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Articoli 24/10/2007

L’investimento di pedone ubriaco, non esime il conducente dall’obbligo di diligenza

Il comportamento del pedone nonché le sue condizioni psico – fisiche integrano un giudizio puramente sussidiario
Andrebbe però focalizzato il concetto di “oggettiva impossibilità”
La Suprema Corte interviene a definire i limiti entro i quali si possa invocare, da parte del conducente di un veicolo, la scusabilità del proprio comportamento in relazione all’investimento di un pedone, e lo fa affermando l’imposizione di un preciso onere della prova a carico dell’interessato.
Nel caso di specie, infatti, i giudici di legittimità offrono una visione giurisprudenziale del problema, in base alla quale la condotta del pedone – tra l’altro ubriaco – deve apparire come un evento inatteso ed imprevedibile.
In buona sostanza, sul conducente di un veicolo grava un preciso obbligo di ispezionare continuamente la strada che sta per impegnare, attraverso l’esercizio di un costante controllo del veicolo in rapporto alle condizioni della strada stessa e del traffico.

Chi si pone alla guida di un mezzo, dunque, deve prevedere, secondo i Supremi Giudici, tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada.
Questo insieme di elementi configura in capo all’automobilista, quindi, una precisa posizione soggettiva che si rifà al più generale obbligo di diligenza riconnesso all’esercizio di un’attività foriera di pericolosità come la circolazione stradale.

Deriva, quindi, sul piano squisitamente giuridico, una prospettiva probatoria per nulla equilibrata, posto che, con la pronunzia in questione, viene superata quella sorta di presunzione (anche se non si tratta di vera e propria presunzione), per la quale la dimostrata condizione ed il provato stato di ubriachezza del pedone, potevano già di per sé sole orientare il giudizio in ordine alle responsabilità del sinistro, sollevando non poco il conducente sotto il profilo probatorio.
La Corte di legittimità, in concreto, rimane fedele a sé sessa ed a quell’orientamento più volte espresso (cfr. ex plurimis Cass. Pen. Sez IV, 13-10-2005, n. 44660 Galano, Fonti Foto It., 2006, 9, 2, 502 “Il conducente di un’autovettura deve tenere un comportamento improntato alla massima prudenza imposta dalle circostanze di tempo e di luogo per evitare qualsiasi incidente, ovvero dalle condizioni della strada, dalle condizioni ambientali e dallo stato di usura degli pneumatici, in quanto elementi tutti negativamente incidenti sull’efficacia frenante; la colpa concorrente del pedone che attraversi la strada fuori dalle strisce pedonali esclude la responsabilità dell’automobilista, solo se l’imprevedibile accelerazione della velocità della sua andatura sia tale da impegnare la strada al sopraggiungere dell’autovettura in modo tanto repentino, da rendere inevitabile l’investimento da parte dell’automobilista (nella specie, l’imputato, alla guida di un’autovettura con battistrada dotato di pneumatici anteriori talmente usurati da costituire una superficie liscia, veniva ritenuto responsabile di omicidio colposo per aver investito un pedone, persona di età avanzata, impossibilitata a correre speditamente poiché portatore di placche, mentre quest’ultimo impegnava la strada percorsa dell’auto, attraversandola diagonalmente e sotto una pioggia insistente)”), e ripreso anche in sede di merito (“Ai fini della configurabilità di una condotta colposa a carico dell’imputato per reato di omicidio colposo occorre verificare innanzitutto se, da un punto di vista oggettivo, il comportamento da lui tenuto alla guida dell’autovettura si sia uniformato alle regole di diligenza e prudenza che presidiano la disciplina della circolazione stradale ovvero sia stato inosservante di tali regole precauzionali di condotta, con la precisazione che in materia di investimento di un pedone perché possa essere esclusa la responsabilità el conducente dell’autoveicolo è necessario che questi si sia trovato, per motivi estranei a ogni suo obbligo di diligenza, nell’oggettività impossibilità di avvistare il pedone e di osservarne tempestivamente i movimenti, attuati in modo rapido e inatteso, occorrendo, inoltre, che nessuna infrazione alle norme della circolazione stradale e a quelle di comune prudenza sia riscontrabile nel suo comportamento” Trib. Nola, 20-01-2004) secondo il quale è preliminare, e pregiudizievole a qualsiasi altra disamina, la verifica del modo di atteggiarsi del conducente il veicolo.

Il comportamento del pedone nonchè le sue condizioni psico-fisiche integrano un giudizio puramente sussidiario, che però determina una verifica solo successiva in termini processual-temporali, ed eventuale.
Se l’ordine cronologico appare, dunque, dato certo, non altrimenti sicura è l’effettività di questa verifica, posto che l’inammissibilità della stessa è fortemente condizionata dalla sussistenza della prova dell’inosservanza dell’obbligo di diligenza da parte del conducente il veicolo.

Si deve, inoltre, rilevare che siffatta visione del problema, così come prospettata dalla pronunzia in commento, non può, però, definirsi consolidata e pacifica in quanto recentemente la Corte di Appello di Genova Sez. II, sentenza 17.04.2007, che ha sottolineato, invece, che nel caso di incidenti stradali in cui venga investito un pedone, è sempre necessario verificare un eventuale concorso di colpa di quest’ultimo nella causazione dell’incidente.
Nell’evidente contrasto fra le due contrapposte correnti di pensiero, si deve, comunque, cogliere l’indubbio rischio, insito nella decisione della S.C., di un trasferimento globale ed integrale della posizione di responsabilità in capo da un soggetto con correlativa e sinallagmatica deresponsabilizzazione di altra persona che, per converso, potrebbe apparire come concorrente (sul piano colposo e eziologico) nella causazione dell’evento.

Se, infatti, non è revocabile in dubbio la circostanza che l’assenza di infrazione da parte dell’automobilista (o motociclista) concreti un parametro di favore assolutamente intangibile per lo stesso, tale da porlo in una positiva condizione di assenza di elementi di antidoverosità, è altrettanto vero, però, che maggiormente rispondente a criteri di giustizia sostanziale sia l’opera di bilanciamento fra gli aspetti di colpa che possono contraddistinguere le contrapposte condotte.
Parimenti meritevole di una specifica attenzione appare l’elemento dell’imprevedibilità, carattere che deve connotare il comportamento del pedone e che configura la causa di esclusione della punibilità del soggetto investitore.

Senza perdersi in lunghe ed inutili dissertazioni, ritengo che tale parametro valutativo debba formare oggetto di una considerazione e di una elaborazione più approfondita rispetto a quanto emerge dalla sentenza in commento.
Soprattutto, corre l’impegno di meglio focalizzare il concetto di “oggettiva impossibilità” stabilendo rigorosamente cosa si intende far rientrare nel contesto dell’oggettività, perché ad impossibilia nemo tenetur.

 

* Avvocato e consulente Asaps

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

 SEZIONE IV PENALE

Sentenza 13 luglio 2007, n. 27740


(Presidente Marzano – Relatore Piccialli)

Fatto e diritto

I. A. ricorre contro la sentenza in data 15 giugno 2006, con la quale la Corte di appello dell’Aquila, in parziale riforma della sentenza di primo grado sostituiva la pena dell’arresto inflitta per il reato di guida in stato di ebbrezza ex art. 186, commi 1 e 2, codice della strada, con la sanzione pecuniaria di euro 1000, confermando il giudizio di responsabilità per il reato di omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale e la relativa pena statuita dal giudice di primo grado (fatto avvenuto in data 14.11.2002).
Sui motivi di appello, diretti ad ottenere l’assoluzione nel merito dell’imputato, sul duplice rilievo dell’asserito comportamento colposo del pedone, che procedeva barcollando ed in stato di alterazione, e della affermata mancanza di prove che la velocità dell’autovettura fosse superiore a quella consentita, la Corte ne argomentava l’infondatezza, osservando che lo stesso imputato aveva ammesso di aver notato la vittima percorrere il margine della strada con andatura barcollante e che, pertanto, essendo prevedibile anche una improvvisa deviazione del pedone, la condotta di guida dello I. si palesava con evidenza inadeguata alla situazione concreta e colposa.
Veniva altresì dato atto anche del concorso di colpa della vittima senza stabilirne però l’incidenza. 
Avverso la sentenza, propone ricorso l’imputato che articola tre distinti motivi di doglianza.
Con il primo prospetta la violazione di legge in ordine al giudizio di prevedibilità ed evitabilità dell’evento, non essendo imputabile allo I. alcun profilo di colpa specifica né generica.
Sotto il primo profilo, si sostiene che l’imputato non aveva violato la norma precauzionale prevista dall’art. 142 del codice della strada, emergendo dalla stessa sentenza che al momento dell’investimento l’autovettura osservava il limite di velocità di 50 Km orari né quella di cui all’art. 141 dello stesso codice, che, nell’imporre al conducente di regolare la velocità al fine di arrestare tempestivamente il mezzo, avrebbe riferimento esclusivamente agli eventi prevedibili tra i quali non poteva certamente rientrare la condotta della vittima.
Parimenti, nessun profilo di colpa generica sarebbe imputabile allo I., essendo del tutto imprevedibile l’improvviso attraversamento del pedone.
Con il secondo motivo denuncia la manifesta illogicità della motivazione laddove i giudici di appello affermano la facile prevedibilità dell’attraversamento da parte del pedone, così applicando un giudizio non giustificato sulla base di massime di esperienza generalmente riconosciute. La contraddittorietà della sentenza emergerebbe anche dalla circostanza che la stessa Corte di appello ha dato atto che l’imputato tentò, pur se invano, di porre in essere una cd. manovra di emergenza. Inoltre, in assenza di una consulenza cinematica sull’autovettura, il giudice di merito non aveva a disposizione elementi probatori sufficienti a fondare il giudizio di responsabilità dello I., non potendosi escludere logicamente che il cd. comportamento alternativo lecito non sarebbe valso ad impedire l’investimento del pedone.
Con il terzo motivo denuncia l’erronea interpretazione dell’art. 133 c.p., avendo i giudici del merito inflitto una pena (mesi cinque di reclusione per l’omicidio colposo) non commisurata ai fatti ed alla personalità dell’imputato, incensurato.

Il ricoorso è infondato.

I primi due motivi strettamente connessi, meritano trattazione congiunta, vertendo tutti sull’assenza di colpa dell’imputato a fronte del comportamento gravemente colposo del pedone.
Prima di procedere all’esame dei motivi, appare opportuno soffermarsi sui principi più volte affermati dalla giurisprudenza di legittimità in ordine agli obblighi gravanti sul conducente.
In primo luogo, il conducente è tenuto a vigilare al fine di avvistare il pedone.
L’avvistamento del pedone implica la percezione di una situazione di pericolo, in presenza della quale ogni conducente è tenuto a porre in essere una serie di accorgimenti (in particolare, moderare la velocità e, all’occorrenza, arrestare la marcia del veicolo), al fine di prevenire il rischio di un investimento.
Circa i doveri di attenzione del conducente tesi ad avvistare il pedone, si è sottolineato che grava sul conducente l’obbligo di ispezionare continuamente la strada che sta per impegnare, mantenendo un costante controllo del veicolo in rapporto alle condizioni della strada stessa e del traffico e di prevedere tutte quelle situazioni che la comune esperienza comprende, in modo da non costituire intralcio o pericolo per gli altri utenti della strada (v. Sez IV, 2 marzo 2007, Basta; 23 gennaio 2007, Tassi e 13 ottobre 2005, Tavoliere).
Al fine di escludere la responsabilità del conducente è, perciò, necessario che lo stesso sia trovato, per motivi estranei ad ogni suo obbligo di diligenza, nella oggettiva impossibilità di avvistare il pedone e di osservarne i movimenti, attuati in modo rapido ed inatteso; occorre, inoltre che nessuna infrazione alle norme della circolazione stradale ed a quelle di comune prudenza sia riscontrabile nel suo comportamento (v. le citate sentenze Sez. IV).
Alla luce di tale premessa, ritiene il Collegio che la sentenza impugnata sia esente da vizi logico-giuridici.
I giudici dell’appello all’esito della valutazione degli elementi acquisiti, hanno ritenuto di attribuire rilievo nel determinismo causale dell’evento alla imprudenza e negligenza dell’imputato, il quale, pur avendo avvistato il pedone (il quale, come ammesso dallo stesso imputato, percorreva il margine della strada con andatura barcollante), non ovviava alla situazione di pericolosità, arrestando l’autovettura o riducendo la velocità, in modo da rendere possibile l’arresto in caso di improvvisa invasione della carreggiata da parte di persona, che, come rilevato dalla Corte di merito manifestava segni di non adeguato controllo della propria persona.
La Corte di merito ha, inoltre escluso, anche questa volta con motivazione esente da censure, che il comportamento della vittima nell’attraversamento fosse qualificabile come repentino ed improvviso, e come tale, idoneo ad escludere la responsabilità dello I., avendo avuto l’imputato la possibilità di avvistare il pedone e di osservarne tempestivamente i movimenti.
Ad analoga conclusione i giudici di secondo grado pervenivano con riferimento alla vana manovra di deviazione dell’autovettura verso destra, posta in essere dal guidatore per schivare il pedone, il cui asserito arresto al centro della strada – peraltro indimostrato – è stato legittimamente ritenuto irrilevante, a fronte del comportamento gravemente imprudente del guidatore.
Il giudizio espresso sul punto attiene al merito dei fatti e non è sindacabile in sede di legittimità perché frutto di un apprezzamento delle emergenze processuali in ordine alla condotta di guida del ricorrente, ai profili di colpa in essa ravvisati e alla loro incidenza sotto il profilo causale, del quale è stata data congrua e coerente giustificazione.
Infondata è anche la censura relativa all’erronea applicazione dell’art. 133 c.p., con riferimento al trattamento sanzionatorio applicato. È decisiva, in tal senso, la considerazione che la facile prevedibilità dell’attraversamento del pedone come correttamente rilevato dalla corte di merito, implica un grado di colpa del ricorrente, in relazione al quale la pena inflitta è certamente adeguata, essendo, oltretutto, prossima ai minimi edittali.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte Suprema di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Spaccio di sostanze stupefacenti, aggravante della ingente quantità
Cassazione penale , sez. VI, sentenza 26.07.2007 n° 30534
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Spaccio di sostanze stupefacenti – aggravante della ingente quantità – quantità del principio attivo – legittimità [D.p.r. 309/1990]
Nell’ambito dello spaccio di sostanze stupefacenti, l’aggravante dell’ingente quantità può essere ravvisata nel caso in cui la quantità di principio attivo della droga sequestrata sia elevata. (1)
(1) Relativamente allo spaccio di sostanze stupefacenti avente per oggetto sostanze non comprese nella lista, si veda Cassazione penale 19056/2007.
(Fonte: Altalex Massimario 13/2007) 

SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

 

SEZIONE VI PENALE

 

Sentenza 26 luglio 2007, n. 30534

(Presidente Oliva – Relatore Agrò)

Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello di Napoli confermava la sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva ritenuto F. L. responsabile di trasporto e detenzione di ingente quantità di cocaina. Escluse le aggravanti del numero delle persone e di esserne stato organizzatore, confermava, in relazione ad A. G., la medesima sentenza quanto alla partecipazione ad un’associazione diretta allo spaccio di stupefacenti e quanto agli episodi di trasporto e detenzione di cocaina, esclusa, per questi, l’aggravante dell’ingente quantità.
2. Contro tale decisione ricorre F. L. il quale, in primo luogo, deduce il vizio di motivazione relativamente alla sua identificazione nel soggetto che ebbe ad incontrare i corrieri della droga.
In subordine lamenta il riconoscimento della sussistenza dell’aggravante dell’ingente quantità, riconoscimento fondato sul principio attivo della droga, elemento che non trova riferimenti normativi. D’altronde la stessa aggravante per la stessa partita di droga sarebbe stata esclusa dal Gip nei confronti di Leonardo La Pietra, nella sentenza pronunziata il 25 novembre 2002.
3. Ricorre A. G. che lamenta in primo luogo che la pronunzia abbia respinto la sua eccezione di improcedibilità dell’azione penale (eccezione avanzata ai sensi dell’art. 405 comma 1 bis c.p.p.) rifacendosi ad argomenti riguardanti la posizione di Nunzio Panella e altre posizioni e non valutando che, per quanto riguarda il ricorrente, esisteva una sentenza della Cassazione che affermava l’insussistenza degli indizi per il reato associativo.
Con un secondo motivo si duole del vizio di motivazione circa la ritenuta sussistenza di un’associazione per delinquere finalizzata al commercio della droga e circa la partecipazione del ricorrente a tale associazione. La sentenza, nonostante i motivi d’appello relativi al punto, non spiegherebbe perché sia proprio A. G. (e non un suo fratello) l’interlocutore del padre P. e quali criteri siano stati adottati per sovvertire il giudizio di mancanza di elementi già espresso dalla Cassazione.
Con un terzo motivo rileva che la pronunzia avrebbe affermato l’esistenza di un’associazione in assenza degli elementi costitutivi del delitto e in particolare quello del numero dei sodali.
Si duole infine della determinazione della pena e del diniego delle attenuanti generiche.
4. In prossimità dell’udienza il G. ha presentato motivi ad integrazione del ricorso.
In primo luogo ha ribadito con ulteriori argomenti l’applicabilità alla specie del comma 1 bis dell’art. 405 c.p.p., per come introdotto dall’art. 3 della legge n. 46 del 2006.
Ha quindi sostenuto l’inutilizzabilità degli atti di indagine anteriori al compimento della maggior età dell’imputato, inutilizzabilità non superata dal fatto che il reato permanente si è perfezionato dopo la maggiore età, in quanto la notitia criminis era stata appresa quando l’imputato era ancora minorenne e in quanto tra Tribunale dei minorenni e Tribunale ordinario vi sarebbe una ripartizione di giurisdizione e non di competenza ai sensi dell’art. 26 comma 1 c.p.p..
Ribadisce nel merito il vizio di motivazione relativo all’identificazione dell’autore del reato e sottolinea come non sia stato nemmeno identificato quale ruolo avrebbe avuto il ricorrente nell’associazione per delinquere, ruolo che, con disparità di trattamento rispetto ai coimputati, sembra essere stato surrogato dal rapporto di parentela col presunto capo. Ripropone poi il problema del numero dei partecipanti all’associazione, con particolare riguardo alla posizione di tal "penna bianca", la cui qualità di sodale non sarebbe stata dimostrata. Si duole infine del diniego delle attenuanti generiche che sarebbe stato motivato per relationem nonostante che in sede di appello la responsabilità del ricorrente fosse stata ridimensionata.

Considerato in diritto

1. Il ricorso del L. è privo di fondamento.
Va infatti rilevato che, stando alla decisione del Tribunale, l’identificazione nel ricorrente del soggetto interlocutore nelle conversazioni intercettate e del soggetto che intervenne nella sosta dei corrieri presso il ristorante X. di Pompei appare dovuta alla diretta conoscenza del timbro di voce e delle fattezze del L. da parte della polizia. In appello, la difesa del ricorrente, sembrando far acquiescenza alle risultanze così accertate, ha allora sostenuto la tesi, confutata nella sentenza impugnata e oggi abbandonata, che il giungere del L. presso il ristorante, certo nella sua storicità, non era però dovuto a ragioni di droga.
Sulla questione che per la prima volta oggi viene avanzata (che cioè gli agenti operanti nel ristorante X. non conoscevano il sembiante fisico del L.) la decisione impugnata non aveva dunque ragione per pronunziarsi. La questione peraltro non è proponibile in questa Sede in quanto da un lato tipica quaestio facti e dall’altro non dedotta nelle fasi di merito.
2. Quanto poi all’aggravante dell’art. 80 l.s., la sentenza impugnata si allinea al condivisibile orientamento per cui la legge ha in primo luogo riguardo alla quantità della droga trattata, intesa in termini assoluti. E in questa prospettiva, per serbarsi fedeli agli interessi che si sono intesi tutelare, sembra addirittura evidente che il riferimento al principio attivo dello stupefacente, o in altri termine alla sua capacità di moltiplicarsi in dosi destinate al consumo, sebbene non esplicitamente richiamato dal legislatore, connoti di significatività negativa il dato ponderale della sostanza sequestrata. Con la conclusione che è proprio la quantità di principio attivo o la purezza del narcotico l’elemento determinate per accertare, a parità di peso del compendio, la sussistenza della circostanza dell’ingente quantità.
La quale nella specie è stata ragionevolmente ritenuta per un sequestro di kg. 1,953 di cocaina con principio attivo pari al 66%.
Né può dedursi una sorta di disparità di trattamento con riguardo a concorrenti nel reato giudicati in separato processo, dato che preliminarmente si sarebbe dovuto dimostrare che sia corretta la soluzione raggiunta per costoro ed erronea quella adottata per il ricorrente, dimostrazione che invece non è stata nemmeno tentata.
3. Alla reiezione del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
4. Venendo così al ricorso del G., senza addentrarsi in questioni di diritto intertemporale, va subito respinta la censura di violazione dell’art. 405 1 bis c.p.p., per la ragione risolutiva che nella specie la Cassazione, con la sentenza invocata del 17 giugno del 2005, non si è pronunziata "in ordine alla sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza" di partecipazione ad associazione per delinquere, ma soltanto sulla motivazione addotta al riguardo dal Tribunale del riesame.
La norma invocata intende creare un raccordo tra la fase cautelare e quella di merito, onde evitare contraddizioni di dicta in ordine alla sussistenza e alla rilevanza degli stessi elementi probatori. Essa perciò, giusta del resto la sua dizione letterale, è applicabile quando la Cassazione conosca direttamente dell’indizio (ad esempio sotto il profilo dell’utilizzabilità) e pervenga, per l’assenza o l’inidoneità degli elementi probatori raccolti, ad un annullamento senza rinvio del provvedimento oggetto di controllo. Annullamento destinato a far stato anche nell’esercizio dell’azione penale.
La stessa norma invece non riguarda l’esame della Cassazione sulla sufficienza o sulla tenuta logica dell’argomentazione in materia di indizi, anche se, come nella specie, si sia profilata la necessità di una nuova deliberazione da parte del giudice di merito.
5. Ancora da respingersi è la questione dell’utilizzabilità degli indizi raccolti durante la minore età del ricorrente, dato che, anche a voler condividere le premesse della deduzione (ma nulla impone al p.m., nell’uso discrezionale dei suoi poteri di indagine, di frazionare il reato non figurandoselo come permanente), il rapporto tra giudice dei minori e tribunale ordinario è di separazione funzionale di competenza, nell’ambito del principio di unità della giurisdizione penale, con applicabilità pertanto dell’art. 26 comma 1 c.p.p..
6. Non v’è poi difetto di motivazione in ordine all’identificazione nel ricorrente, dato che il tenore delle conversazioni (dà del papà al padre) ha confermato la sua qualità di interlocutore, ricavata in primo luogo (e a preferenza di fratelli) dal riconoscimento del timbro di voce di A. G. da parte degli operanti. 
7. Fondata (e assorbente gli ulteriori motivi) è per contro la censura di violazione di legge circa la ritenuta sussistenza di un’associazione per delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, di cui il ricorrente avrebbe fatto parte.
Va rilevato che nella sentenza di primo grado non si poneva questione sulla pluralità soggettiva dell’associazione ipotizzata, essendosi identificati, oltre a P. G. capo del sodalizio, quali componenti dello stesso F. L., S. C. e il ricorrente.
Con la sentenza in esame sia il L. che il C. sono stati assolti dal reato associativo per non aver commesso il fatto, e, onde assicurare l’elemento soggettivo del sodalizio, si è ritenuto farne parte anche un non meglio identificato “penna bianca” o “testa bianca” o “testa calda”, soggetto che appare quale interlocutore in alcune conversazioni intercettate, con il ruolo di fornitore della droga.
La pronunzia in esame, per sostenere la partecipazione di questo individuo all’associazione di P. G. si vale del costante insegnamento di questa Corte secondo cui l’associazione può costituirsi anche tra fornitore abituale e acquirente. Tuttavia, pur nella correttezza dell’impostazione, la medesima decisione assume a torto che tale soggetto fosse un "abituale" fornitore, mostrando invece come costui risultasse coinvolto soltanto in due episodi di spaccio, ravvicinati nel tempo. Insomma dallo stesso testo del provvedimento in esame si ricava che nella specie manca quello stabile raccordo di interessi che, anche e proprio nel citato insegnamento giurisprudenziale, è costitutivo dell’affectio societatis.
In tal modo la figura di “penna bianca”, occasionalmente coinvolta in specifici, singoli affari, non si identifica in un componente del sodalizio. E questo, a sua volta, non raggiunge la consistenza soggettiva richiesta dalla legge per integrare la figura criminosa.
Ne derivano le conseguenze espresse nel dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di Cassazione annulla la sentenza impugnata nei confronti di G. A. limitatamente al capo a) perché il fatto non sussiste. Rigetta nel resto il ricorso e rinvia per la rideterminazione della pena in ordine al reato residuo ad altra sezione della Corte d’Appello di Napoli.
Rigetta il ricorso di L. F. che condanna al pagamento delle spese processuali.


© asaps.it

Di Carlo Alberto Zaina *

Mercoledì, 24 Ottobre 2007
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