La coltivazione domestica di
cannabis è reato, anche se si tratta di piccole quantità. Lo ha stabilito la
Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione con una inversione di rotta
rispetto alla recente pronuncia (la n. 40362/2007) che
aveva considerato lecita la coltivazione di cannabis per uso ornamentale. La
Cassazione ha confermato la condanna inflitta dalla Corte di Appello di Messina
ad una signora che aveva coltivato sul balcone della propria abitazione otto
piantine di cannabis, in base a quanto sancito dal referendum, che ha reso
penalmente lecita solo la detenzione, ed alle norme dettate dalla legge Fini –
Giovanardi. La Suprema Corte ha infatti chiarito è perseguibile penalmente la
coltivazione sul balcone di casa anche di una sola piantina di marijuana,
indipendentemente dalle sue caratteristiche droganti, ritenendo che la coltivazione
non autorizzata di piante, dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti o
psicotrope, costituisce un reato di pericolo presunto o astratto essendo punito
per il fatto della coltivazione, senza che per l’integrazione del reato sia
necessario individuare l’effettivo grado di tossicità della pianta e senza che
occorra fare riferimento alcuno alla sostanza stupefacente che da essa si può
trarre e che può dipendere da circostanze contingenti, connesse alla sua
crescita, al suo sviluppo ed alla sua maturazione: “la coltivazione di canapa
indiana va sanzionata indipendentemente dall’ampiezza del numero di piante
contenenti sostanze tossiche” in quanto “assolutamente vietata”. Anche se si
tratta di una sola piantina sul balcone di casa. (23 gennaio 2008)
Suprema Corte di Cassazione, Sezione Quarta Penale, sentenza n.871/2008
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
QUARTA SEZIONE PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. Campanato Graziana Presidente
1. Dott. Iacompino Silvana Giovanna consigliere
2. Dott. Licari Carlo consigliere
3. Dott. Bernardini Sergio Consigliere
4. dott. Amendola Adelaide Consigliere
Ha pronunciato la seguente
SENTENZA/ORDINANZA
Sul ricorso proposto da:
1) C. A. L. nata il 27/11/1964
Avverso sentenza del 09/11/2004
CORTE APPELLO di MESSINA
VISTI gli atti, la sentenza ed il ricorso
UDITA in Pubblica Udienza la relazione fatta dal consigliere LICARI CARLO UDITO il procuratore Generale in
persona del Dott. Mario Iannelli
Che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso
UDITO per la parte civile l’Avv.
UDITO i difensori Avv.
OSSERVA
La corte di Appello di Messina, investita dell’impugnazione proposta
dall’imputata C.A.L. contro la sentenza con la quale era stata dichiarata
colpevole del reato di coltivazione di n. 8 piantine di canapa indiana e condannata,
ritenute l’ipotesi del fatto di lieve entità e le attenuanti generiche, alla
pena ritenuta di giustizia, decideva di confermare quella resa in primo grado.
Avverso tale sentenza l’imputata, per mezzo del difensore, proponeva ricorso
per cassazione, adducendo erronea applicazione del D.P.R.
n. 309 del 1990 [1]con riferimento alla ritenuta rilevanza penale
della condotta contestata di coltivazione domestica di un esiguo numero di
piantine di canapa indiana, tuttavia destinata al consumo personale.
Trattasi di motivo infondato.
Preliminarmente, deve essere
puntualizzato che la coltivazione riguardava, come accertato dai giudici di
merito, n. 8 piantine di specie cannabis indica, piantata in aiuola presente
nel balcone della casa di abitazione dell’imputata, il cui accertato principio
attivo (il tetraidrocannabinolo), inserito nella tabella II, allegata al D.P.R.
n. 309/1990, avrebbe consentito di ricavare un numero di dosi compreso tra 28 e
43.
In ordine alla contestata rilevanza penale della condotta addebitata, va
osservato che, ai fini della ricostruzione della condotta medesima, occorre
fare riferimento al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26, che fissa il divieto di
coltivazione nel territorio dello Stato di piante di coca di qualsiasi specie,
di pianta di canapa indiana, di funghi allucinogeni e della specie di papavero
(papaver somniferum) da cui si ricava oppio grezzo (comma 1, prima parte),
nonché la possibilità di introdurre nell’elenco da parte del Ministero della
Sanità (ora Salute) di altre piante da cui possano ricavarsi sostanze
stupefacenti o psicotrope la cui coltivazione deve essere vietata (comma 2,
seconda parte).
L’art. 73 previgente del decreto citato, ma applicabile alla fattispecie, e il
cui contenuto non è stato modificato con la L. n. 49 del 2006, comma 3, prevede
poi espressamente tra le attività illecite, punibili penalmente, la
coltivazione delle suddette piante, tra cui quindi la canapa indiana,
precisandosi peraltro che già la L. n. 685 del 1975, art. 26 disponeva la
illiceità della coltivazione della canapa indiana, e che problemi
interpretativi erano sorti – prima della piu’ chiara ed ampia dizione dell’art.
26 e art. 73, comma 3, citato – solo per la punibilità degli altri tipi di
coltivazione.
La giurisprudenza costante – pur con alcune perplessità della dottrina – ha
costantemente ritenuto che la coltivazione non autorizzata di piante, dalle
quali sono estraibili sostanze stupefacenti o psicotrope, costituisce un reato
di pericolo presunto o astratto essendo punito ex se il fatto della
coltivazione, senza che per l’integrazione del reato sia necessario individuare
l’effettivo grado di tossicità della pianta e senza che occorra fare
riferimento alcuno alla sostanza stupefacente che da essa si può trarre e che
può dipendere da circostanze contingenti, connesse alla sua crescita, al suo
sviluppo ed alla sua maturazione: la figura criminosa è costruita, infatti,
come reato di pericolo, la cui sussistenza va, quindi, affermata ogni qualvolta
venga coltivata anche una sola piantina vitale ed idonea a produrre sostanza
stupefacente, appartenente ad una delle specie vietate, indipendentemente dalla
percentuale di sostanza pura o di principio attivo presente nelle infiorescenze
e nelle foglie (Cass. 15.11.2005 D’ambrosio; Cass. 11.3.1998, Pesce ed altro;
Cass. 7.11.1996, Garcea; Cass. 18.6.1993, Gagliardi).
Inoltre, come esattamente affermato nella inedita sentenza «Garcea» alla
valutazione che, trattandosi di reato di pericolo, la coltivazione di canapa
indiana sanzionata indipendentemente dall’ampiezza del numero di piante
contenenti sostanze tossiche (contrariamente a quanto sostenuto dai
ricorrenti), va aggiunta l’altra considerazione che il reato di pericolo tiene
conto di fattori inerenti alla realizzazione dell’attività criminosa che
prescindono anche dalle aspettative del suo autore. In particolare, nella
coltivazione di piante di canapa indiana, l’idoneità a produrre sostanze
droganti dipende anche da fattori causali di tempo e di luogo della piantagione.
Come poi ineccepibilmente ritenuto, in fattispecie analoga, relativamente alla
coltivazione di n. 4 piantine di canapa indiana, «la parziale abrogazione del
D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 72 e art. 75, comma 1, operata dal D.P.R. 5
giugno 1993, n. 171, che ha dato attuazione al risultato positivo della
consultazione referendaria, ha reso penalmente lecita la detenzione,
l’importazione e l’acquisto di sostanze stupefacenti, che sono le sole condotte
tassativamente previste dall’art. 75 citato, con conseguente impossibilità di
estendere tale liceità anche alla coltivazione delle droghe, assolutamente
vietata nel territorio dello Stato senza che possa assumere valore scriminante
l’uso personale della sostanza prodotta; il differente trattamento di tali
ipotesi deriva dalla maggior pericolosità ed offensività insita nell’essere la
coltivazione, la produzione e la fabbricazione attività rivolte alla creazione
di nuove disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione
delle droghe nel territorio nazionale e rischio per la pubblica salute ed
incolumità» cass. 30.5.2000 n. 4928; conformi cass. n. 913/1995, Cass.
3353/1994).
Ne deriva che, nella specie, le analisi interpretative dei giudici di merito,
sia di primo che di secondo grado, sono condivisibili, rispettano il dettato
normativo e sono conformi all’indirizzo giurisprudenziale di legittimità,
secondo il quale, in buona sintesi, l’attività di coltivazione, in base al
D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, come modificato dalla L. 21 febbraio
2006, n. 49 , art. 4 bis, comma 1, di conversione del D.L. 30 dicembre 2005, n.
272, è vietata e sanzionata penalmente, anche qualora la finalità dell’agente
sia di destinare il prodotto della coltivazione e consumo personale.
Al rigetto del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 c.p.p. la condanna della
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese
processuali.
Così deciso in Roma, all’udienza pubblica del giorno 28 novembre 2007.
Il consigliere Est. Il Presidente
DEPOSITATO IN CANCELLERIA
IL 10 GENNAIO 2008 Da Altalex.com
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