Ottomila
scatti archiviati dalla polizia negli anni Cinquanta e Sessanta recuperati e organizzati da un singolare libraio antiquario
ROMA - Una piccola,
grande, spaventosa e bellissima galleria criminale. Da ridere, da piangere e da
pensare. Ed è un po’ come se, con l’ideale partecipazione degli stracciaroli di
Roma, Andy Warhol, Duchamp, Lombroso e Pasolini si fossero dati appuntamento a
via della Reginella, ai confini del Ghetto, pochi passi dietro la Fontana delle
Tartarughe, nel laboratorio di Giuseppe Casetti, libraio proprietario di un
paio di vetrine intitolate "Museo del Louvre", ma specialmente
alchimista dell’immagine, capace dunque di trarre oro dalla materia più bassa -
e questa, ammesso che nella fotografia esistano graduatorie, non lo potrebbe
essere di più. S’intitola Identificazione la mostra, a cura di Achille Bonito Oliva, che nasce
dal ritrovamento, più o meno fortunoso, e dal riciclaggio artistico di circa
ottomila foto di questura scattate a Roma negli anni Cinquanta e Sessanta, con
propaggini forse anche nei primissimi Settanta. Materiale vario nella sua pur
necessitata disponibilità poliziesca: identikit di sicuri colpevoli, di
sospetti, di gente scomparsa nel nulla; foto segnaletiche eseguite dopo i
fermi, sia del tipo frontale sia di profilo ("le gemelle"); volti e
figure di esseri umani che i fotografi di San Vitale, sede della questura,
disponevano in posa lungo linee di valutazione antropometrica; immagini di
arresti come pure ostensione di arrestati da parte degli stessi poliziotti;
ritratti di personaggi da tenere o già tenuti sotto osservazione. Quindi le
foto dei corpi di reato, strumenti della violenza, attrezzi del mestiere dei
ladri e degli spacciatori di quel tempo, fantastici kit da scassinatori,
barattoli di marmellata pieni di cocaina; e infine le refurtive, dalle opere
d’arte agli alimentari, ammonticchiati in depositi spogli, autentici magazzini
del maltolto.
Nella collezione si trovano pezzi di repertorio che stringono il cuore, lampi
al magnesio sulla tragedia e la commedia di quell’Italia ormai irriconoscibile,
eppure eterna: dall’istantanea del truffatore che "all’interno di una
caverna naturale sita nei pressi del lago di Bracciano" illustra e si
prepara a vendere al merlo di turno il progetto di costruzione di un rifugio
anti-atomico, fino a un sorriso che nulla apparentemente ha a che fare con i
ceffi della raccolta questurina, allora giri la foto e: "Bambina
sconosciuta di circa dieci mesi trovata il 25 gennaio 1964 nella Chiesa della
Consolazione". Non tutte le immagini hanno la loro didascalia, scritta a penna,
con nome e cognome del soggetto e a volte i riferimenti al caso giudiziario.
Sono quasi tutti ignoti i personaggi ritratti. I travestiti incredibili di
quegli anni, una con la fascia, l’abituccio strizzato e la sigaretta accesa,
quasi appagata davanti all’obiettivo. Le maitresse dell’arcaica prostituzione
romana, le "ricottare", scure, grasse, con folte sopracciglia unite e
baffi, addirittura. Un gruppo di banditi che sembrano briganti dell’Ottocento,
esposti come un trofeo. Due arabi ripresi in costume da bagno a Ostia, felici e
ovviamente ignari del pedinamento ottico. Tra le mille facce ce n’è una,
invecchiata ma impassibile, di cui l’autorità di Ps non può fare a meno di
segnalare il soprannome, "Il Gallo", ed è impressionante la
somiglianza con l’orgoglioso pennuto che dà la sveglia alla campagna.
Migliaia di volti si affacciano dal cartellone che Giuseppe Casetti ha appeso
nel piccolo spazio espositivo, come officiando un rito di pietas. "I loro
sguardi ci confidano un dolore senza redenzione e non ci permettono di
soffermarci a guardarli - scrive nel catalogo - possiamo solo sbirciare quei
volti per non essere coinvolti nella tragicità dei loro percorsi emotivi".
Quello con il cerotto, segno di probabili percosse nelle camere di sicurezza.
La ragazza nera e sorridente in abito da sera, il giovane che avrà fatto la
classica stupidaggine e ora si trova nei guai, il finto buono con la cravatta,
tutto elegante, e quello che non vorresti mai incontrare da solo, di notte,
dietro l’angolo: brutta faccia, si diceva un tempo, faccia da galera.
Bene, ridotti ormai a carta da parati, tutti potrebbe addirittura salvarli
l’arte. Iperrealismo. Nuova oggettività tedesca. Scrive Achille Bonito Oliva:
"La galleria di furfanti sembra totalmente impostata sotto l’ottica di
un’unica poetica, la stessa adoperata da Warhol e basata sull’impersonalità,
sull’oggettività e sulla neutralità". Allo stesso modo si trasfigurano gli
utensili del crimine, fotografati "secondo un’ottica duchampiana del
ready-made, dell’oggetto bello e fatto che si trova ad avere una funzione
diversa rispetto a quella abituale: l’ascia che forse avrà decapitato una
persona; il martello che, invece di essere utilizzato per costruire un armadio,
avrà fracassato un cranio; il giravite che, invece di compiere un giro virtuoso
per sistemare una porta, avrà magari scassinato una banca; il paio di guanti
che, invece di proteggere le mani, sarà servito a non lasciare impronte".
Per non dire le refurtive: i mucchi di sigarette di contrabbando sequestrate
come nelle celebri scatole "Brillo", sempre di Warhol; l’ammasso di
televisori trafugati che ricordano all’illustre critico d’arte una
video-installazione di Nam June Paik.
Chissà come la prenderebbe l’ignoto fotografo della questura. Chissà con quali
parole proverebbe a spiegargliela Giuseppe Casetti. Personaggio rimarchevole,
senz’altro, molto romano, lunghi e folti capelli grigi, occhio svelto, figlio
di artisti e artista anche lui, libraio antiquario eccentrico e raffinato (la
libreria Maldoror, l’amicizia e le prime mostre della grande fotografa Francesca
Woodman, suicida a ventitré anni), generoso protettore e anfitrione di barboni
e diseredati, da sempre al centro di un network di rigattieri, robivecchi,
stracciaroli che rifornivano i portieri di scope e varechina, gente che
"va pè cassoni", ora sostituiti da zingari e rumeni con i loro
carrelli da supermercato e un lungo ferro con l’uncino. Lui stesso, da giovane,
ha frequentato i maceri della carta, posti pazzeschi, sozzeria inimmaginabile,
"Bordoni", "Ponte Aniene", "Santa Rita" a
Pietralata.
È lì che ha intravisto la sua vocazione e in fondo la sua isola del tesoro.
Perché la gente butta tutto, di solito terribilmente in fretta, e non sa quel
che butta. Ricordi e racconti formidabili di cantine, fabbriche e case da
svuotare. La straordinaria collezione di libri di caccia del barone Stacchini;
l’archivio de Il Giornale della Sera con disegni di Guttuso, Perilli, Dorazio,
Consagra; lo scatolone pieno di biglietti d’auguri e disegnini ricevuti per
Natale dalla direttrice della Galleria d’Arte Moderna Palma Bucarelli dagli
artisti di tutto il mondo; la primissima edizione (1911) di un libro di Anton
Giulio Bragaglia, quando ancora il futurismo non andava di moda; una quantità
di disegni erotici di Giovanni Stradone, rabbiosamente gettati via dalla vedova;
due sacconi di preziosissima "immondizia" rilevati - il classico
colpo di fortuna - nell’abitazione di Gaspero Del Corso, il marito di Irene
Brin, nonché fondatore della galleria d’arte "L’obelisco". A Porta
Portese, la mattina presto, con la torcia elettrica, Casetti ha trovato un
Fontana; e sempre lì, una indimenticabile mattina, un colpo di vento gli ha
messo tra i piedi un Galla; mentre un Savinio, beh, gli è capitato di trovarlo
nel portabagagli di un’automobile.
E però sono le foto la sua vera malattia. Le foto della gente qualunque: dalle
fidanzate nude alle ombre che i dilettanti si divertono a riprendere; dalle
"acefale", ossia le foto venute male, con le persone tagliate fuori,
ai giochi di società, ai balli nelle crociere, ai salti degli sportivi, ai
baci, alle trasformazioni della città come sfondo, sposini, parenti, comitive.
Fino all’abbondante e straordinario repertorio di personaggi che, naturalmente
inviando la propria icona in posa, si offrono di partecipare a Pronto,
Raffaella. Album di famiglia, migliaia di immagini di sconosciuti che lui
accarezza, spulcia e classifica secondo logiche che ormai rendono Casetti, più
che un semplice venditore, un sociologo, un urbanista, un antropologo, uno
storico dell’immaginario italiano.
L’archivio fotografico criminale gli è arrivato in due classiche buste della
spesa in cellophane. Molte immagini umide, alcune rovinate, diversi doppioni.
Gli spazi sono sempre tiranni. Anche in quel caso qualcuno aveva fatto pulizia.
"La fotografia - scrive Bonito Oliva - è uno strappo della pelle dalla
realtà". Il soggetto ripreso, secondo uno scritto di Giorgio Agamben su
Mario Dondero (altra passione di Casetti), "esige da noi qualcosa. Anche
se la persona fotografata fosse oggi completamente dimenticata, anche se il suo
nome fosse cancellato per sempre dalla memoria degli uomini, ebbene malgrado
questo - anzi precisamente per questo - quella persona, quel volto esigono il
loro nome, esigono di non essere dimenticate".
E così è. A parte qualche spia araba, storie di regolamenti di conti tra
libici, nella raccolta non ci sono personaggi famosi. O forse la cronaca è
troppo lontana per tornare alla memoria. Eppure, sul retro di un’istantanea -
anch’essa parecchio duchampiana - di rotoli di stoffa rubati, si trova scritto,
per mano di poliziotto: "Cristo 63, teatro laboratorio Roma libera,
capocomico Bene Carmelo, accusati atti osceni, spettacolo sospeso in violazione
legge tutela della pubblica moralità".
Poco avanti, nel mucchietto, ritratto dietro un bancone e alle spalle una
sfilata di biscotti Oro Saiwa, compare il ragazzo che nel novembre 1961, al
Circeo, subì una pretesa "aggressione" e una "rapina" da
parte di Pier Paolo Pasolini. Un caso e un processo di cui allora si parlò a
lungo, e che lo stesso poeta ha ricordato cinque anni dopo in una sua
autobiografia in versi: "Lì dentro, c’era un ragazzo torvo, / col
grembiule credo di ricordare, i capelli / fitti da donna, / la pelle pallida e
tirata, una certa folle innocenza negli occhi, / di santo ostinato, di figlio
che si vuole uguale alla madre". Ed è proprio così, ma sul serio. Anche
lui, che pure si presenta come una specie di vittima, invoca indulgenza.
La raccolta poliziesca coglie l’Italia ancora lontana dal crinale della grande
mutazione antropologica che giusto Pasolini cominciò a profetizzare nei primi
anni Settanta. E lo dicono proprio le facce dei ragazzi e delle ragazze di
vita, i ciuffi a banana, i fiocchetti, le espressioni spavalde o intimidite,
ebeti o volpine, e i baffi, i baffetti, le barbe non fatte, le acconciature
trasandate, le donne rigorosamente senza trucco.
Torna alla mente tutta una allegra cinematografia che ha il suo caposaldo ne I
soliti ignoti, con i loro attrezzi, la loro umanità, la loro fame. Nel
complesso una malavita artigianale e che si attacca a tutto e di tutto si
accontenta: ciotolette pseudo-etrusche, tappeti, onorificenze, manine d’avorio
per grattarsi, animali impagliati, pellicce spelacchiate, registratori Geloso.
Quando non è l’economia della sussistenza a prenotarsi un
posto in prima fila nella galleria criminale: scatole di tonno, coperte,
materassi, pneumatici, cerchioni, una povera sveglia, una paio di occhiali
rotti, per giunta. Pare di cogliere ancora l’ombra lunga della guerra. Il
consumismo è lontano. La crepa apocalittica non si è ancora aperta. E dunque, e
comunque: "A che serve la critica? Perché scrivere?" è la frase di
Constantin Brancusi che Casetti ha posto a suggello della sua mostra:
"Perché non limitarsi a far vedere delle fotografie?".
di Filippo Ceccarellida Repubblica.it
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