore
abituale e acquirente. Tuttavia, pur nella correttezza dell’impostazione, la
medesima decisione assume a torto che tale soggetto fosse un "abituale"
fornitore, mostrando invece come costui risultasse coinvolto soltanto in due
episodi di spaccio, ravvicinati nel tempo. Insomma dallo stesso testo del
provvedimento in esame si ricava che nella specie manca quello stabile raccordo
di interessi che, anche e proprio nel citato insegnamento giurisprudenziale, è
costitutivo dell’affectio societatis. In tal modo la figura di “penna bianca”, occasionalmente
coinvolta in specifici, singoli affari, non si identifica in un componente del
sodalizio. E questo, a sua volta, non raggiunge la consistenza soggettiva
richiesta dalla legge per integrare la figura criminosa. Ne derivano le conseguenze espresse nel dispositivo.
P.Q.M.
La Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata nei
confronti di G. A. limitatamente al capo a) perché il fatto non sussiste.
Rigetta nel resto il ricorso e rinvia per la rideterminazione della pena in
ordine al reato residuo ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli. Rigetta il ricorso di L. F. che condanna al pagamento
delle spese processuali.
|