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Articoli 03/11/2007

Anche la fuga può configurare il reato di resistenza a P.U.

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foto Blaco - archivio Asaps

La sentenza, che si commenta in questa sede, ribadisce un orientamento che si è venuto a consolidare nel tempo e che si concreta nel considerare anche la fuga quale condotta configurante effettivamente il reato di resistenza a p.u. (di cui all’art. 337 c.p.), laddove essa “si estrinsechi con modalità tali da evidenziare il chiaro proposito d’interdire od ostacolare al pubblico ufficiale il compimento del proprio ufficio”.
 La fuga, dunque, va intesa come pura reazione in senso stretto, scevra da espressioni materiali di aggressività, o violenza e, al contempo, non sorretta da un intenzione di minaccia o di creazione di uno stato dei pericolo concreto.
  Vale a dire, quindi, che il problema del “commodus discessus” attiene ad una condotta che deve apparire espressione di un reale senso di passività da parte di chi la compie e che non deve essere effettuata con modalità che mettano a repentaglio l’incolumità del terzo (Cfr. Cass. civ. Sez. III, 22-05-2007, n. 11879, G.A. c. S.W., Danno e Resp., 2007, 8-9, 929).
  Si è in presenza, pertanto, di un insegnamento che è stato recepito (e ribadito), recentemente, in un caso nel quale si è pervenuti, così, a negare l’applicabilità della scriminante di cui all’art. 53 c.p., allorquando l’aggressione perpetrata ai danni del pubblico ufficiale abbia esaurito la sua carica offensiva e sia in atto un mero stato di fuga la quale, di per sè, non esprime alcun contenuto di resistenza (Cfr. Cass. pen. Sez. III, 19-04-2007, n. 11879, S., Massima redazionale, 2007).
  Ed ancora, corre l’obbligo di ricordare e sottolineare come la Corte di Appello di Milano Sez. II, 3-04-2006, D.L.G.F. e altri abbia affermato che “La fuga in quanto tale non integra il reato di resistenza, essendo necessario che ad essa si accompagnino manovre che concretino l’esplicazione di una vera e propria intimidazione contro il pubblico ufficiale atta a paralizzare o quanto meno a contrastare l’attività di costui.”.
  Nessuna novità in punto di diritto, dunque, nonostante i media (che, more solito, dimostrano un atteggiamento di acritica ed estrema superficialità priva di preventive quanto necessarie verifiche) abbiano sostenuto, con smodata enfasi, il carattere di novità della pronuncia.
  Non a caso, già in passato, sia in ambito di legittimità, che di merito, si sono registrate significative prese di posizione, del tutto analoghe a quella in parola, aventi ad oggetto la valutazione concernente il comportamento di persone che, trovandosi al volante di un’autovettura, oppure in sella ad un motociclo, abbia forzato un posto di blocco.
  In proposito si segnala una recente presa di posizione sempre della Corte d’Appello di Milano Sez. II, 4-05-2006, S.C., che, riferendosi espressamente ad una situazione nella quale il soggetto non abbia adempiuto all’obbligo di rispettare l’alt imposto dalle forze dell’ordine, ha evidenziato come “Integra il reato di resistenza a pubblico ufficiale (art. 337 c.p.) la condotta del soggetto che alla guida di un ciclomotore senza indossare il casco, non ottempera all’alt intimato dai vigili e si dà alla fuga”.
  Ancor prima la S.C. ebbe ad affermare che “Nel reato di resistenza a pubblico ufficiale la violenza consiste in un comportamento idoneo ad opporsi, in maniera concreta ed efficace, all’atto che il pubblico ufficiale sta legittimamente compiendo, sicché deve rispondere di tale reato il soggetto che, alla guida di un’autovettura, anziché fermarsi all’alt intimatogli dagli agenti di polizia, si dia alla fuga ad altissima velocità e, al fine di vanificare l’inseguimento, ponga in essere manovre di guida tali da creare una situazione di generale pericolo” (Cfr .Cass. pen. Sez. IV, 14-07-2006, n. 41936 (rv. 235535) , C.G.).
  
Deriva, dunque, dalla breve ricognizione giurisprudenziale che precede, la considerazione che elementi idonei a configurare il reato di cui all’art. 337 c.p., in situazioni del tipo di quella oggetto della pronunzia della Corte di Cassazione, devono essere individuati :
nell’atto legittimo del p.u., nell’esercizio delle di lui funzioni;
nella reazione del soggetto destinatario della condotta del p.u., che, al volante di un’autovettura, concreti una situazione generale di pericolo, esorbitando i limiti connessi alla fuga un senso stretto;
nella circostanza che la situazione di pericolo non si debba necessariamente indirizzare nei confronti del p.u., ma, come detto, possa attingere e coinvolgere anche terzi estranei;
nella idoneità dell’azione illecita del singolo ad impedire l’esecuzione dell’atto del p.u. .

Si tratta, pertanto, di una corretta reiterazione di principi coevi e costantemente strutturanti la fisionomia della norma di cui all’art. 337 c.p., atteso che l’elemento che “conta ai fini della integrazione del reato previsto dall’art. 337 c.p. è la idoneità dell’azione di un soggetto ad impedire il compimento di un atto di ufficio, avuto riguardo appunto alla gravità e violenza della minaccia e della energia fisica dispiegata dall’imputato con conseguenze lesive per l’agente. L’effetto coattivo rappresenta infatti solo l’obiettivo della intenzionalità soggettiva, indipendentemente dal fatto che l’atto di ufficio possa comunque essere eseguito”. (Cfr. App. Milano Sez. II, 14-05-2007 , M.D.).

La fuga che non si risolva, pertanto, in una mera resistenza passiva ed esorbiti tale atteggiamento, sia dal punto di vista psicologico, che materiale, venendo a concretizzare un vero e proprio impiego di forza diretto a neutralizzare l’azione del pubblico ufficiale ed a sottrarsi alla presa, ma un guadagnando la impunità, rimane, quindi, situazione che non sfugge alla previsione dell’art. 337 c.p. (Cfr. Cass. pen. Sez. VI, 26-06-2003, n. 35125, Graziotti, Riv. Pen., 2004, 915).

Leggi la sentenza

* Avvocato e Consulente Asaps


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Di Carlo Alberto Zaina *

Sabato, 03 Novembre 2007
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