Con carattere ciclico, all’attenzione del Supremo Collegio, vengono sottoposte doglianze in materia cautelare, aventi ad oggetto la congruità della motivazione addotta dal giudice investito del problema de libertate. Nella fattispecie, a simile, ed ormai endemica quaestio, si aggiunge un ulteriore profilo di doglianza riguardante l’applicabilità (seppur in rapporto alla prospettiva cautelare) dell’indulto di cui alla L. 241 del 31 Luglio 2006, rispetto al reato di cui all’art. 73 dpr 309/90 originariamente aggravato ai sensi dell’art. 80 comma 2° T.U.S. Va detto, prioritariamente a qualsivoglia altra osservazione, che la soluzione adottata dalla Corte di legittimità pur apparendo – sul piano formale – assolutamente ineccepibile in relazione ad entrambe le perplessità avanzate dalla difesa e conforme al costante orientamento giurisprudenziale maturato negli anni in proposito, tradisce, riguardo al tema della valutazione della motivazione, il normale imbarazzo che deriva dal limite di intervento angusto, stabilito dall’art. 606 c.p.p. Non è, infatti, per nulla casuale il richiamo che il Collegio di legittimità opera, ponendo, in modo chiaro ed inequivoco, in luce quali possano essere i margini di intervento in simili casi di specie, evidenziando come essi concernano solamente due ipotesi: la mancanza fisica della motivazione del provvedimento; la patente illogicità della stessa. Sul punto ex plurimis, va segnalato che la Sez. IV della Corte di Cassazione, (sentenza 26 febbraio 2002, n. 11551) ha precisato come in caso di assoluta mancanza della motivaizone, il potere di supplenza, riconosciuto al giudice di grado superiore, non può essere esercitato, dovendo la decisione limitarsi al rilievo della conseguente nullità, per violazione dell’art. 292, comma 2, lettera c) del codice di rito. In buona sostanza la vigente esegesi dell’art. 606 lett. e) c.p.p. permette in capo all’interprete una unica soluzione che consiste nel solo riconoscimento, in capo alla Corte, della sussistenza di poteri di verifica riguardante l’adeguatezza e la ineccepibilità formale della spiegazioni che il giudice di merito rende a sostegno del proprio provvedimento. Il giudice di legittimità rimane, così prigioniero di quell’atavica discrasia che vede come elementi tra loro irreparabilmente confliggenti, da un lato, il manifesto timore che il giudizio di cassazione divenga – in realtà – un terzo grado di merito mascherato da rito di legittimità e, dall’altro, la constatazione della efficacia meramente parziale dell’opera di controllo del giudice supremo, il quale, nel caso constati l’opinabilità di una decisione, non può, però, intervenire laddove il provvedimento rispecchi standard formali codicisticamente sanciti. Si tratta, quindi, di un eterno irrisolto conflitto sul piano orientativo. Questa impotente incertezza,
(risolta, peraltro, con significativa preferenza in favore di quella tesi che
si mostra preoccupata del rischio della creazione di un indebito terzo grado di
merito) finisce per riverberare effetti dirompenti in sede giurisdizionale,
atteso che prevale il profilo formale a scapito di quello sostanziale. Nessun tipo di critica o
dibattito, invece, suscita dalla parte della decisione che riguarda l’applicazione
dell’indulto. Indulto e reati concernenti gli
stupefacenti Il provvedimento che si
commenta, infatti, appare assolutamente coerente con una corretta e già, in
precedenza affermata, interpretazione del testo normativo concernente
l’istituto dell’indulto. Vale a dire che fulcro e
condicio preliminare era la valutazione discrezionale attribuita in concreto al
giudice, ritornandosi, quindi, al regime normativo invalso già con i
provvedimenti di clemenza n. 413/78, 744/81 ed 865/86. L’art. 3 co. 1 lett. b)
prevedeva, infatti, che l’indulto venisse escluso : “per i delitti previsti dai
seguenti articoli della legge 22 dicembre 1975, n. 685, recante disciplina
degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione
dei relativi stati di tossicodipendenza, nel testo in vigore precedentemente
alle modifiche di cui alla legge 26 giugno 1990, n. 162; 1) 71, commi primo, secondo e
terzo (attività illecite), ove applicate le circostanze aggravanti specifiche
di cui all’art. 74; 2) 75 (associazione per
delinquere). La disposizione di legge sopra
ricordata sanciva che l’operatività della norma, portante la causa estintiva
della pena, era esclusivamente collegata all’esercizio del potere di
valutazione discrezionale del giudice. In tale contesto, dunque, il
giudice poteva fruire di tre opzioni che avrebbero potuto elidere l’effetto
negativo prodotto dalla contestazione dell’aggravante della ingente quantità: escludere la stessa 2. riconoscere la concedibilità delle attenuanti (le generiche di
cui all’art. 62 bis c.p. per esempio) ed addivenire al giudizio di prevalenza
delle stesse rispetto all’aggravante contestata, 3. riconoscere la concedibilità delle attenuanti (le generiche di cui
all’art. 62 bis c.p. per esempio) ed addivenire al giudizio di equivalenza
delle stesse rispetto all’aggravante contestata. Il ricorso a queste tre
soluzioni, pur esempio conclamato dell’esistenza di patenti differenze
metodologiche, avrebbe permesso al giudice di pervenire ad una pronunzia di
condanna che attiene esclusivamente l’ordinario reato di cui all’art. 73 d.p.r.
309/90. Il provvedimento di clemenza,
licenziato dal Parlamento la scorsa estate, invece, all’art. 2 lett. b),
invece, sancisce un carattere preciso riguardante il reato di cui dall’art. 73
d.p.r. 309/90, stabilendo che, allo scopo di verificare l’applicabilità del
beneficio, si debba avere riguardo al la tipologia di reato ed alla
qualificazione giuridica della condotta che risulti all’esito del giudizio. Nessun’altra interpretazione può
apparire ammissibile, atteso che il testo di legge afferma “per i
delitti riguardanti la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di
sostanze stupefacenti o psicotrope, di cui all’articolo 73 del testo unico
delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di
cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e
successive modificazioni, aggravati ai sensi dell’articolo 80, comma 1, lettera
a), e comma 2, del medesimo testo unico, nonché per il delitto di associazione
finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui
all’articolo 74 del citato testo unico, in tutte le ipotesi previste dai commi
1, 4 e 5 del medesimo articolo 74.....”. Balza all’occhio, in tutta
evidenza, infatti, la considerazione che il legislatore ha – come detto - posto
la propria attenzione sul risultato cui il magistrato perviene, a seguito della
delibazione propria del giudizio, in ordine alla prospettazione accusatoria. Quest’ultimo è, infatti, il
parametro in base al quale escludere od ammettere il condannato all’esecutività
della causa di estinzione della pena, in disamina. Detta valutazione, però, appare molto
più limitata e circoscritta rispetto al provvedimento del 1990, in quanto il
giudice è facultizzato ad applicare l’indulto solo se, all’esito del giudizio, egli
si trovi in condizione di escludere oggettivamente la sussistenza e
configurabilità dell’aggravante. Non sono, quindi, ammesse quelle
alchimie processuali – frutto di giudizi di bilanciamento fra opposte
circostanze – che (come più volte sostenuto) avevano caratterizzato il
precedente provvedimento di clemenza. Per converso, però, non pare neppure
possibile escludere l’accesso del condannato al beneficio del condono, in forza
dell’ammissione di un principio di fissità dell’imputazione, sì che
l’originaria contestazione della circostanza aggravante dell’ingente quantità
possa resistere e permanere anche in presenza di risultanze procedimentali che ne
escludano la configurabilità. Le osservazioni che precedono
permettono di ribadire che il legislatore ha, dunque, prestato attenzione non
già ai fattori iniziali dell’operazione giuridica svolta attraverso il
processo, quanto piuttosto ha privilegiato il risultato finale, storico e di
merito, che dall’operazione è derivato. La ragione di questa scelta
distintiva è di facile e pronta intuizione. Essa deriva, infatti, senza
dubbio alcuno, da un’evidente necessità di sottolineare sia l’oggettiva gravità,
che il rilevante allarme sociale che taluni delitti suscitano. Appare, quindi, opportuno,
necessario e conforme a criteri oggettivi di politica criminale, la scelta di attribuire
a condotte, che per loro caratteri intrinseci, si pongono a livello apicale in
una ipotetica scala di rilevanza criminosa, una sanzionabilità differenziata e
di maggior severità, pervenendo, in pari tempo, all’esclusione di tali fatti-reati
da benefici che potrebbero privare la pena di quella valenza anche retributiva,
che in casi del genere, non si può ipocritamente eludere. In buona sostanza la causa di
estinzione della pena, manifestazione di un perdono condizionato, che lo Stato
riconosce naturalmente con il provvedimento di indulto e che comporta una importante
forma di compressione e riduzione, in termini temporali, della sanzione che
dovrebbe essere espiata in concreto dal condannato, ovviamente deve essere
orientato e deve attingere reati che – ritenuti all’esito del giudizio –
rientrino in fasce di modesta gravità, dovendosi, pertanto, escludere quelli
come l’ipotesi in oggetto che, invece, si situa a livelli massimi. Come già affermato in altra
occasione, in una simile ottica, quindi, soffermarsi sulla struttura del reato
e sulla sua qualificazione giuridica, così come risultante all’esito del
giudizio, e considerare la stessa nel suo aspetto originale, cioè in maniera
distinta ed avulsa dal temperamento che può derivare dalla concessione di
attenuanti, significa a parere di chi scrive – come ha riaffermato la S.C. – privilegiare
giustamente e correttamente il profilo sostanziale della condotta, rispettando,
pertanto, lo spirito della norma. *Avvocato in Rimini e consulente
Asaps ** ** ** SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri
Magistrati: Dott. BRUSCO Carlo G. –
Presidente ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da Q.S.,
nato il ..., avverso l’ordinanza del 16/11/2006 del Tribunale della Libertà di
Bologna; MOTIVI DELLA DECISIONE 1.1 Con ordinanza del 16
novembre 2006 il Tribunale di Bologna, sezione impugnazioni cautelari penali,
rigettava l’appello proposto da Q.S. avverso l’ordinanza della Corte d’appello
in data 13 ottobre 2006, che aveva respinto la richiesta di sostituzione con
gli arresti domiciliari della misura custodiale in carcere. In tale contesto la difesa aveva
nuovamente chiesto la revoca o la sostituzione in forma domiciliare della
custodia carceraria, richiesta valutata negativamente dalla Corte d’appello in
data 13 ottobre 2006 con il provvedimento impugnato innanzi al Tribunale di
Bologna. Segnala sul punto il ricorrente
che il Giudice di legittimità, anche a sezioni unite, ha invece ripetutamente
statuito che, quando un’attenuante sia ritenuta prevalente su un’aggravante,
questa debba ritenersi tamquam non esset. 2.2 Al riguardo merita anzitutto
evidenziare che, come esposto innanzi, la richiesta di revoca o di sostituzione
della custodia carceraria con quella domiciliare, valutata negativamente dal
giudice di merito con la decisione oggetto della presente impugnazione,
costituiva reiterazione di altra già avanzata alla Corte d’appello e da questa
rigettata con provvedimento ormai divenuto "definitivo" a seguito
della declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto contro l’ordinanza
del tribunale della libertà che l’aveva confermato (sentenza n. 8978 del 2007).
In tale contesto torna utile allora ribadire che, come ripetutamente statuito
da questo Supremo Collegio, "in materia di misure cautelari personali, una
preclusione processuale (il cosiddetto giudicato cautelare) è suscettibile di
formarsi a seguito delle pronunzie emesse, all’esito del procedimento
incidentale di impugnazione, dalla Corte di Cassazione ovvero dal tribunale in
sede di riesame o di appello, avverso le ordinanze in tema di misure
cautelari", con la precisazione che trattasi di preclusione avente
"una portata più modesta rispetto a quella determinata dalla cosa
giudicata sia perché è limitata allo stato degli atti, sia perché non copre
anche le questioni deducibili, ma soltanto le questioni dedotte, implicitamente
o esplicitamente, nei procedimenti di impugnazione" e che essa va in ogni
caso apprezzata alla luce di quanto previsto dall’art. 299 cod. proc. pen.,
commi 1 e 2, norma che, come evidenziato innanzi, attribuisce alle misure
cautelari una precisa connotazione dinamica, in vista del costante adeguamento
dei provvedimenti de liberiate agli sviluppi investigativi e alla persistenza
delle esigenze cautelari (confr. Cass. pen., sez. 1^, 27 ottobre 2004, n.
45379). 2.3 L’applicazione degli esposti
principi giurisprudenziali, ai quali il collegio intende aderire, consente di
ritenere la sostanziale sovrapponibilità degli elementi di valutazione della
allegata attenuazione delle esigenze cautelari, dedotti in questo procedimento,
con quelli fatti valere nel precedente giudizio, ormai esaurito, ragione da
sola sufficiente a giustificare il rigetto delle censure volte a contestare la
sussistenza del pericolo di fuga. Non sembra peraltro inutile
precisare che in ogni caso il giudizio di insufficienza del preteso radicamento
sul territorio del ricorrente e della durata della carcerazione presofferta a
scongiurare i pericoli di fuga, formulato dal giudice di merito, appare
sorretto da considerazioni niente affatto implausibili sulla scarsa
significanza di quegli elementi e sulla complessiva entità del debito espiativo,
di modo che la relativa valutazione, in quanto congruamente motivata, sfugge al
sindacato del giudice di legittimità. 2.4 Benché l’apprezzamento di
cui innanzi sia stato, ad abundantiam, espresso anche con riguardo all’ipotesi
che il Q. possa fruire dell’indulto, la Corte ritiene di dover precisare che il
motivo volto a far valere l’applicabilità al ricorrente della L. n. 241 del
2006, e quindi la necessità di riparametrare il calcolo della pena residua
sugli effetti del condono e’ in ogni caso destituito di fondamento. Al riguardo è sufficiente
rilevare che l’art. 1, comma 2, lett. b) della predetta legge esclude
l’applicabilità dell’indulto "per i delitti riguardanti la produzione, il
traffico e la detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o psicotrope ... di
cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 390 ... aggravati ai sensi dell’art. 80, comma
1, lett. a) e comma 2, del medesimo testo unico", con formula chiaramente
volta a stabilire una esclusione quoad titulum, sganciata cioè dagli esiti di
un eventuale giudizio di comparazione. Convalida tale convincimento il
raffronto con il diverso tenore del D.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394, art. 3,
che si limitava a sancire l’inapplicabilità del beneficio alle pene per i
delitti previsti dall’art. 71, commi 1, 2 e 3, "ove applicate le
circostanze aggravanti specifiche di cui all’art. 74": espressione,
questa, che col suo trasparente riferimento all’esito del giudizio di
comparazione, indusse il Supremo Collegio ad affermare, dopo qualche incertezza
(Cass. n. 2727 del 1991), che il beneficio poteva essere riconosciuto laddove
le attenuanti soverchiassero, nel bilanciamento, ex art. 69 cod. pen., la
aggravanti ostative (Cass. n. 2966 del 1991). In tale contesto il rigetto del
ricorso si impone dunque, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento
delle spese processuali. P.Q.M. La Corte di Cassazione rigetta
il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. La Corte dispone inoltre che
copia del presente provvedimento sia trasmesso al Direttore dell’Istituto
Penitenziario di competenza perché provveda a quanto stabilito nella L. 8
agosto 1995, n. 332, art. 23, comma 1 bis. Così deciso in Roma, nella
Camera di consiglio, il 26 giugno 2007. Depositato in Cancelleria il 28
settembre 2007 |
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