Foto dalla rete Con
carattere ciclico, all’attenzione del Supremo Collegio, vengono sottoposte
doglianze in materia cautelare, aventi ad oggetto la congruità della
motivazione addotta dal giudice investito del problema de libertate. Questa impotente incertezza, (risolta, peraltro, con
significativa preferenza in favore di quella tesi che si mostra preoccupata del
rischio della creazione di un indebito terzo grado di merito) finisce per
riverberare effetti dirompenti in sede giurisdizionale, atteso che prevale il
profilo formale a scapito di quello sostanziale. Nessun tipo di critica o dibattito, invece, suscita dalla
parte della decisione che riguarda l’applicazione dell’indulto. Indulto e reati concernenti gli stupefacenti Il provvedimento che si commenta, infatti, appare
assolutamente coerente con una corretta e già, in precedenza affermata,
interpretazione del testo normativo concernente l’istituto dell’indulto. Vale a dire che fulcro e condicio preliminare era la
valutazione discrezionale attribuita in concreto al giudice, ritornandosi,
quindi, al regime normativo invalso già con i provvedimenti di clemenza n.
413/78, 744/81 ed 865/86. L’art. 3 co. 1 lett. b) prevedeva, infatti, che l’indulto
venisse escluso : “per i delitti previsti dai seguenti articoli della legge
22 dicembre 1975, n. 685, recante disciplina degli stupefacenti e sostanze
psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza, nel testo in vigore precedentemente alle modifiche di cui
alla legge 26 giugno 1990, n. 162; 1) 71, commi primo, secondo e terzo (attività illecite),
ove applicate le circostanze aggravanti specifiche di cui all’art. 74; 2) 75 (associazione per delinquere). La disposizione di legge sopra ricordata sanciva che
l’operatività della norma, portante la causa estintiva della pena, era
esclusivamente collegata all’esercizio del potere di valutazione discrezionale
del giudice. In tale contesto, dunque, il giudice poteva fruire di tre
opzioni che avrebbero potuto elidere l’effetto negativo prodotto dalla
contestazione dell’aggravante della ingente quantità: escludere la stessa 2. riconoscere la concedibilità delle attenuanti (le
generiche di cui all’art. 62 bis c.p. per esempio) ed addivenire al giudizio di
prevalenza delle stesse rispetto all’aggravante contestata, 3. riconoscere la concedibilità delle attenuanti (le
generiche di cui all’art. 62 bis c.p. per esempio) ed addivenire al giudizio di
equivalenza delle stesse rispetto all’aggravante contestata. Il ricorso a queste tre soluzioni, pur esempio conclamato
dell’esistenza di patenti differenze metodologiche, avrebbe permesso al giudice
di pervenire ad una pronunzia di condanna che attiene esclusivamente
l’ordinario reato di cui all’art. 73 d.p.r. 309/90. Il provvedimento di clemenza, licenziato dal Parlamento la
scorsa estate, invece, all’art. 2 lett. b), invece, sancisce un carattere
preciso riguardante il reato di cui dall’art. 73 d.p.r. 309/90, stabilendo che,
allo scopo di verificare l’applicabilità del beneficio, si debba avere riguardo
al la tipologia di reato ed alla qualificazione giuridica della condotta che
risulti all’esito del giudizio. Nessun’altra interpretazione può apparire ammissibile,
atteso che il testo di legge afferma “per i delitti riguardanti la
produzione, il traffico e la detenzione illeciti di sostanze stupefacenti o
psicotrope, di cui all’articolo 73 del testo unico delle leggi in materia di
disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e
riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del
Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni,
aggravati ai sensi dell’articolo 80, comma 1, lettera a), e comma 2, del
medesimo testo unico, nonché per il delitto di associazione finalizzata al
traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope di cui all’articolo 74
del citato testo unico, in tutte le ipotesi previste dai commi 1, 4 e 5 del
medesimo articolo 74.....”. Balza all’occhio, in tutta evidenza, infatti, la
considerazione che il legislatore ha – come detto - posto la propria attenzione
sul risultato cui il magistrato perviene, a seguito della delibazione propria
del giudizio, in ordine alla prospettazione accusatoria. Quest’ultimo è, infatti, il parametro in base al quale
escludere od ammettere il condannato all’esecutività della causa di estinzione
della pena, in disamina. Detta valutazione, però, appare molto più limitata e
circoscritta rispetto al provvedimento del 1990, in quanto il giudice è
facultizzato ad applicare l’indulto solo se, all’esito del giudizio, egli si
trovi in condizione di escludere oggettivamente la sussistenza e
configurabilità dell’aggravante. Non sono, quindi, ammesse quelle alchimie processuali –
frutto di giudizi di bilanciamento fra opposte circostanze – che (come più
volte sostenuto) avevano caratterizzato il precedente provvedimento di clemenza. Per converso, però, non pare neppure possibile escludere
l’accesso del condannato al beneficio del condono, in forza dell’ammissione di
un principio di fissità dell’imputazione, sì che l’originaria contestazione
della circostanza aggravante dell’ingente quantità possa resistere e permanere
anche in presenza di risultanze procedimentali che ne escludano la
configurabilità. Le osservazioni che precedono permettono di ribadire che il
legislatore ha, dunque, prestato attenzione non già ai fattori iniziali
dell’operazione giuridica svolta attraverso il processo, quanto piuttosto ha
privilegiato il risultato finale, storico e di merito, che dall’operazione è derivato. La ragione di questa scelta distintiva è di facile e pronta
intuizione. Essa deriva, infatti, senza dubbio alcuno, da un’evidente
necessità di sottolineare sia l’oggettiva gravità, che il rilevante allarme
sociale che taluni delitti suscitano. Appare, quindi, opportuno, necessario e conforme a criteri
oggettivi di politica criminale, la scelta di attribuire a condotte, che per
loro caratteri intrinseci, si pongono a livello apicale in una ipotetica scala
di rilevanza criminosa, una sanzionabilità differenziata e di maggior severità,
pervenendo, in pari tempo, all’esclusione di tali fatti-reati da benefici che
potrebbero privare la pena di quella valenza anche retributiva, che in casi del
genere, non si può ipocritamente eludere. In buona sostanza la causa di estinzione della pena,
manifestazione di un perdono condizionato, che lo Stato riconosce naturalmente
con il provvedimento di indulto e che comporta una importante forma di
compressione e riduzione, in termini temporali, della sanzione che dovrebbe
essere espiata in concreto dal condannato, ovviamente deve essere orientato e
deve attingere reati che – ritenuti all’esito del giudizio – rientrino in fasce
di modesta gravità, dovendosi, pertanto, escludere quelli come l’ipotesi in
oggetto che, invece, si situa a livelli massimi. Come già affermato in altra occasione, in una simile
ottica, quindi, soffermarsi sulla struttura del reato e sulla sua
qualificazione giuridica, così come risultante all’esito del giudizio, e
considerare la stessa nel suo aspetto originale, cioè in maniera distinta ed
avulsa dal temperamento che può derivare dalla concessione di attenuanti,
significa a parere di chi scrive – come ha riaffermato la S.C. – privilegiare
giustamente e correttamente il profilo sostanziale della condotta, rispettando,
pertanto, lo spirito della norma. *Avvocato in Rimini e consulente Asaps ** ** ** SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE REPUBBLICA ITALIANA Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BRUSCO Carlo G. – Presidente ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da Q.S., nato il ..., avverso
l’ordinanza del 16/11/2006 del Tribunale della Libertà di Bologna; MOTIVI DELLA DECISIONE 1.1 Con ordinanza del 16 novembre 2006 il Tribunale di
Bologna, sezione impugnazioni cautelari penali, rigettava l’appello proposto da
Q.S. avverso l’ordinanza della Corte d’appello in data 13 ottobre 2006, che
aveva respinto la richiesta di sostituzione con gli arresti domiciliari della
misura custodiale in carcere. In tale contesto la difesa aveva nuovamente chiesto la
revoca o la sostituzione in forma domiciliare della custodia carceraria,
richiesta valutata negativamente dalla Corte d’appello in data 13 ottobre 2006
con il provvedimento impugnato innanzi al Tribunale di Bologna. Segnala sul punto il ricorrente che il Giudice di
legittimità, anche a sezioni unite, ha invece ripetutamente statuito che,
quando un’attenuante sia ritenuta prevalente su un’aggravante, questa debba
ritenersi tamquam non esset. 2.2 Al riguardo merita anzitutto evidenziare che, come
esposto innanzi, la richiesta di revoca o di sostituzione della custodia
carceraria con quella domiciliare, valutata negativamente dal giudice di merito
con la decisione oggetto della presente impugnazione, costituiva reiterazione
di altra già avanzata alla Corte d’appello e da questa rigettata con
provvedimento ormai divenuto "definitivo" a seguito della
declaratoria di inammissibilità del ricorso proposto contro l’ordinanza del
tribunale della libertà che l’aveva confermato (sentenza n. 8978 del 2007). In
tale contesto torna utile allora ribadire che, come ripetutamente statuito da
questo Supremo Collegio, "in materia di misure cautelari personali, una
preclusione processuale (il cosiddetto giudicato cautelare) è suscettibile di
formarsi a seguito delle pronunzie emesse, all’esito del procedimento
incidentale di impugnazione, dalla Corte di Cassazione ovvero dal tribunale in
sede di riesame o di appello, avverso le ordinanze in tema di misure
cautelari", con la precisazione che trattasi di preclusione avente
"una portata più modesta rispetto a quella determinata dalla cosa giudicata
sia perché è limitata allo stato degli atti, sia perché non copre anche le
questioni deducibili, ma soltanto le questioni dedotte, implicitamente o
esplicitamente, nei procedimenti di impugnazione" e che essa va in ogni
caso apprezzata alla luce di quanto previsto dall’art. 299 cod. proc. pen.,
commi 1 e 2, norma che, come evidenziato innanzi, attribuisce alle misure
cautelari una precisa connotazione dinamica, in vista del costante adeguamento
dei provvedimenti de liberiate agli sviluppi investigativi e alla persistenza
delle esigenze cautelari (confr. Cass. pen., sez. 1^, 27 ottobre 2004, n.
45379). 2.3 L’applicazione degli esposti principi
giurisprudenziali, ai quali il collegio intende aderire, consente di ritenere
la sostanziale sovrapponibilità degli elementi di valutazione della allegata
attenuazione delle esigenze cautelari, dedotti in questo procedimento, con
quelli fatti valere nel precedente giudizio, ormai esaurito, ragione da sola
sufficiente a giustificare il rigetto delle censure volte a contestare la
sussistenza del pericolo di fuga. Non sembra peraltro inutile precisare che in ogni caso il
giudizio di insufficienza del preteso radicamento sul territorio del ricorrente
e della durata della carcerazione presofferta a scongiurare i pericoli di fuga,
formulato dal giudice di merito, appare sorretto da considerazioni niente
affatto implausibili sulla scarsa significanza di quegli elementi e sulla
complessiva entità del debito espiativo, di modo che la relativa valutazione,
in quanto congruamente motivata, sfugge al sindacato del giudice di legittimità. 2.4 Benché l’apprezzamento di cui innanzi sia stato, ad
abundantiam, espresso anche con riguardo all’ipotesi che il Q. possa fruire
dell’indulto, la Corte ritiene di dover precisare che il motivo volto a far
valere l’applicabilità al ricorrente della L. n. 241 del 2006, e quindi la
necessità di riparametrare il calcolo della pena residua sugli effetti del
condono e’ in ogni caso destituito di fondamento. Al riguardo è sufficiente rilevare che l’art. 1, comma 2,
lett. b) della predetta legge esclude l’applicabilità dell’indulto "per i
delitti riguardanti la produzione, il traffico e la detenzione illeciti di
sostanze stupefacenti o psicotrope ... di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 390
... aggravati ai sensi dell’art. 80, comma 1, lett. a) e comma 2, del medesimo
testo unico", con formula chiaramente volta a stabilire una esclusione
quoad titulum, sganciata cioè dagli esiti di un eventuale giudizio di
comparazione. Convalida tale convincimento il raffronto con il diverso tenore
del D.P.R. 22 dicembre 1990, n. 394, art. 3, che si limitava a sancire
l’inapplicabilità del beneficio alle pene per i delitti previsti dall’art. 71,
commi 1, 2 e 3, "ove applicate le circostanze aggravanti specifiche di cui
all’art. 74": espressione, questa, che col suo trasparente riferimento
all’esito del giudizio di comparazione, indusse il Supremo Collegio ad
affermare, dopo qualche incertezza (Cass. n. 2727 del 1991), che il beneficio
poteva essere riconosciuto laddove le attenuanti soverchiassero, nel
bilanciamento, ex art. 69 cod. pen., la aggravanti ostative (Cass. n. 2966 del
1991). In tale contesto il rigetto del ricorso si impone dunque,
con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. La Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna il
ricorrente al pagamento delle spese processuali. La Corte dispone inoltre che copia del presente
provvedimento sia trasmesso al Direttore dell’Istituto Penitenziario di
competenza perché provveda a quanto stabilito nella L. 8 agosto 1995, n. 332,
art. 23, comma 1 bis. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26
giugno 2007. Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2007 |
|
|
© asaps.it |