Il Giudice di Pace di Trieste, con sentenza del 28 settembre 2001, in una questione relativa all’installazione di uno strumento installato a bordo di un’auto (nella parte superiore del parabrezza) e idoneo a captare la presenza di un autovelox (“phazer”), osservava, anche in base alla documentazione fornita dalla società produttrice, che tale dispositivo, essendo capace di raccogliere il segnale inviato dai radar misuratori di velocità e di rifletterlo verso gli stessi, esattamente ove essi erano, era in contrasto con quanto previsto dall’art. 45, comma 9° bis, del codice della strada, in quanto consentiva di localizzare direttamente i dispositivi misuratori della velocità in dotazione agli organi di polizia, anche se non ne segnalava al conducente la presenza. Secondo il giudice, inoltre, una interpretazione logica e non meramente letterale dell’art. 45 rendeva evidente il divieto dell’uso di qualsiasi dispositivo idoneo ad eludere il controllo delle violazioni dei limiti di velocità con i dispositivi di cui all’art. 142 c.s. Insomma, diceva il Giudice, che si segnalasse solamente, o si localizzasse solamente, la presenza di un misuratore, la sostanza non cambiava. I piccoli radar spia a bordo raggiungevano l’effetto di mettere egualmente in guardia il conducente. Contro questa decisione l’interessato proponeva opposizione adducendo che incongruamente la sentenza impugnata aveva ritenuto che un ricevitore passivo potesse localizzare i dispositivi in dotazione alla Polizia, e che, altrettanto erroneamente, essa aveva ritenuto possibile, sulla base dell’identità di ratio, una interpretazione analogica del divieto di dispositivi di localizzazione. La Corte di Cassazione, con sentenza 24 maggio 2007, n. 12150, ha rigettato il ricorso e confermato la decisione del Giudice di pace, esaminando congiuntamente i due motivi di gravame, “in quanto strettamente connessi e infondati”. Ha rilevato la Corte che l’art. 45, comma 9 bis, del codice della strada vieta "la produzione, la commercializzazione e l’uso di dispositivi che, direttamente o indirettamente, segnalano la presenza e consentono la localizzazione delle apposite apparecchiature di rilevamento di cui all’articolo 142, comma 6, utilizzate dagli organi di polizia stradale per il controllo delle violazioni" dei limiti di velocità previsti dallo stesso art. 142. Chiara infatti è la ratio della disposizione, ossia impedire che siano elusi i controlli effettuati con le apparecchiature di rilevamento della velocità e che quindi in tal modo i veicoli possano procedere a velocità vietate. Ora, ha affermato la Corte, è alla luce di tale ratio che deve essere intesa l’espressione "segnalano la presenza e consentono la localizzazione", e non è necessario “che le due caratteristiche del dispositivo concorrano, essendo invece sufficiente che ne ricorra soltanto una per giustificare il divieto”. “In questo senso”, ha specificato ancora la Corte, “può leggersi la ricordata espressione: infatti, poiché la segnalazione della presenza presuppone necessariamente la localizzazione, la distinta previsione della possibilità di localizzazione sarebbe del tutto inutile e si spiega soltanto in quanto a tale possibilità sia dato autonomo rilievo, il che induce a ritenere che la congiunzione ‘debba essere intesa in senso disgiuntivo anziché cumulativo’”. Essendo quindi d’obbligo una interpretazione logica della norma e non una sua applicazione analogica, “anche i dispositivi che, ancorché senza segnalarlo al conducente, localizzano le apparecchiature di rilevamento della velocità” integrano l’illecito. Né d’altro canto”, ha concluso la Corte, “occorre che la localizzazione si traduca in coordinate geografiche o in indicazioni topografiche, essendo sufficiente la semplice ed automatica restituzione del segnale, che, ovviamente, presuppone l’individuazione della fonte”. In sostanza, ha detto la Cassazione, non è il caso di sollevare questioni di lana caprina, né di aggrapparsi a sottigliezze lessicali o pseudo-sofismi. La norma vuole impedire che il conducente percepisca la presenza di un rilevatore di velocità al fine di sfuggire alla giusta repressione del suo comportamento illecito. E quando un guidatore viene messo in grado di regolarsi di conseguenza? Quando ha localizzato o ha anche solo captato la presenza di un misuratore di velocità. Ossia quando lo ha “annusato” attraverso un bip, oppure lo ha “visto”, magari identificandolo su un navigatore satellitare. Non occorre che si verifichino entrambe queste evenienze, insieme. È come se si volesse distinguere fra percezioni olfattive e percezioni visive e insistere che solo quando concorrono entrambe si può affermare che si ha avuto nozione della presenza di un “pericolo” (o, più prosaicamente, di un “fattore ostile”). Non è vero, in natura prima di tutto. E di nuovo, approfondiamo ancora una volta il dato lessicale della legge ricorrendo a quello etimologico (sempre utile, a volte anche decisivo), e scopriremo che davvero non è il caso di perdersi in vacue distinzioni terminologiche. Signum deriva dalla radice europea sak, dire, mostrare. Locus, a sua volta, risale a st-locus, e quindi alla radice stalk, porre. E allora, che la presenza del “mostriciattolo” autovelox (o altro di affine) venga detta, o mostrata, o posta, l’effetto dovrebbe essere sempre lo stesso. da Il Centauro n.115 |
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