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Corte di Cassazione 18/01/2008

Giurisprudenza di legittimità - Cani nei parchi sempre al guinzaglio

(Cassazione 43390/2007)

Chi porta a spasso gli animali in luoghi pubblici risponde dei danni causati a terzi

Portare il cane al parco senza guinzaglio può costare caro: se infatti l’animale fa male a qualcuno si rischia una condanna penale per lesioni. Lo ha stabilito la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione confermando una condanna per lesioni colpose gravi nei confronti di un quarantenne romano che aveva lasciato il proprio cane, un pastore tedesco, libero di scorrazzare nel parco di Villa Glori, e l’animale aveva causato la caduta di un ragazzo provocandogli lesioni permanenti alla mano. Per questo il Tribunale di Roma aveva condannato il padrone del cane ad un mese di reclusione con i benefici di legge. La Corte di Appello aveva successivamente rideterminato la pena in 100 euro di multa, revocando il beneficio della sospensione, e confermando nel resto la sentenza di primo grado. Contro tale decisione l’imputato aveva proposto ricorso in Cassazione, sostenendo, tra l’altro, che il cane non era suo ma di una signora che lo aveva successivamente registrato all’anagrafe canina. La Suprema Corte, dichiarando il ricorso inammissibile, ha affermato che ciò che rileva ai fini della individuazione del soggetto penalmente responsabile “non era tanto accertare chi avesse la proprietà dell’animale, bensì chi di costoro, in quel contesto temporale, avesse condotto il pastore tedesco in luogo pubblico senza adottare le necessarie cautele (leggasi: senza tenerlo al guinzaglio)”. A prescindere, dunque, dalle questioni sulla proprietà dell’animale, è chi lo porta a spasso in luoghi pubblici a dover adottare tutte le cautele ed, in caso di incidente, a risponderne.

Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quarta Penale, sentenza n.43390/2007

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

 

Udienza pubblica del 03/10/2007

Sentenza n. 1424

R.G.N. 19930/2003

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Marini LionelloPres. e Rel.
Dott. Campanato LionelloConsigliere
Dott. Bartolomei Graziana "
Dott. Brusco Carlo Giuseppe"
Dott. Piccialli Patrizia"

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da S. M., nato il 5/071967, avverso la sentenza emessa in data 27/1/2003 dalla CORTE D’APPELLO DI ROMA,

visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso,

udita IN PUBBLICA UDIENZA la relazione svolta dal Consigliere Dott. MARINI LIONELLO,

sentite le conclusioni del Procuratore Generale, Dott. SANTI CONSOLO, il quale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso, sentite le conclusioni del difensore della parte civile Sciarretta Mario, AVV. SCALISE GAETANO del Foro di Roma, il quale ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso e condannarsi il ricorrente alla rifusione delle spese di P.C,

sentite le conclusioni del difensore del ricorrente, AVV. ANDRIANI RICCARDO del Foro di Roma, il quale ha chiesto l’annullamento della sentenza impugnata.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza emessa il 24 settembre 2001 il giudice monocratico del Tribunale di Roma dichiarava S. M. responsabile del reato di lesioni colpose gravi [1] commesso il giorno 8 ottobre 1995 in danno di S. M. - caduto a terra mentre correva all’interno del parco di Villa Glori della capitale perché il cane (pastore tedesco) di proprietà dell’imputato gli aveva tagliato la strada e l’aveva assalito - e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche giudicate equivalenti alla contestata aggravante, lo condannava alla pena di un mese di reclusione, con ambo i benefici di legge, nonché al risarcimento dei danni cagionati alla persona offesa costituitasi parte civile, concedendo una provvisionale immediatamente esecutiva nella misura di lire 20.000.000.

Assolveva invece V. G. dallo stesso reato, a lei contestato come commesso in cooperazione colposa con il coimputato (art.113 c.p.) per non avere commesso il fatto.

< P per>Avverso la suddetta sentenza proponevano appello la parte civile - la quale chiedeva la condanna anche della V. al risarcimento dei danni ed all’assegnazione di una provvisionale - e l’imputato S. M..

Quest’ultimo faceva richiesta di assoluzione per difetto di prova del fatto che il cane avesse urtato lo S. e lo avesse fatto cadere, e per essere comunque provato che l’animale non era di proprietà dell’imputato, bensì della V.; formulava, inoltre, richieste subordinate attinenti il giudizio di comparazione delle circostanze, l’entità e la specie della pena irrogata, la mancata applicazione, comunque, della pena della multa in via sostitutiva ed, infine, la concessa provvisionale, della quale chiedeva la revoca, o la sospensione o la riduzione nel quantum.

La Corte d’appello di Roma , con sentenza emessa il 27 gennaio 2003, rideterminava la pena in 100 euro di multa, revocando il beneficio della sospensione, e confermava nel resto la sentenza impugnata.

I secondi giudici affermavano che non erano emersi nei due gradi di giudizio elementi che inducessero "a ritenere che non fu il cane del prevenuto ad urtare lo S. ed a farlo cadere", essendo attendibile la deposizione testimoniale della persona offesa e, del resto, non apparendo "pensabile che la parte lesa medesima, nello stato di shock derivategli (sic) dal grave infortunio occorsogli (sic) e dal dolore che lo stesso comportava, fosse nelle condizioni di architettare una falsa attribuzione dell’incidente al comportamento cane (sic) dello S."; lo stesso accorrere di quest’ultimo sul luogo dell’incidente, ove ancora si trovava il cane, costituiva un importante riscontro alle affermazioni della persona offesa.

Inoltre, la rivendicazione della proprietà dell’animale cane spontaneamente operata da parte dell’imputato nell’immediatezza dell’evento non era superabile - non vedendosi per quale ragione il prevenuto avrebbe dovuto attribuirsi la proprietà del medesimo, ove non suo - sulla base delle conversazioni intercorse tra questi e la V. durante il trasporto dello S. in ospedale né delle prodotte fotografie dell’animale nell’abitazione della donna, dimostrative unicamente del fatto che costei lo teneva talora presso di sé, e d’altra parte se la coimputata aveva, pochi giorni dopo la verificazione dell’incidente, fatto iscrivere il cane al proprio nome, era attendibile la versione di costei di averlo fatto solo perché lo S. aveva manifestato l’intenzione di disfarsi dell’animale e perché il padre l’aveva invitata a registrare l’animale onde evitare di incorrere in violazioni di legge.

Atteso che lo S. aveva riportato lesioni dalle quali era derivato un indebolimento permanente della mano sinistra, non v’era motivo di revocare la provvisionale assegnata, ampiamente giustificata.

La Corte territoriale rigettava, infine, per le sopra esposte ragioni, l’appello della parte civile.

<>Con un secondo motivo il ricorrente ha dedotto che la motivazione resa é soltanto apparente ed è incorsa in una "immutazione del vero", non avendo lo S. mai affermato che il cane fosse di sua proprietà.

Una terza censura, intestata alla violazione dell’art. 62 c.p.p. e connessa a quella che precede, concerne l’avvenuta utilizzazione di un elemento (unico posto a base dell’affermazione di responsabilità), costituito dalle asserite dichiarazioni autoaccusatone -rese dall’imputato mentre la persona offesa sporgeva denuncia - sulle quali lo S. aveva deposto in dibattimento.

Secondo il ricorrente, tali dichiarazioni non potevano essere oggetto di testimonianza a norma del citato art. 62 , sì da essere inutilizzabili nella specie.

Da ultimo, il ricorrente ha dedotto la prescrizione del reato, intervenuta nella data dell’8 aprile 2003, nelle more del decorso del termine per proporre ricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

I primi tre motivi posti a base di ricorso sono costituiti in parte da mere censure in punto di fatto, non consentite nella presente sede di legittimità, e per il resto da doglianze manifestamente infondate.

Rientra indubbiamente nel novero dei motivi non consentiti quello con il quale il ricorrente afferma apoditticamente di non avere mai ammesso di essere (stato) il proprietario del pastore tedesco, in un contesto nel quale entrambi i giudici di merito hanno valorizzato la testimonianza della persona offesa sul fatto che lo Scoccia affermò, nella immediatezza dell’incidente, dopo essere corso a prelevare l’animale che aveva appena cagionato la rovinosa caduta dello S., di esserne il proprietario; dato fattuale, questo, che non illogicamente è stato tratto anche dal comportamento tenuto dall’imputato nell’occasione e che altrettanto non illogicamente è stato ritenuto, da ambo i giudici di merito, tutt’altro che inficiato dalla successiva registrazione dell’animale all’anagrafe canina effettuata, a circa dieci giorni di distanza, dalla coimputata V. G..

Del resto - osserva questa Corte - ciò che rilevava ai fini della individuazione del soggetto penalmente responsabile non era tanto accertare chi, tra lo S. e la V., avesse la proprietà dell’animale, bensì chi di costoro, in quel contesto temporale, avesse condotto il pastore tedesco in luogo pubblico senza adottare le necessarie cautele (leggasi: senza tenerlo al guinzaglio), ed il fatto così come ricostruito dai giudici di merito ha condotto ad identificare, non irrazionalmente, tale persona nell’odierno ricorrente.

Al riguardo, va osservato che l’assunto del ricorrente secondo cui la Corte territoriale - nell’affermare che la persona offesa, nello stato in cui si trovava a seguito dell’infortunio appena subito, non sarebbe stata di certo nelle condizioni per architettare una falsa attribuzione dell’incidente al cane dello S. - non avrebbe correttamente interpretato il motivo di appello con il quale si era sostenuto, diversamente, che lo S., a causa dello stato suddetto, poteva avere fatto confusione ed essere incorso in errore nella ricostruzione dei fatti e delle responsabilità, non vale ad inficiare la motivazione volta a sostenere l’attendibilità del deposto della persona offesa, posto che i secondi giudici hanno risposto, nel modo sopra riportato, ad un motivo di appello con il quale si contestava addirittura che fosse provata la circostanza che lo S. fosse caduto a terra a seguito dell’urto con il pastore tedesco in questione, ed atteso che la individuazione di colui il quale doveva rispondere della condotta tenuta dal suddetto animale poggia anche su altri facta concludentia, relativi al comportamento tenuto dallo S. nell’immediatezza del fatto.

dictum normativo, soltanto ove le dichiarazioni siano state rese in un procedimento in corso, il che palesemente non si da nella fattispecie concreta qui in esame.

Va richiamata, sul punto, la costante giurisprudenza di legittimità secondo la quale l’ammissibilità della testimonianza indiretta sulle dichiarazioni rese dall’imputato o dall’indagato fuori del procedimento si desume a contrario dall’art. 62 c.p.p., che vieta la deposizione laddove questa abbia per oggetto le sole dichiarazioni rese nel corso del procedimento. Conseguentemente non é vietata la deposizione sulle dichiarazioni, aventi anche contenuto confessorio, rese al di fuori della specifica sede processuale a soggetti non preposti istituzionalmente a raccogliere in forma tipica le dichiarazioni degli indagati o imputati, che sono suscettibili di libero apprezzamento da parte del giudice di merito (vedansi Cass. Sez. I, 26-2-2004, n. 25096, Alampi ed altro; Sez. V, 12-11-2003, n. 47739, P.M. in proc. Arena ed altri; Sez. I, 14-7-2003, n. 35422, Carella ed altri; Sez, VI, 7-5-2003, n. 29711, Cobo; Sez. VI, 9-12-2003, n. 6085, n. 6085, la quale afferma, richiamando Corte cost. n. 237 del 1993, che il divieto di cui all’art. 62 c.p. opera solo per le dichiarazioni rese all’autorità giudiziaria, alla polizia giudiziaria e al difensore nell’ambito dell’attività investigativa; Sez. II, 18-2-2000, n. 7255, Tomatore ed altri; Sez. V, 5-11-1998, n. 2245, D’Angelo ed altro).

Quanto all’avvenuta deduzione, in ricorso, del fatto che il reato di lesioni volontarie in oggetto si è estinto per prescrizione dopo la pronuncia della sentenza della Corte territoriale ma in pendenza del termine per proporre la impugnazione, la Corte rileva quanto segue.

error in iudicando vel in procedendo della medesima, mentre non può ritenersi tale la denuncia di un avvenimento successivo alla pronuncia di detto provvedimento.

<>Si configura nella specie, invero, una situazione sovrapponile a quella considerata dalle Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza 27-6-2001. n. 33542, Cavalera, nella quale è stato affermato che è inammissibile il ricorso per cassazione proposto unicamente per far valere la prescrizione maturata dopo la decisione impugnata e prima della sua presentazione, privo di qualsiasi doglianza relativa alla medesima, in quanto viola il criterio della specificità dei motivi enunciato nell’art.581, lett.c) c.p.p. ed esula dai casi in relazione ai quali può essere proposto a norma dell’art. 606 dello stesso codice.(La Corte, in motivazione, ha chiarito che nella specie si è in presenza di un ricorso soltanto apparente e, pertanto, inidoneo a instaurare il rapporto di impugnazione).

<>Tanto più la irragionevolezza di una siffatta interpretazione è manifesta ove si consideri che - del tutto significativamente anche per quanto si è qui appena ritenuto e rilevato - le Sezioni Unite di questa Corte, nella sentenza 22-3-2005, n. 23428, Bracale, hanno affermato che la inammissibilità del ricorso per cassazione (nella specie, per assoluta genericità delle doglianze), preclude ogni possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ai sensi dell’art. 129 c.p,p., l’estinzione del reato per prescrizione anche quando la suddetta causa estintiva sia maturata in data anteriore alla pronunzia della sentenza di appello.

Per le ragioni che precedono il ricorso va dichiarato inammissibile ed il ricorrente S. M. va condannato al pagamento delle spese processuali ed al versamento, in favore della Cassa delle ammende (ricorrendone ictu oculi i presupposti ex art. 616 c.p.p. così come da leggersi alla luce della sentenza della Corte costituzionale 13 giugno 2000, n. 186), di una somma che va congruamente determinata in euro 1000, nonché a rifondere alla parte civile costituita S. M. le spese da questa sostenute per il presente grado di giudizio, spese che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 in favore della casa delle ammende, nonché a rifondere alla parte civile S. M. le spese da questa sostenute per il presente grado di giudizio, spese che liquida in complessivi euro 2250, oltre spese generali, IVA e C.P.A., come per legge.


Cosi deciso in Roma il 3 ottobre 2007.
Il Presidente estensore
Depositata in cancelleria il 23 novembre 2007.
Da CittadinoLex.it


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Venerdì, 18 Gennaio 2008
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