Il capo della Polizia – Antonio Manganelli
Parla il capo della polizia Antonio Manganelli:
"Accerteremo la verità, lo dobbiamo alla famiglia Sandri" "Quel
poliziotto è stato maldestro di GIUSEPPE D’AVANZO ROMA - Dice il capo della polizia che "non ci sono parole per accostarsi al dolore dei familiari di Gabriele Sandri, al loro lutto. Le puoi anche scegliere tra le più oneste, tra le più amichevoli parole che conosci, non saranno mai così appropriate da essere di conforto. Non ci può essere conforto se perdi un figlio, un fratello. Quell’assenza è incolmabile. Allora, mi sono detto che io, personalmente, e la polizia come istituzione avevamo un solo dovere: assicurare alla famiglia Sandri la verità sui fatti che hanno deciso della vita di Gabriele". Antonio Manganelli siede sul divano nella grande stanza, al secondo piano del palazzo del Viminale. Tace ora, come per riflettere tra sé. Forse per cercare, una ad una, le parole del suo discorso. C’è un lungo silenzio della stessa grana del silenzio che sempre, nei giorni buoni come nei giorni cattivi, contrassegna il piano nobile del palazzo. Non si ode mai una voce, un rumore qualsiasi, una penna che cade, un porta che cigola, in quel corridoio sempre vuoto e deserto, se si esclude il commesso che ti accompagna. E’ un’immobilità che deve essere l’unica possibile regola per affrontare, con autocontrollo, senza alcuna agitazione o frenesia, la tensione che ogni giorno attende i custodi dell’ordine pubblico. Lei dice: bisogna assicurare la verità dei fatti accaduti a Badia al Pino. Qual è questa verità? "L’abbiamo sufficientemente ricostruita con altre testimonianze e riscontri tecnici e affidata alla magistratura. Abbiamo recuperato l’ogiva del proiettile che ha ucciso Gabriele e il perito, già in possesso del bossolo, potrà ora ricostruire, dopo l’autopsia, la possibile traiettoria del colpo. Non c’è dubbio che a sparare sia stato il nostro agente. Non c’è dubbio che, dopo un primo colpo sparato in aria, il secondo è stato esploso con il braccio teso in avanti. Per una casualità o per una consapevole decisione, non sta a me dirlo". Si sarà fatta però un’idea. "Ho una mia idea, naturalmente, ma è di nessuno interesse o valore. E’ più importante che dica come sono andate le cose, secondo le prime conclusioni dell’indagine. La volante vede da lontano, dalla carreggiata sud, il tafferuglio nell’area di servizio in carreggiata nord. Nessuno è in grado di capire che sia una rissa tra tifosi. Non ci sono vessilli, non ci sono bandiere, non ci sono slogan. C’è soltanto un gruppo di ragazzi che si picchiano. L’iniziativa migliore è dell’agente che attiva la sirena: in genere, è sufficiente per convincerli a chiuderla lì. E infatti i ragazzi smettono e si allontanano in fretta. L’altro agente, però, crede di essere testimone di un delitto più grave di una rissa e, da lontano, spara in aria e spara una seconda volta. Ripeto, con il braccio teso, in un’azione che ho definito maldestra". Maldestro non le appare un aggettivo, in questo caso, inappropriato? "Non è il solo a pensarlo. C’è chi me lo ha rimproverato perché non è sufficientemente drammatico. Le ripeto, dobbiamo alla famiglia Sandri la verità e definire il gesto di un agente di polizia maldestro, cioè di un’imperizia dannosa e pericolosa, è drammatico ed è soprattutto la verità". Per lunghe ore, domenica, si è avuto la sensazione che il vuoto di informazione coincidesse con il tentativo di alleggerire le responsabilità dell’agente. In molti abbiamo pensato che negando l’errore di valutazione dell’agente e indicando la causa del suo intervento nella violenza dei tifosi si volessero cambiare le carte in tavola, manipolare l’accaduto. "Io capisco che i media devono offrire ricostruzioni coerenti, senza smagliature e falle e capisco anche che, per il frammento di verità che avevate sotto gli occhi, non potevate fare altro che giungere a quella conclusione. In realtà, soltanto a poco a poco noi abbiamo messo insieme quei frammenti che ci hanno fatto capire che cosa era successo". Non ci avete messo troppo tempo? "No. Anch’io ho avuto la tentazione di mettere sotto pressione il capo dello squadra mobile di Arezzo, Marco Dal Piazza, ma ha avuto la ragione lui a prendersi il tempo necessario, e ne sono contento. Si è comportato con molta correttezza. Non ha interrogato subito gli amici di Gabriele. Per evitare equivoci, li ha separati e atteso il magistrato. Ha "congelato" la scena del crimine, come è doveroso fare. Sono iniziative scrupolose, ma prendono tempo. Così soltanto intorno alle 12,30 abbiamo avuto un quadro apprezzabile della situazione". A quel punto, lei ha deciso di non fermare il campionato in contrasto con i vertici del mondo del calcio. È stata la scelta giusta? "Guardi, le potrei dire che le cose sono andate come lei dice. Ne ricaverei l’immagine del capo della polizia decisionista che impone le sue scelte anche se non condivise. Ma le cose non sono andate così. Si è detto addirittura che, a questo proposito, avrei avuto un scontro con il ministro Amato. La verità è che nessuno mi ha opposto alcuna perplessità. Le aggiungo che penso ancora che bisognasse giocare, ma la realtà è che quella decisione non è stata virtuosa. E’ stata soltanto necessaria, obbligata. Erano, più o meno, le tredici. Gli stadi andavano affollandosi. I tifosi erano nei dintorni dello stadio. Nelle stazioni ferroviarie. In viaggio lungo le autostrade. Fermare a quell’ora la macchina - i campionati di A, B, e C - semplicemente non era possibile. Ogni tentativo sarebbe stato inefficace e, quel che è peggio, controproducente". Non crede che il mancato stop sia stato un moltiplicatore di violenze? "Credo il contrario. Il gioco ha favorito il contenimento delle violenze. Se si esclude quanto è accaduto a Bergamo, si può dire che è stata una ordinaria domenica di calcio, del nostro calcio". Se si esclude Roma? "No, anche a Roma abbiamo pagato il prezzo minore tra quelli probabili. Ho apprezzato molto la decisione di rinviare la partita. Giocarla avrebbe voluto dire coinvolgere, in uno spazio chiuso, decine di migliaia di tifosi pacifici nelle violenze che, con determinazione e lucidità, già erano state programmate dagli ultras facinorosi. Evitare che l’incontro si svolgesse ha significato che i romani pacifici se ne sono tornati a casa e in strada a fare danni sono rimasti soltanto in duecento". Rifarebbe anche la scelta di non presidiare il territorio? "Guardi, dopo la morte di Gabriele Sandri, il peggio poteva accadere proprio a Roma, se le forze dell’ordine avessero voluto ripulire il quartiere Flaminio e i dintorni dell’Olimpico. Ho chiesto ai miei uomini e ai carabinieri di avere pazienza, di non intervenire. Quattro funzionari sono stati feriti, eppure non hanno dato ai proprio uomini l’ordine di replicare. Non siamo stati però con le mani in mano. Abbiamo predisposto un servizio di videosorveglianza per identificare i violenti. Con il tempo necessario, avranno notizie di noi appena li identificheremo e già sappiamo chi sono i primi dieci. Se avessi deciso altrimenti, chi poteva assicurare che gli scontri - quel che gli ultras volevano ad ogni costo - non sarebbero degenerati? Facile discutere qui in poltrona, ma in strada ci vanno uomini in carne e ossa, che possono essere messi a mal partito e avere paura e quando si ha paura e si perde il controllo, c’è anche chi può fare la mossa peggiore. Lei riesce a immaginare che cosa sarebbe accaduto se ci fosse stato un altro morto a sera, domenica, a Roma?". Lei ha parlato di neofascisti infiltrati nei gruppi più violenti di tifosi. Ci sono nuove evidenze? "Le posso dire che abbiamo dimostrazione evidenti di come l’area di estrema destra abbia occupato le curve degli ultras". Lei concorda con la procura di Roma che intende contestare l’aggravante del terrorismo agli arrestati di domenica? "Quale debba essere il reato contestato agli indagati non è affare della polizia, ma del pubblico ministero. Rilevo che nessuno ricorda in questo palazzo l’assalto a una caserma della polizia. Credo di poter dire, con Pierluigi Vigna, che quell’aggressione è un atto eversivo". Ora si teme che, alla ripresa del campionato, si scatenerà un conflitto permanente tra ultras e polizia. Lei che cosa prevede? "Le dico che cosa faremo, non che cosa prevedo. La nostra risposta sarà intransigente e rigorosa. Se non ci saranno le condizioni per giocare - e tra le condizioni c’è un clima sereno, non aggressivo per le forze dell’ordine - semplicemente non si giocherà". Non crede che questo rigore creerà una maggiore coesione tra i violenti? "Al contrario. Il nostro progetto prevede di dimostrare a chi non è un facinoroso pur essendo ultras - e intendo con questa parola un tifoso entusiasta e irriducibile, ma non necessariamente violento - che il calcio conviene goderselo senza risse e scontri. Che chi è violento spesso lo è per un interesse personale. Confido di aprire con gli ultras non violenti un canale di dialogo e sono pronto a raccogliere anche i loro suggerimenti. Con i facinorosi è inutile ogni discussione. La nostra pressione sta ridimensionando il loro peso. E, dal loro peso nel mondo del calcio, ricavavano denaro e un prestigio e una visibilità che altrimenti potevano soltanto sognare. Per troppo tempo hanno avuto in ostaggio le società di calcio...". Le società complici... "A volte complici, a volte vittime. Come per le estorsioni, è difficile separare il confine tra la complicità e l’oppressione. Certo, per troppo tempo, acquiescenti". È aumentata la collaborazione delle società? "Diciamo che abbiamo cominciato insieme un percorso, ma la strada da fare è ancora lunga. Abbiamo un programma e lo porteremo fino in fondo. Entro il 1 marzo negli stadi ci saranno soltanto gli steward e non più la polizia. È una data che vogliamo rispettare. Se le società non si adegueranno giocheranno con gli spalti vuoti". Mi sembra insospettabilmente sereno. Sbaglio? "Come posso essere sereno dopo la morte irragionevole di Gabriele Sandri? Ma se si riferisce al mio lavoro, sì, sono sereno. Forse non ho grandi qualità, ma so come non perdere mai la testa". |
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