Si dice che prima di parlare si debba riflettere.
Bene: abbiamo riflettuto.
Dopo la tragica uccisione di Gabriele Sandri abbiamo atteso e meditato a lungo.
Omicidio, colposo o volontario ancora non si sa, per mano di un poliziotto, un
uomo con una divisa portata da molti di noi, che appartiene ad un reparto
particolare, la Sottosezione Autostradale di Battifolle (Arezzo), che, nella
storia della nostra Polizia Stradale è senza alcun dubbio una delle punte di
diamante della Specialità. Lo attestano le migliaia di arresti eseguiti, le
tonnellate di droga recuperate, centinaia di armi sequestrate ed una mole
impressionante di veicoli rubati, taroccati o truffati, tutti sottratti alla
malavita organizzata.
Impossibile non partire da questo.
Poi arriva il tragico 11 novembre: tifosi che ne aggrediscono altri, coltelli e
bastoni, biglie e sassi e poi un colpo di pistola che raggiunge un’auto che si
allontana, un ragazzo che muore. La dinamica è in fase di ricostruzione, e non
possiamo parlare del merito. Ma quel che è successo dopo, è cronaca nera:
l’intero paese è ostaggio di altri tifosi, migliaia, che intendono vendicare
con la devastazione ed il saccheggio il sangue del loro “fratello” ultrà.
Perfino la famiglia dell’ucciso, alla quale rivolgiamo il nostro addolorato
pensiero, prende le distanze dalla comunione delle tifoserie, tutte unite
contro la legge. Si assaltano le caserme, al funerale si saluta romanamente, si
invoca una sorta di legge del taglione nei confronti del poliziotto assassino,
come se “ACAB”, acronimo di “All Cops Are Bastard” (Tutti i poliziotti sono
bastardi) che unisce le tifoserie di mezzo mondo in un movimento trasversale e
quasi globale, tanto inquietante da richiamare una matrice
anarco-insurrezionalista, avesse in mano una bomba con una miccia già pronta.
Miccia che è stata accesa, bomba che è stata scagliata.
Fatti del genere non erano mai avvenuti, nemmeno nei tempi più bui della
Repubblica, e sanno tanto di pretesto: serviva una scintilla ed è arrivata,
rappresentata da un tragico sbaglio, perché di questo si tratta (ne siamo
convinti) ed ecco che – complici anche molti media – la morte di Gabriele Sandri
pareggia il conto con quella dell’ispettore Filippo Raciti. In mezzo non c’è solo il calcio, ma ci sono loro. Le
Giacche Blu, che di solito “si fanno sparare”, che pagano da sempre – insieme a
tutte le forze dell’ordine – un quotidiano tributo di violenza e di sangue,
troppo spesso archiviate con eccessiva fretta nel dimenticatoio di un fastoso e
bel funerale.
Retorica? Forse.
Stavolta però non è affatto semplice nascondersi dietro un gioco semantico di
parole e basta: la realtà dei fatti è che la reazione vissuta nel Paese per
colpa di una parte di esso, grande e piccola che sia, ci ha fatto sentire sotto
attacco. Odiati, assediati, al punto che abbiamo dovuto vedere caserme con le barricate, servizi di vigilanza raddoppiati.
In alcuni luoghi, lo sappiamo, qualcuno non è nemmeno uscito di pattuglia,
facendo tornare a scorrere sulla pelle dei più anziani certe sensazioni provate
in quei giorni bui di cui si parlava innanzi, quando le pattuglie venivano
assaltate per rubare le armi.
Insomma, c’è qualcosa che cova, che non sappiamo ma di cui intuiamo la
pericolosità. Qualcosa che sa di delegittimazione. Quando qualcuno commette un
errore, pur terribile e tragico, lo Stato ha il dovere di accertare la verità,
ha il preciso obbligo di fare chiarezza, di intervenire e l’ha fatto.
Il Capo della Polizia, Prefetto Antonio Manganelli, ha subito fatto intendere
che non ci sarebbero state verità di parte. Si è assunto la responsabilità di
quanto successo, e così ha fatto la Polizia Stradale, tanto che né l’agente che
ha improvvidamente sparato né i suoi colleghi di reparto hanno trovato scuse.
Nessuno si è nascosto dietro un “ma” o un “forse”. Semplicemente ha atteso che
la verità venisse accertata e già nel pomeriggio della stessa tragica giornata,
praticamente in mondovisione, la Polizia di Stato risponde con la massima
trasparenza. Chi parlava di omicidio volontario è stato accontentato, anche se
il processo , quello vero, è ancora da celebrare. Perché noi, sia chiaro,
rifiutiamo con tutte le nostre forze l’idea che un uomo in divisa, dopo 12 anni
di onorato servizio, costellato di successi, decorazioni e riconoscimenti, si alzi una mattina, estragga la pistola e
spari alla macchina di un essere umano per il semplice gusto di farlo.
L’uomo delle forze dell’ordine, scusateci se lo ripetiamo, di solito si fa
uccidere, ma quand’anche commetta un errore paga. Eccome se paga. Lo dimostra,
il caso di un poliziotto di Rimini, che dopo venti minuti di inseguimento e due
tentativi di investimento da parte di un giovane che era inspiegabilmente
scappato, aveva esploso l’unico colpo di pistola della sua vita al di fuori di
un poligono. 9 anni e 5 mesi di carcere per omicidio volontario, interrotti
dopo 3 anni di detenzione dalla Grazia del Presidente della Repubblica.
Dunque, scusateci, l’attacco che è stato sferrato, complice anche molta stampa,
ci ha fatto male. Luigi, il nostro collega che ha sbagliato, sembra già essere
stato processato e condannato sulle pagine dei giornali o nei talk-show
televisivi, con un impatto mediatico così dirompente da rendere “ingiusto” –
per legittima suspicione – qualsiasi dibattimento ovunque si tenga, in Italia.
Non resta che prenderne atto. Ci consolano le centinaia di atti di stima che ci
sono arrivati, dalle divise di ogni colore e dalla gente comune. Persone, che
hanno riflettuto, che hanno compreso l’esistenza di un disegno esploso dopo il
tragico fatto di Arezzo. Nessun ospedale viene prese d’assalto, saccheggiato,
violato, quando un medico o un infermiere commette un errore fatale e qualcuno
muore. Ne parlano i giornali, si chiama malasanità.
Che ci fosse anche una malapolizia, proprio, non lo sapevamo. E francamente non
lo crediamo.
La presidenza Asaps
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