E’ incompatibile con
il fondamentale principio della parità di trattamento davanti alla giurisdizione
la distruzione di intercettazioni che coinvolgano, sia pure indirettamente, un
deputato se non è stata data l’autorizzazione dal Parlamento. La Corte
costituzionale, con la sentenza 390 depositata il 23 novembre, ha dichiarato la
illegittimità costituzionale della legge Boato, all’articolo 6 commi 2, 5 e 6,
dove stabilisce appunto la immediata distruzione di documentazioni di
conversazioni che coinvolgano comunque un deputato: così - stabilisce la
Consulta - si elimina ad ogni effetto dal panorama processuale una prova
legittimamente formata, anche quando coinvolga terzi che solo occasionalmente
hanno interloquito con il parlamentare. In tal modo, secondo i giudici, viene
introdotta una disparità di trattamento non soltanto tra il titolare del mandato
elettivo e terzi, ma tra gli stessi terzi. (27 novembre 2007) Sentenza della Corte
costituzionale n. 390 dell’Anno 2007 LA CORTE
COSTITUZIONALE
ha pronunciato la seguente SENTENZA
Visto l’atto di intervento del presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 24 ottobre 2007 il Giudice relatore
Giovanni Maria Flick. Ritenuto in fatto la
Camera competente neghi l’autorizzazione all’utilizzazione delle
intercettazioni «indirette» o «casuali» di conversazioni cui ha preso parte un
membro del Parlamento – la relativa documentazione debba essere immediatamente
distrutta, e che i verbali, le registrazioni e i tabulati di comunicazioni,
acquisiti in violazione del disposto dello stesso art. 6, debbano essere
dichiarati inutilizzabili in ogni stato e grado del procedimento; anziché
limitarsi a prevedere l’inutilizzabilità di detta documentazione nei confronti
del solo parlamentare indagato. Il
rimettente riferisce che, nel procedimento a quo, il
pubblico ministero aveva fatto istanza, ai sensi dell’art. 6, comma 2, della
legge n. 140 del 2003, affinché fosse richiesta alla Camera dei deputati
l’autorizzazione all’utilizzazione di alcune conversazioni telefoniche,
intercettate su utenze in uso a terzi, alle quali aveva preso parte un membro
di detta Camera, iscritto nel registro delle notizie di reato per fatti di
turbativa d’asta aggravata in concorso. I difensori
del parlamentare si erano opposti alla richiesta, osservando che il citato art.
6 concerneva – per espressa previsione del comma 1 – le intercettazioni di
conversazioni di membri del Parlamento eseguite nel corso di procedimenti
«riguardanti terzi»: ipotesi, questa, che non ricorreva nella specie, essendo
il parlamentare indagato nel medesimo procedimento. I medesimi difensori
avevano quindi prospettato al giudice a quo la
seguente alternativa: o ritenere applicabile l’art. 4 della legge n. 140 del 2003
(che richiede l’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza al fine
di eseguire intercettazioni nei confronti di un membro del Parlamento),
dichiarando di conseguenza inutilizzabili le conversazioni telefoniche; ovvero
sollevare questione di legittimità costituzionale dei citati artt. 4 e 6, nella
parte in cui – non disciplinando espressamente il caso in esame – sembrerebbero
consentire all’autorità inquirente di intercettare «indirettamente» (ossia
tramite utenze in uso a terzi) il parlamentare indagato, rimettendo
successivamente all’autorità giudiziaria la scelta se utilizzare le
conversazioni intercettate senza alcuna autorizzazione, ovvero se chiedere una
autorizzazione «postuma», in applicazione analogica dell’art. 6, comma 2. Ad
avviso della difesa, anche questa seconda opzione interpretativa sarebbe stata
irragionevole e non rispettosa della garanzia prevista dell’art. 68, terzo
comma, Cost., il quale fa riferimento alle intercettazioni, «in qualsiasi
forma, di conversazioni o comunicazioni»: e, dunque – secondo l’assunto
difensivo – anche alle intercettazioni «indirette» del parlamentare, eseguite
nell’ambito del procedimento in cui risulta indagato. Il giudice
a quo dichiarava manifestamente infondata l’eccezione
di legittimità costituzionale sollevata dalla difesa, ritenendo che la norma
applicabile nel caso di specie fosse proprio l’art. 6 della legge n. 140 del
2003, e non l’art. 4, che disciplina le intercettazioni su utenze in uso al
parlamentare. Di conseguenza, richiedeva l’autorizzazione all’utilizzazione
delle intercettazioni alla Camera dei deputati, la quale, con delibera assunta
nella seduta del 20 dicembre 2005, la negava. Ciò
premesso, il rimettente osserva come – a fronte del diniego della Camera –
l’art. 6, comma 5, della legge n. 140 del 2003 imporrebbe l’immediata
distruzione della documentazione relativa alle intercettazioni telefoniche
delle conversazioni cui ha preso parte il parlamentare. Prima di dar corso alla
distruzione, il giudice a quo ritiene, tuttavia, di
dover sollevare questione di legittimità costituzionale del combinato disposto
dei commi 2, 5 e 6 del citato art. 6. Al
riguardo, il rimettente muove dall’assunto che la disciplina complessiva,
risultante dalla norma impugnata, si sarebbe spinta «ben oltre il raggio di
operatività delle guarentigie parlamentari, previste dall’art. 68 Cost.». Tali
guarentigie atterrebbero, infatti, unicamente alle intercettazioni «dirette»
delle conversazioni dei parlamentari: non potendosi far leva, in contrario,
sulla locuzione «in qualsiasi forma», impiegata nel terzo comma dello stesso
art. 68 Cost., la quale si riferirebbe non già alle intercettazioni «indirette»
od «occasionali», ma soltanto alle differenti modalità con le quali la
captazione delle conversazioni può avvenire ed ai diversi mezzi di
comunicazione intercettati. Occorrerebbe, di conseguenza, stabilire se
l’estensione della guarentigia, ad opera del legislatore ordinario, anche alle
conversazioni e comunicazioni contemplate dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003
esponga la disciplina adottata a censure di illegittimità costituzionale. A tale
interrogativo il rimettente risponde in senso affermativo, assumendo che le
previsioni normative censurate risulterebbero lesive, anzitutto, del principio
di eguaglianza (art. 3 Cost.), sotto lo specifico profilo della parità di
trattamento rispetto alla giurisdizione. In rapporto a tale principio – il
quale si colloca alle origini della formazione dello Stato di diritto – il
sistema delle immunità e delle prerogative dei membri del Parlamento potrebbe,
difatti, venire in rilievo solo come eccezione e valere unicamente per i casi
espressamente considerati, in quanto ritenuti dal Costituente idonei ad
interferire sulla libera esplicazione della funzione parlamentare. L’esigenza
di preservare la funzione parlamentare da indebite interferenze o
condizionamenti, tuttavia, non giustificherebbe affatto la distruzione della
documentazione delle intercettazioni «indirette» od «occasionali», prevista dal
comma 5 dell’art. 6 della legge n. 140 del 2003. Detta distruzione – come pure
l’inutilizzabilità dei verbali, delle registrazioni e dei tabulati di
comunicazioni acquisiti in violazione del disposto dell’art. 6 della legge n.
140 del 2003, prevista dal comma 6 del medesimo articolo – non avrebbe,
infatti, nulla «a che vedere» con la libera esplicazione delle funzioni
parlamentari: discutendosi, da un lato, di intercettazioni eseguite su utenze o
presso luoghi non in uso a membri del Parlamento; e, dall’altro lato, di
conversazioni la cui utilizzabilità processuale nei confronti del parlamentare
risulta comunque preclusa dalla mancata autorizzazione della Camera di
appartenenza. La prevista distruzione della documentazione si spiegherebbe,
pertanto, unicamente con l’intento di tutelare «oltre modo» la riservatezza
delle comunicazioni del parlamentare, con ingiustificata subordinazione a
questa del principio di eguaglianza. La
disciplina censurata determinerebbe, in tale ottica, una irragionevole
disparità di trattamento fra gli indagati, a seconda che tra i loro
«interlocutori occasionali» vi sia stato o meno un membro del Parlamento (sia
esso, o no, indagato per lo stesso reato). Infatti – in caso di diniego
dell’autorizzazione, da parte della Camera di appartenenza – le conversazioni
in questione, benché legittimamente acquisite dall’autorità giudiziaria,
dovrebbero essere immediatamente distrutte, anziché rimanere inutilizzabili
soltanto nei confronti del parlamentare indagato; con la conseguenza che la
tutela delle prerogative parlamentari finirebbe per tornare a vantaggio anche
degli indagati non parlamentari. In secondo
luogo, ad avviso del rimettente, risulterebbe leso l’art. 24 Cost., giacché la
distruzione immediata della documentazione – con conseguente perdita
irrimediabile delle conversazioni intercettate – potrebbe penalizzare o
compromettere il diritto di difesa degli indagati o di altre parti (prima fra
tutte, la persona offesa). Da ultimo,
la disciplina denunciata si rivelerebbe incompatibile con l’art. 112 Cost.,
giacché l’obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale
resterebbe inevitabilmente compresso o escluso dalla impossibilità di
utilizzare le conversazioni in parola, allorché queste costituiscano elemento
di prova rilevante nei confronti di indagati che non beneficiano delle
guarentigie di cui all’art. 68 Cost. 2. – È
intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei
ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato,
chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile. Ad avviso
della difesa erariale, l’avvenuta richiesta di autorizzazione all’utilizzazione
delle intercettazioni ed il diniego della stessa ad opera della Camera dei
deputati non consentirebbero di denunciare la pretesa violazione del principio
di obbligatorietà dell’azione penale tramite questione incidentale di
legittimità costituzionale: dovendo detta denuncia essere proposta sollevando
conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato. Solo con tale strumento,
infatti, sarebbe possibile sindacare il merito della determinazione
parlamentare: mentre un’ipotetica censura riguardante l’obbligo di richiedere
l’autorizzazione avrebbe dovuto essere formulata prima di ottemperare a tale
obbligo, diversamente da quanto è accaduto nel giudizio a
quo. Parimenti
inammissibili risulterebbero le residue censure, riferite agli artt. 3 e 24
Cost., in quanto – una volta determinatasi l’inutilizzabilità delle
intercettazioni – l’obbligo di distruzione resterebbe irrilevante nel giudizio
principale. Considerato in diritto 1. – Il
Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino dubita, in
riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, della legittimità
costituzionale dell’art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140,
nella parte in cui stabilisce che – nel caso di diniego dell’autorizzazione
all’utilizzazione delle intercettazioni «indirette» o «casuali» di
conversazioni, cui ha preso parte un membro del Parlamento – la relativa
documentazione debba essere immediatamente distrutta; e che i verbali, le
registrazioni e i tabulati di comunicazioni, acquisiti in violazione del
disposto dello stesso art. 6, debbano essere dichiarati inutilizzabili in ogni
stato e grado del procedimento, anziché limitarsi a prevedere
l’inutilizzabilità della predetta documentazione nei confronti del solo
parlamentare indagato. Ad avviso
del rimettente, la disciplina delle intercettazioni «indirette» o «casuali» dei
parlamentari, delineata dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003, esorbiterebbe
dai limiti della garanzia prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., la quale
atterrebbe alle sole intercettazioni «dirette». Nella sua concreta
configurazione, detta disciplina verrebbe quindi a ledere l’art. 3 Cost., con
riguardo al basilare principio della parità di trattamento davanti alla
giurisdizione. L’esigenza di preservare la funzione parlamentare da indebite
interferenze o condizionamenti – che ispira il sistema delle immunità e delle
prerogative dei membri del Parlamento – non giustificherebbe, difatti, le
previsioni oggetto di censura: e ciò perché si discute di intercettazioni che
non incidono sulla predetta funzione, in quanto sono state eseguite su utenze o
presso luoghi non in uso al parlamentare e la loro utilizzabilità processuale
nei confronti di quest’ultimo resta comunque preclusa dalla mancata
autorizzazione della Camera di appartenenza. Le
disposizioni denunciate tutelerebbero, piuttosto, il diverso interesse alla
riservatezza delle comunicazioni del parlamentare, subordinando
ingiustificatamente ad esso il principio di eguaglianza. In conseguenza delle
previsioni normative in questione si determinerebbe, infatti, per un verso, una
irragionevole disparità di trattamento fra gli indagati, a seconda che tra i
loro «interlocutori occasionali» vi sia o meno un membro del Parlamento; e, per
un altro verso, l’estensione di fatto delle prerogative parlamentari a soggetti
privi di tale qualifica. Risulterebbe
leso, altresì, l’art. 24 Cost., giacché la distruzione immediata della documentazione
– con la perdita definitiva delle conversazioni intercettate – rischierebbe di
penalizzare il diritto di difesa degli indagati o di altre parti (tra cui,
anzitutto, la persona offesa); nonché l’art. 112 Cost., in quanto
l’impossibilità di utilizzare le intercettazioni – quando costituiscano
elemento di prova nei confronti di indagati che non beneficiano delle
guarentigie di cui all’art. 68 Cost. – comprimerebbe l’obbligo del pubblico
ministero di esercitare l’azione penale. 2. – In
via preliminare, l’interpretazione della norma censurata, sulla cui base il
rimettente afferma la rilevanza della questione nel procedimento a quo, non può ritenersi implausibile. Il
problema ermeneutico trae origine dall’apparente discrasia tra i campi di
applicazione degli artt. 4 e 6 della legge n. 140 del 2003. La prima delle due
disposizioni regola l’ipotesi in cui occorra «eseguire» intercettazioni «nei
confronti» di un membro del Parlamento (cosiddette intercettazioni «dirette»);
e prevede che, a tal fine, l’«autorità competente» debba richiedere
l’autorizzazione della Camera cui il parlamentare appartiene, in assenza della
quale l’atto è ineseguibile. Si tratta, dunque, di una autorizzazione a
carattere preventivo, concernente i casi nei quali il parlamentare si presenta
– non necessariamente in quanto indagato, ma anche (per diffuso convincimento)
quale persona offesa o informata sui fatti – come il destinatario dell’atto
investigativo. Invece –
come si desume dalla clausola di riserva iniziale («fuori delle ipotesi
previste dall’articolo 4») – l’art. 6 attiene ai casi in cui le comunicazioni
dell’esponente politico vengano intercettate fortuitamente, nell’ambito di
operazioni che hanno come destinatarie terze persone (cosiddette
intercettazioni «indirette» o «casuali»). In tale evenienza, il giudice per le
indagini preliminari, se ravvisa la necessità di far uso del materiale
probatorio (comma 2) – dovendo, per contro, essere distrutte le intercettazioni
irrilevanti, per ordine del giudice stesso, «a tutela della riservatezza»
(comma 1) – deve richiedere un’autorizzazione successiva alla Camera cui il
parlamentare appartiene o apparteneva al momento dell’intercettazione (si veda,
sul punto, l’ordinanza n. 389 del 2007): un’autorizzazione la quale condiziona,
cioè, non l’esecuzione dell’atto (ormai avvenuta), ma l’utilizzazione
processuale dei suoi risultati. Qualora l’assenso sia negato, la documentazione
delle intercettazioni va distrutta immediatamente, e comunque non oltre i dieci
giorni dalla comunicazione del diniego (comma 5); inoltre, i verbali e le
registrazioni delle comunicazioni, acquisiti in violazione dello stesso art. 6
(e, segnatamente, in difetto di autorizzazione), sono dichiarati inutilizzabili
dal giudice, in ogni stato e grado del processo (comma 6). In base al
disposto del comma 1, peraltro, presupposto di operatività della disciplina ora
descritta è che l’intercettazione occasionale del deputato o del senatore
avvenga «nel corso di procedimenti riguardanti terzi»: donde il dubbio circa il
regime applicabile allorché la captazione fortuita abbia luogo in procedimenti
che – come quello a quo – coinvolgano lo stesso
parlamentare, unitamente ad altri soggetti. Ad avviso del rimettente, simili
intercettazioni rimarrebbero egualmente soggette alla disciplina dell’art. 6,
stante il carattere residuale che la stessa assume, negli intenti del
legislatore, rispetto alla previsione dell’art. 4, di per sé non riferibile
alle captazioni considerate (lex minus dixit quam voluit).
Questa lettura non è implausibile: non solo perché conforme alla corrente
prassi parlamentare in tema di autorizzazioni e recepita, altresì, dalla
giurisprudenza di legittimità; ma, anche e soprattutto, in considerazione della
oggettiva problematicità delle possibili alternative esegetiche. 4. In base
a tale tesi, l’autorizzazione preventiva – prescritta da quest’ultima
disposizione – andrebbe richiesta chiunque sia la persona da intercettare,
allorché un parlamentare figuri tra gli indagati: e ciò in ragione della
elevata probabilità che le intercettazioni, disposte in un procedimento che
riguarda (anche) il parlamentare, finiscano comunque per captarne le
comunicazioni, ove pure il controllo venga materialmente effettuato su altri
soggetti. Siffatta dilatazione del perimetro applicativo dell’art. 4 si basa,
peraltro, su una presunzione priva di riscontro nella lettera della norma (la
quale, richiedendo il placet della Camera, per
eseguire l’intercettazione «nei confronti» del parlamentare, evoca una concreta
ed attuale prospettiva di intrusione nella sua sfera comunicativa); e
introduce, al tempo stesso, una limitazione all’attività di indagine che può
apparire di dubbio fondamento razionale, specie quando il procedimento concerna
numerosi fatti e soggetti (la circostanza che uno solo fra gli indagati abbia
la qualità di deputato o senatore paralizzerebbe il mezzo di ricerca della
prova nei confronti di tutti). A sua
volta, la tesi alternativa, secondo la quale l’ipotesi de
qua non sarebbe regolata dalla legge – non essendo riconducibile né alla
previsione dell’art. 4 né a quella dell’art. 6 – oltre a risultare, primo visu, contraria all’intentio
del legislatore della legge n. 140 del 2003 (di ampia protezione delle
comunicazioni del parlamentare), determinerebbe una sperequazione palesemente
irragionevole. In tale prospettiva, infatti, il parlamentare sarebbe tutelato
esclusivamente rispetto alle intercettazioni occasionali effettuate in
procedimenti che riguardino solo terzi; mentre resterebbe sfornito di garanzia
nei confronti delle intercettazioni occasionali eseguite in procedimenti che
riguardino anche lui stesso: intercettazioni i cui risultati, pertanto,
potrebbero essere utilizzati senza necessità di alcuna autorizzazione. 3. – Sotto
diverso profilo, va rilevato come il giudice a quo –
che ha sollevato la questione dopo aver chiesto, con esito negativo,
l’autorizzazione all’utilizzazione delle intercettazioni «indirette» ai sensi
dell’art. 6 – non censuri, con l’incidente di costituzionalità, la previsione
dell’obbligo di richiedere detta autorizzazione (allorché l’indagine coinvolga
anche il parlamentare), ma soltanto la regolamentazione degli effetti del suo
diniego. Come
emerge dalla motivazione dell’ordinanza di rimessione, il rimettente si duole
segnatamente del fatto che il legislatore ordinario – nell’estendere il regime
di garanzia al di là dell’ambito stabilito dall’art. 68, terzo comma, Cost.
(che si riferirebbe, in assunto, alle sole intercettazioni «dirette») – abbia
adottato una disciplina eccedente la finalità di preservare la funzione
parlamentare da indebite interferenze e condizionamenti; mentre solo questa
finalità potrebbe giustificare una deroga al principio della parità di
trattamento davanti alla giurisdizione. A tale scopo, nel caso di rifiuto
dell’autorizzazione, sarebbe sufficiente – secondo il rimettente – la semplice
inutilizzabilità delle intercettazioni nei confronti del parlamentare indagato.
Per contro, prevedendo la distruzione della documentazione e la sua
inutilizzabilità nei confronti di qualunque altro soggetto, il legislatore
avrebbe inteso, in realtà, tutelare un interesse diverso – quello alla
riservatezza delle comunicazioni del parlamentare – inidoneo a legittimare
deroghe al predetto principio fondamentale. A fronte
di tale petitum, le due eccezioni di inammissibilità
della questione, sollevate dall’Avvocatura dello Stato, si rivelano infondate. Quanto
alla prima, infatti – contrariamente a quanto sostiene la difesa erariale – le
censure del rimettente non investono il merito della decisione di diniego
dell’autorizzazione adottata dalla Camera; così da rendere necessario, in
assunto, il ricorso al diverso strumento del conflitto di attribuzioni. Quanto
alla seconda eccezione, la questione risulta rilevante nel giudizio a quo – nella prospettiva del rimettente – anche dopo il
rifiuto dell’autorizzazione, proprio perché mira a rimuovere (parzialmente) le
conseguenze di detto rifiuto, che ancora debbono prodursi nel procedimento
principale. 4. – Ciò
puntualizzato, deve escludersi che il risultato perseguito dal giudice a quo – ossia la limitazione del campo applicativo
dell’art. 6, commi 2, 5 e 6, ai casi in cui si debbano utilizzare i risultati
delle intercettazioni contro il parlamentare – possa essere desunto dalla norma
impugnata già in via di interpretazione. La
circostanza che il presupposto della disciplina sia individuato in rapporto ai
procedimenti riguardanti «terzi»; la genericità del riferimento alla necessità
di utilizzazione delle intercettazioni, senza alcuna specificazione limitativa
rispetto ai soggetti; la perentorietà delle previsioni in tema di distruzione
del materiale e di inutilizzabilità, oggi censurate: sono tutti argomenti
testuali che ostano al recepimento dell’esegesi dianzi indicata. Quest’ultima,
d’altra parte, non rispecchierebbe la voluntas del
legislatore, il quale – alla luce dei lavori preparatori e del dibattito che ha
preceduto la legge n. 140 del 2003 – intendeva sicuramente comprendere
nell’art. 6 i casi di utilizzazione nei confronti di terzi. 5. – Nel merito,
la questione è fondata, nei termini di seguito specificati. 5.1. – La
disciplina delle intercettazioni «indirette» – o, più propriamente, per quanto
si dirà, delle intercettazioni «casuali» – quale delineata dall’art. 6 della
legge n. 140 del 2003, non può ritenersi in effetti riconducibile alla
previsione dell’art. 68, terzo comma, Cost. Al
riguardo, giova premettere come, nell’ambito del sistema costituzionale, le
disposizioni che sanciscono immunità e prerogative a tutela della funzione
parlamentare, in deroga al principio di parità di trattamento davanti alla
giurisdizione – principio che si pone «alle origini della formazione dello
Stato di diritto» (sentenza n. 24 del 2004) – debbano essere interpretate nel
senso più aderente al testo normativo. Tale esigenza risulta accentuata dal
passaggio – avutosi con la legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3, di
riforma dell’art. 68 Cost. – ad un sistema basato esclusivamente su specifiche
autorizzazioni ad acta: un sistema nel quale ogni
singola previsione costituzionale attribuisce rilievo ad uno specifico
interesse legato alla funzione parlamentare e fissa, in pari tempo, i limiti
entro i quali esso merita protezione, stabilendo quali connotazioni debba
presentare un determinato atto processuale, affinché si giustifichi il suo
assoggettamento al nulla osta dell’organo politico. Nella
specie, dal testo dell’art. 68, terzo comma, Cost. («analoga autorizzazione è
richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi
forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza») non
può ricavarsi alcun riferimento ad un controllo parlamentare a posteriori sulle intercettazioni occasionali. La norma
costituzionale ha riguardo, infatti, alla «sottoposizione» di un parlamentare
ad intercettazione e ad una autorizzazione di tipo preventivo: il nulla osta è
richiesto per eseguire l’atto investigativo, e non per utilizzare nel processo
i risultati di un atto precedentemente espletato. Il che è confermato, ove ve
ne fosse bisogno, dal fatto che la norma richiama un’autorizzazione «analoga» a
quella – indubitabilmente preventiva – prevista dal secondo comma dello stesso
art. 68 Cost. in rapporto alle perquisizioni personali o domiciliari,
all’arresto e alle misure privative della libertà personale. Né giova,
in senso contrario, l’inciso «in qualsiasi forma», che nell’art. 68, terzo
comma, Cost. qualifica le intercettazioni soggette ad autorizzazione. Come
emerge, infatti, dai lavori preparatori della legge costituzionale n. 3 del
1993, detto inciso fu introdotto dalla Camera dei deputati in sostituzione del
riferimento alle «intercettazioni telefoniche e ambientali», che compariva nel
testo approvato dal Senato della Repubblica il 19 giugno 1993: e ciò sia a fronte
delle perplessità di ordine tecnico, generate dall’impiego – in una norma
costituzionale – della locuzione «intercettazioni ambientali», estranea alla
terminologia del codice di rito; sia a fronte della opportunità di adottare una
formula più generica, atta ad abbracciare ogni possibile mezzo comunicativo. Nell’intenzione
del legislatore costituzionale, dunque, l’espressione «in qualsiasi forma» si
riferiva unicamente alle modalità tecniche di captazione e ai tipi di
comunicazione intercettata; non già al carattere «diretto» o «casuale» della
captazione. Di ciò offre conferma la stessa legge n. 140 del 2003, nella quale
l’identica espressione «in qualsiasi forma» compare – col significato ora
indicato – a proposito sia delle intercettazioni «dirette» (art. 4, comma 1)
che di quelle «indirette» (art. 6, comma 1). 5.2. – La ratio della garanzia prevista dall’art. 68, terzo comma,
Cost. converge, d’altro canto, con la lettera della norma. L’art. 68
Cost. mira a porre a riparo il parlamentare da illegittime interferenze
giudiziarie sull’esercizio del suo mandato rappresentativo; a proteggerlo,
cioè, dal rischio che strumenti investigativi di particolare invasività o atti
coercitivi delle sue libertà fondamentali possano essere impiegati con scopi
persecutori, di condizionamento, o comunque estranei alle effettive esigenze
della giurisdizione. La necessità dell’autorizzazione viene meno, infatti,
allorché la limitazione della libertà del parlamentare si connetta a titoli o
situazioni – come l’esecuzione di una sentenza di condanna irrevocabile o la
flagranza di un delitto per cui sia previsto l’arresto obbligatorio – che
escludono, di per sé, la configurabilità delle accennate evenienze. Destinatari
della tutela, in ogni caso, non sono i parlamentari uti
singuli, ma le Assemblee nel loro complesso. Di esse si intende preservare
la funzionalità, l’integrità di composizione (nel caso delle misure de libertate) e la piena autonomia decisionale, rispetto
ad indebite invadenze del potere giudiziario (si veda, al riguardo, con
riferimento alla perquisizione domiciliare, la sentenza n. 58 del 2004): il che
spiega l’irrinunciabilità della garanzia (sentenza n. 9 del 1970). In tale
prospettiva, l’autorizzazione preventiva – contemplata dalla norma
costituzionale – postula un controllo sulla legittimità dell’atto da
autorizzare, a prescindere dalla considerazione dei pregiudizi che la sua
esecuzione può comportare al singolo parlamentare. Il bene protetto si
identifica, infatti, con l’esigenza di assicurare il corretto esercizio del
potere giurisdizionale nei confronti dei membri del Parlamento, e non con gli
interessi sostanziali di questi ultimi (riservatezza, onore, libertà
personale), in ipotesi pregiudicati dal compimento dell’atto; tali interessi
trovano salvaguardia nei presidi, anche costituzionali, stabiliti per la
generalità dei consociati. Questo
rilievo vale anche in rapporto alle intercettazioni di conversazioni o
comunicazioni. Richiedendo il preventivo assenso della Camera di appartenenza
ai fini dell’esecuzione di tale mezzo investigativo, l’art. 68, terzo comma,
Cost. non mira a salvaguardare la riservatezza delle comunicazioni del
parlamentare in quanto tale. Quest’ultimo diritto trova riconoscimento e
tutela, a livello costituzionale, nell’art. 15 Cost., secondo il quale la
limitazione della libertà e segretezza delle comunicazioni può avvenire solo
per atto motivato dell’autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla
legge. L’ulteriore
garanzia accordata dall’art. 68, terzo comma, Cost. è strumentale, per contro,
anche in questo caso, alla salvaguardia delle funzioni parlamentari: volendosi
impedire che l’ascolto di colloqui riservati da parte dell’autorità giudiziaria
possa essere indebitamente finalizzato ad incidere sullo svolgimento del mandato
elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera
esplicazione dell’attività. E ciò analogamente a quanto avviene per
l’autorizzazione preventiva alle perquisizioni ed ai sequestri di
corrispondenza, il cui oggetto ben può consistere anche in documenti a
carattere comunicativo. 5.3. – Nel
caso delle intercettazioni fortuite, peraltro, l’eventualità che l’esecuzione
dell’atto sia espressione di un atteggiamento persecutorio – o, comunque, di un
uso distorto del potere giurisdizionale nei confronti del membro del
Parlamento, volto ad interferire indebitamente sul libero esercizio delle sue
funzioni – resta esclusa, di regola, proprio dalla accidentalità dell’ingresso
del parlamentare nell’area di ascolto. Né,
d’altra parte, si può ritenere che il nulla osta successivo della Camera
all’utilizzazione del mezzo probatorio sia imposto dall’esigenza di evitare una
surrettizia elusione della garanzia dell’autorizzazione preventiva: elusione
che si realizzerebbe allorché, attraverso la sottoposizione ad intercettazione
di utenze telefoniche o luoghi appartenenti formalmente a terzi – ma che
possono presumersi frequentati dal parlamentare – si intendano captare, in
realtà, le comunicazioni di quest’ultimo. Al riguardo, va infatti osservato che
la norma costituzionale vieta di sottoporre ad intercettazione, senza
autorizzazione, non le utenze del parlamentare, ma le sue comunicazioni: quello
che conta – ai fini dell’operatività del regime dell’autorizzazione preventiva
stabilito dall’art. 68, terzo comma, Cost. – non è la titolarità o la
disponibilità dell’utenza captata, ma la direzione dell’atto d’indagine. Se
quest’ultimo è volto, in concreto, ad accedere nella sfera delle comunicazioni
del parlamentare, l’intercettazione non autorizzata è illegittima, a
prescindere dal fatto che il procedimento riguardi terzi o che le utenze
sottoposte a controllo appartengano a terzi. La
previsione – nella norma costituzionale – dell’autorizzazione preventiva al
compimento dell’atto, e non anche dell’autorizzazione successiva
all’utilizzazione dei suoi risultati, è del tutto coerente con tale
prospettiva: giacché, nella prima ipotesi, l’autorità giudiziaria è comunque in
grado di chiedere in anticipo l’assenso della Camera cui appartiene il
parlamentare. Dall’ambito della garanzia prevista dall’art. 68, terzo comma,
Cost. non esulano, dunque, le intercettazioni «indirette», intese come
captazioni delle conversazioni del membro del Parlamento effettuate ponendo
sotto controllo le utenze dei suoi interlocutori abituali; ma, più
propriamente, le intercettazioni «casuali» o «fortuite», rispetto alle quali –
proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare –
l’autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo, munirsi preventivamente
del placet della Camera di appartenenza. Sotto
questo profilo, si deve quindi ritenere che la previsione dell’art. 68, terzo
comma, Cost. risulti interamente soddisfatta, a livello di legge ordinaria,
dall’art. 4 della legge n. 140 del 2003, le cui statuizioni debbono necessariamente
interpretarsi in coerenza con quelle del precetto costituzionale che esso mira
ad attuare. La disciplina dell’autorizzazione preventiva, dettata dall’art. 4,
deve ritenersi destinata, cioè, a trovare applicazione tutte le volte in cui il
parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di
captazione, ancorché questa abbia luogo monitorando utenze di diversi soggetti.
In tal senso può e deve intendersi la formula «eseguire nei confronti di un
membro del Parlamento […] intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni
o comunicazioni», che compare nella norma ordinaria. Per
contro, l’autorizzazione successiva prevista dall’art. 6 della legge n. 140 del
2003 – ove configurata come strumento di controllo parlamentare sulle
violazioni surrettizie della norma costituzionale – non solo non sarebbe
indispensabile per realizzare i fini dell’art. 68, terzo comma, Cost.; ma
verrebbe a spostare in sede parlamentare – in una situazione nella quale
risulterebbe eventualmente attivabile anche il rimedio del conflitto di
attribuzioni – un sindacato che trova la sua sede naturale nell’ambito dei
rimedi interni al processo. Con il rischio – da taluni paventato – che un
siffatto meccanismo possa porsi addirittura in contrasto con la stessa norma
costituzionale, attribuendo, di fatto, all’Assemblea parlamentare – nel caso di
concessione dell’autorizzazione – la facoltà di “sanare”, rendendoli
utilizzabili, mezzi di prova acquisiti contra
constitutionem. 6, in
sostanziale assonanza con la norma generale dell’art. 269, comma 2, del codice
di procedura penale. Tale documentazione potrebbe essere così impiegata,
tramite la cassa di risonanza dei mass media, a fini
di pressione politica. A
prescindere, peraltro, dalla reale idoneità del diniego dell’assenso
successivo, all’esito di dibattito in Assemblea, a porre al riparo il
parlamentare da temute strumentalizzazioni giornalistiche, neppure l’anzidetta ratio può essere ricondotta alle previsioni dell’art. 68,
terzo comma, Cost.: giacché essa comporta un evidente mutamento dell’oggetto
del sindacato parlamentare, rispetto a quello prefigurato nella norma
costituzionale. la
Camera di appartenenza del parlamentare non sarebbe più chiamata a vagliare i
presupposti di esecuzione dell’atto invasivo, per impedire intrusioni indebite
dell’autorità giudiziaria nella sfera delle comunicazioni riservate
dell’esponente politico (nella specie, l’intrusione si è già consumata); ma
verrebbe chiamata a verificare la correttezza della successiva valutazione giudiziale
circa la rilevanza processuale dei risultati dell’intercettazione
(legittimamente eseguita). In altre parole, alla Camera verrebbe attribuito un
potere di sindacato non sull’espletamento o meno del mezzo di ricerca della
prova – com’è nella logica generale delle immunità previste dall’art. 68 Cost.
– ma sulla gestione processuale di una prova già formata. Tale
diversa angolazione del sindacato è stata, del resto, affermata dalla stessa
prassi parlamentare in tema di autorizzazioni. In essa si è espressamente
affermato che il parametro – sulla base del quale consentire o negare
l’utilizzazione delle intercettazioni «indirette» – non possa essere quello
«del fumus persecutionis, venendo in rilievo il
risultato probatorio di un’istruttoria già effettuata, ma piuttosto la
rilevanza e l’utilizzabilità processuale di tale risultato rispetto all’oggetto
dell’accusa» (in questo senso, la relazione della Giunta per le autorizzazioni
della Camera dei deputati presentata alla Presidenza il 19 marzo 2007, doc. IV,
n. 6-A). 5.5. –
Escluso, pertanto, che la disciplina censurata possa considerarsi
“costituzionalmente imposta” dall’art. 68, terzo comma, Cost., resta da
chiarire se la stessa possa ritenersi comunque “costituzionalmente consentita”.
Si tratta di stabilire, cioè, se il legislatore ordinario sia abilitato a
prevedere – in un’ottica di prevenzione di ipotizzabili condizionamenti sullo
svolgimento del mandato elettivo – forme speciali di tutela della riservatezza
del parlamentare, rispetto ad un mezzo di ricerca della prova particolarmente
invasivo, come le intercettazioni. E ciò pur tenendo conto che le esigenze di
protezione in materia risultano particolarmente avvertite in conseguenza di un
fenomeno patologico che incide, di per sé, sulla generalità dei cittadini:
quello, cioè, della disinvolta diffusione, anche a mezzo della stampa, dei
contenuti dei colloqui intercettati, spesso anche per le parti irrilevanti ai
fini del processo. la
Corte è chiamata a dare risposta, in questa sede, nei limiti del petitum del giudice rimettente: ossia, unicamente per
quanto attiene alla prevista inutilizzabilità erga omnes
e alle radicali conseguenze del rifiuto di autorizzazione della Camera
(distruzione del materiale, con perdita irrimediabile dei dati probatori da
esso offerti, anche quando vengano in rilievo posizioni di terzi); non, invece,
per quanto attiene al profilo – che resta impregiudicato – della disciplina
circa l’utilizzabilità o meno delle intercettazioni casuali nei confronti dello
stesso parlamentare intercettato. Sotto
l’aspetto censurato, le disposizioni impugnate si rivelano incompatibili con il
fondamentale principio di parità di trattamento davanti alla giurisdizione.
Dette disposizioni accordano, infatti, al parlamentare una garanzia ulteriore
rispetto alla griglia dell’art. 68 Cost., che – per l’ampiezza della sua
previsione e delle sue conseguenze – finisce per travolgere ogni interesse
contrario: giacché si elimina, ad ogni effetto, dal panorama processuale una
prova legittimamente formata, anche quando coinvolga terzi che solo
occasionalmente hanno interloquito con il parlamentare. In questo
modo, viene quindi introdotta una disparità di trattamento non soltanto tra il
titolare del mandato elettivo e i terzi – tema, quest’ultimo, che il giudice a quo non sottopone al giudizio di questa Corte – ma tra
gli stessi terzi. Le intercettazioni eseguite nel corso di un procedimento
penale, infatti, possono contenere elementi utili, o addirittura decisivi, sia
per le tesi dell’accusa che per quelle della difesa. Ne deriva che, coeteris paribus, la posizione del comune cittadino, cui
quegli elementi nuocciano o giovino, viene a risultare differenziata –
eventualmente, sino al punto da determinare il passaggio da una pronuncia di
condanna ad una assolutoria (e viceversa); ovvero, quanto al danneggiato dal
reato, il passaggio dal riconoscimento al diniego della pretesa risarcitoria –
in ragione della circostanza, puramente casuale, che il soggetto sottoposto ad
intercettazione abbia avuto, come interlocutore, un membro del Parlamento. Al tempo
stesso, impedendo di utilizzare le intercettazioni in questione anche nei
confronti di soggetti non parlamentari, le disposizioni in parola finiscono, di
fatto – senza alcuna base di legittimazione costituzionale – per configurare
una immunità a vantaggio di soggetti che non avrebbero comunque ragione di
usufruirne, in quanto non chiamati ad esercitare alcun mandato elettivo. In
sostanza, ciò che rende contrastante il complesso di norme in esame non
soltanto con il parametro dell’eguaglianza, ma anche con quello della
razionalità intrinseca della scelta legislativa, è il fatto che – per
neutralizzare gli effetti della diffusione delle conversazioni del
parlamentare, casualmente intercettate – sia stato delineato un meccanismo integralmente
e irrimediabilmente demolitorio, omettendo qualsiasi apprezzamento della
posizione dei terzi, anch’essi coinvolti in quelle conversazioni. 6. – I
commi 2, 5 e 6 dell’art. 6 della legge n. 140 del 2003 vanno dichiarati,
pertanto, costituzionalmente illegittimi nella parte in cui stabiliscono che la
disciplina ivi prevista si applichi anche nei casi in cui le intercettazioni
debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal membro del
Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni sono state intercettate. La
declaratoria di illegittimità costituzionale comporta che l’autorità
giudiziaria non debba munirsi dell’autorizzazione della Camera, qualora intenda
utilizzare le intercettazioni solo nei confronti dei terzi. Invece, qualora si
voglia far uso delle intercettazioni sia nei confronti dei terzi che del
parlamentare, il diniego dell’autorizzazione non comporterà l’obbligo di
distruggere la documentazione delle intercettazioni, la quale rimarrà
utilizzabile limitatamente ai terzi. Le residue
censure del giudice rimettente, riferite agli altri parametri evocati, restano
assorbite. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 5 e
6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art.
68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle
alte cariche dello Stato), nella parte in cui stabilisce che la disciplina ivi
prevista si applichi anche nei casi in cui le intercettazioni debbano essere
utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal membro del Parlamento, le cui
conversazioni o comunicazioni sono state intercettate. Così
deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta,
il 19 novembre 2007. F.to: Franco
BILE, Presidente Giovanni
Maria FLICK, Redattore Giuseppe
DI PAOLA, Cancelliere Depositata
in Cancelleria il 23 novembre 2007. Mercoledì, 28 Novembre 2007
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