Portare
il cane al parco senza guinzaglio può costare caro: se infatti l’animale fa
male a qualcuno si rischia una condanna penale per lesioni. Lo ha stabilito la
Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione confermando una condanna per
lesioni colpose gravi nei confronti di un quarantenne romano che aveva lasciato
il proprio cane, un pastore tedesco, libero di scorrazzare nel parco di Villa
Glori, e l’animale aveva causato la caduta di un ragazzo provocandogli lesioni
permanenti alla mano. Per questo il Tribunale di Roma aveva condannato il
padrone del cane ad un mese di reclusione con i benefici di legge. La Corte di
Appello aveva successivamente rideterminato la pena in 100 euro di multa,
revocando il beneficio della sospensione, e confermando nel resto la sentenza
di primo grado. Contro tale decisione l’imputato aveva proposto ricorso in
Cassazione, sostenendo, tra l’altro, che il cane non era suo ma di una signora
che lo aveva successivamente registrato all’anagrafe canina. La Suprema Corte,
dichiarando il ricorso inammissibile, ha affermato che ciò che rileva ai fini
della individuazione del soggetto penalmente responsabile “non era tanto
accertare chi avesse la proprietà dell’animale, bensì chi di costoro, in quel
contesto temporale, avesse condotto il pastore tedesco in luogo pubblico senza
adottare le necessarie cautele (leggasi: senza tenerlo al guinzaglio)”. A
prescindere, dunque, dalle questioni sulla proprietà dell’animale, è chi lo
porta a spasso in luoghi pubblici a dover adottare tutte le cautele ed, in caso
di incidente, a risponderne. Suprema Corte di Cassazione, Sezione
Quarta Penale, sentenza n.43390/2007 LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Udienza pubblica del 03/10/2007 Sentenza n. 1424 R.G.N. 19930/2003
SENTENZA visti
gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso, udita
IN PUBBLICA UDIENZA la relazione svolta dal Consigliere Dott. MARINI LIONELLO, sentite
le conclusioni del Procuratore Generale, Dott. SANTI CONSOLO, il quale ha
chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, sentite le conclusioni del
difensore della parte civile Sciarretta Mario, AVV. SCALISE GAETANO del Foro di
Roma, il quale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso e condannarsi il
ricorrente alla rifusione delle spese di P.C, sentite
le conclusioni del difensore del ricorrente, AVV. ANDRIANI RICCARDO del Foro di
Roma, il quale ha chiesto l’annullamento della sentenza impugnata. Assolveva
invece V. G. dallo stesso reato, a lei contestato come commesso in cooperazione
colposa con il coimputato (art.113 c.p.) per non avere commesso il fatto. < P per>Avverso la suddetta sentenza proponevano appello la parte civile -
la quale chiedeva la condanna anche della V. al risarcimento dei danni ed
all’assegnazione di una provvisionale - e l’imputato S. M.. Quest’ultimo
faceva richiesta di assoluzione per difetto di prova del fatto che il cane
avesse urtato lo S. e lo avesse fatto cadere, e per essere comunque provato che
l’animale non era di proprietà dell’imputato, bensì della V.; formulava,
inoltre, richieste subordinate attinenti il giudizio di comparazione delle
circostanze, l’entità e la specie della pena irrogata, la mancata applicazione,
comunque, della pena della multa in via sostitutiva ed, infine, la concessa
provvisionale, della quale chiedeva la revoca, o la sospensione o la riduzione
nel quantum. I
secondi giudici affermavano che non erano emersi nei due gradi di giudizio
elementi che inducessero "a ritenere che non fu il cane del prevenuto ad
urtare lo S. ed a farlo cadere", essendo attendibile la deposizione
testimoniale della persona offesa e, del resto, non apparendo "pensabile
che la parte lesa medesima, nello stato di shock derivategli (sic) dal grave infortunio occorsogli (sic) e dal dolore che lo stesso comportava, fosse nelle
condizioni di architettare una falsa attribuzione dell’incidente al
comportamento cane (sic) dello S."; lo stesso
accorrere di quest’ultimo sul luogo dell’incidente, ove ancora si trovava il
cane, costituiva un importante riscontro alle affermazioni della persona
offesa. Inoltre,
la rivendicazione della proprietà dell’animale cane spontaneamente operata da
parte dell’imputato nell’immediatezza dell’evento non era superabile - non
vedendosi per quale ragione il prevenuto avrebbe dovuto attribuirsi la
proprietà del medesimo, ove non suo - sulla base delle conversazioni intercorse
tra questi e la V. durante il trasporto dello S. in ospedale né delle prodotte
fotografie dell’animale nell’abitazione della donna, dimostrative unicamente
del fatto che costei lo teneva talora presso di sé, e d’altra parte se la
coimputata aveva, pochi giorni dopo la verificazione dell’incidente, fatto
iscrivere il cane al proprio nome, era attendibile la versione di costei di
averlo fatto solo perché lo S. aveva manifestato l’intenzione di disfarsi
dell’animale e perché il padre l’aveva invitata a registrare l’animale onde
evitare di incorrere in violazioni di legge. Atteso
che lo S. aveva riportato lesioni dalle quali era derivato un indebolimento
permanente della mano sinistra, non v’era motivo di revocare la provvisionale
assegnata, ampiamente giustificata. La
Corte territoriale rigettava, infine, per le sopra esposte ragioni, l’appello
della parte civile. <>Con un secondo motivo il ricorrente ha dedotto
che la motivazione resa é soltanto apparente ed è incorsa in una
"immutazione del vero", non avendo lo S. mai affermato che il cane
fosse di sua proprietà. Una
terza censura, intestata alla violazione dell’art. 62 c.p.p. e connessa a
quella che precede, concerne l’avvenuta utilizzazione di un elemento (unico
posto a base dell’affermazione di responsabilità), costituito dalle asserite
dichiarazioni autoaccusatone -rese dall’imputato mentre la persona offesa
sporgeva denuncia - sulle quali lo S. aveva deposto in dibattimento. Secondo
il ricorrente, tali dichiarazioni non potevano essere oggetto di testimonianza
a norma del citato art. 62 , sì da essere inutilizzabili nella specie. Da
ultimo, il ricorrente ha dedotto la prescrizione del reato, intervenuta nella
data dell’8 aprile 2003, nelle more del decorso del termine per proporre
ricorso. MOTIVI DELLA DECISIONE Rientra
indubbiamente nel novero dei motivi non consentiti quello con il quale il
ricorrente afferma apoditticamente di non avere mai ammesso di essere (stato)
il proprietario del pastore tedesco, in un contesto nel quale entrambi i
giudici di merito hanno valorizzato la testimonianza della persona offesa sul
fatto che lo Scoccia affermò, nella immediatezza dell’incidente, dopo essere
corso a prelevare l’animale che aveva appena cagionato la rovinosa caduta dello
S., di esserne il proprietario; dato fattuale, questo, che non illogicamente è
stato tratto anche dal comportamento tenuto dall’imputato nell’occasione e che
altrettanto non illogicamente è stato ritenuto, da ambo i giudici di merito,
tutt’altro che inficiato dalla successiva registrazione dell’animale
all’anagrafe canina effettuata, a circa dieci giorni di distanza, dalla
coimputata V. G.. Del
resto - osserva questa Corte - ciò che rilevava ai fini della individuazione
del soggetto penalmente responsabile non era tanto accertare chi, tra lo S. e
la V., avesse la proprietà dell’animale, bensì chi di costoro, in quel contesto
temporale, avesse condotto il pastore tedesco in luogo pubblico senza adottare
le necessarie cautele (leggasi: senza tenerlo al guinzaglio), ed il fatto così
come ricostruito dai giudici di merito ha condotto ad identificare, non
irrazionalmente, tale persona nell’odierno ricorrente. Al
riguardo, va osservato che l’assunto del ricorrente secondo cui la Corte
territoriale - nell’affermare che la persona offesa, nello stato in cui si
trovava a seguito dell’infortunio appena subito, non sarebbe stata di certo
nelle condizioni per architettare una falsa attribuzione dell’incidente al cane
dello S. - non avrebbe correttamente interpretato il motivo di appello con il
quale si era sostenuto, diversamente, che lo S., a causa dello stato suddetto,
poteva avere fatto confusione ed essere incorso in errore nella ricostruzione
dei fatti e delle responsabilità, non vale ad inficiare la motivazione volta a
sostenere l’attendibilità del deposto della persona offesa, posto che i secondi
giudici hanno risposto, nel modo sopra riportato, ad un motivo di appello con
il quale si contestava addirittura che fosse provata la circostanza che lo S.
fosse caduto a terra a seguito dell’urto con il pastore tedesco in questione,
ed atteso che la individuazione di colui il quale doveva rispondere della
condotta tenuta dal suddetto animale poggia anche su altri facta concludentia, relativi al comportamento tenuto
dallo S. nell’immediatezza del fatto. dictum normativo, soltanto ove le
dichiarazioni siano state rese in un procedimento in corso, il che palesemente
non si da nella fattispecie concreta qui in esame. Va richiamata, sul punto, la costante
giurisprudenza di legittimità secondo la quale l’ammissibilità della
testimonianza indiretta sulle dichiarazioni rese dall’imputato o dall’indagato
fuori del procedimento si desume a contrario dall’art. 62 c.p.p., che vieta la
deposizione laddove questa abbia per oggetto le sole dichiarazioni rese nel
corso del procedimento. Conseguentemente non é vietata la deposizione sulle
dichiarazioni, aventi anche contenuto confessorio, rese al di fuori della
specifica sede processuale a soggetti non preposti istituzionalmente a
raccogliere in forma tipica le dichiarazioni degli indagati o imputati, che
sono suscettibili di libero apprezzamento da parte del giudice di merito
(vedansi Cass. Sez. I, 26-2-2004, n. 25096, Alampi ed altro; Sez. V,
12-11-2003, n. 47739, P.M. in proc. Arena ed altri; Sez. I, 14-7-2003, n.
35422, Carella ed altri; Sez, VI, 7-5-2003, n. 29711, Cobo; Sez. VI, 9-12-2003,
n. 6085, n. 6085, la quale afferma, richiamando Corte cost. n. 237 del 1993,
che il divieto di cui all’art. 62 c.p. opera solo per le dichiarazioni rese
all’autorità giudiziaria, alla polizia giudiziaria e al difensore nell’ambito
dell’attività investigativa; Sez. II, 18-2-2000, n. 7255, Tomatore ed altri;
Sez. V, 5-11-1998, n. 2245, D’Angelo ed altro). error in iudicando vel
in procedendo della medesima, mentre non può ritenersi tale la denuncia di un
avvenimento successivo alla pronuncia di detto provvedimento. <>Si configura nella specie, invero, una
situazione sovrapponile a quella considerata dalle Sezioni Unite di questa
Corte nella sentenza 27-6-2001. n. 33542, Cavalera, nella quale è stato
affermato che è inammissibile il ricorso per cassazione proposto unicamente per
far valere la prescrizione maturata dopo la decisione impugnata e prima della
sua presentazione, privo di qualsiasi doglianza relativa alla medesima, in
quanto viola il criterio della specificità dei motivi enunciato nell’art.581,
lett.c) c.p.p. ed esula dai casi in relazione ai quali può essere proposto a
norma dell’art. 606 dello stesso codice.(La Corte, in motivazione, ha chiarito
che nella specie si è in presenza di un ricorso soltanto apparente e, pertanto,
inidoneo a instaurare il rapporto di impugnazione). <>Tanto più la irragionevolezza di una siffatta interpretazione è
manifesta ove si consideri che - del tutto significativamente anche per quanto
si è qui appena ritenuto e rilevato - le Sezioni Unite di questa Corte, nella
sentenza 22-3-2005, n. 23428, Bracale, hanno affermato che la inammissibilità
del ricorso per cassazione (nella specie, per assoluta genericità delle
doglianze), preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di
ufficio, ai sensi dell’art. 129 c.p,p., l’estinzione del reato per prescrizione
anche quando la suddetta causa estintiva sia maturata in data anteriore alla
pronunzia della sentenza di appello. Cosi deciso in Roma il 3 ottobre 2007. Da CittadinoLex.it |
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