La terra era sterile, erosa, sventrata.
Acquitrini disseminati di ossa di creature morte. Mucchi di rifiuti indistinti.
Fattorie scalcinate in mezzo ai campi con le assi delle pareti schiodate. Tutto
senza ombra né contorni precisi. La strada scendeva in una giungla di
rampicanti avvizziti. Una palude ricoperta da uno strato di canne morte.
All’orizzonte una foschia cupa che permeava terra e cielo. Nel tardo pomeriggio
cominciò a piovere e proseguirono tenendosi il telo sopra la testa, con la neve
bagnata che sibilava contro la plastica... … Già allora tutte le riserve di
cibo erano esaurite, e la terra sconvolta dai massacri. In breve tempo il mondo
sarebbe stato popolato da gente pronta a mangiarti i figli sotto gli occhi, e
le città dominate da manipoli di predoni anneriti che scavavano gallerie in
mezzo alle rovine e strisciavano fuori dalle macerie in un biancheggiare di
occhi e denti, reggendo reti di nylon piene di scatolame bruciacchiato, come avventori
negli spacci nell’inferno. Il soffice talco nero si spandeva a sbuffi per le
strade come inchiostro di seppia sul fondo del mare, il freddo scendeva lento e
faceva buio sempre più presto, e i disperati che frugavano alla luce delle
torce sul fondo dei dirupi lasciavano nello strato di cenere ombre morbide che
si richiudevano dietro di loro silenziose come occhi. Per le strade i
pellegrini sprofondavano, cadevano e morivano e la terra avvolta nel suo
lugubre velo continuava ad arrancare intorno al sole, ignota e smarrita come
qualsiasi altro pianeta sconosciuto nella remota oscurità circostante…
Questo è ciò che si vedrebbe dalla strada dopo
una guerra atomica. Non più traffico, smog, rumore, ma solo questo. Non ho mai
amato i giudizi entusiastici e iperbolici sui romanzi della letteratura
contemporanea, che continuo a non trovare eccelsa e veramente universale. Ma
dopo avere letto “La strada”, il recentissimo romanzo di Cormac McCarthy
vincitore dell’ultimo Pulitzer, sono arrivato a due conclusioni, strettamente
personali ovviamente. Primo: un autore in grado di concepire e scrivere una
storia del genere non può non essere il più grande scrittore vivente. Secondo:
non ho mai letto nulla di così sconvolgente. La trama è scarna, essenziale, e
si snoda tutta attorno a una quotidianità brutale e animalesca in cui si
dibattono un uomo e un bambino, un padre e un figlio, che alcuni anni dopo
l’olocausto nucleare (quanti? Nove, dieci, non si sa perché non esistono più
neanche le scansioni del tempo) vagano in un mondo desertificato e senza vita,
dove non abitano più animali, insetti, e nemmeno batteri, tanto che non v’è
traccia di processi di putrefazione, ma tutto è rimasto cenere, terra bruciata,
foschia fatta di fuliggine, statue e reperti carbonizzati,
come in una assurda istantanea. I due camminano su strade infinite e senza
tracce di esistenza trascinando tutto quello che a loro è rimasto e costituisce
il capitale per sopravvivere, un carrello del supermercato, un telo di plastica
per ripararsi dalle intemperie, un accendino, scatolette rimediate ovunque sia
possibile (l’unico cibo che ancora di trova), una pistola per difendersi dai
predoni che vogliono sopravvivere ad ogni costo, due coperte. Tutto qui,
nient’altro. I due vanno a piedi alternando marce forzate a notti passate a
difendersi da un freddo spesso glaciale, accendendo un fuoco di sterpi immersi
nel buio cieco, dove anche allungare un braccio è già una proiezione verso
l’ignoto. Non c’è più luce da nessuna parte, l’acqua dei torrenti e degli
stagni è grigia, senza pesci, senza fauna né flora, senza alcun microrganismo.
Il mondo ha già iniziato a fossilizzarsi. Vanno verso sud, verso la costa, con
la indistinta speranza che movendosi in quella direzione forse ritroveranno un
po’ di calore in più, in grado di risvegliare qualche barlume di vita.
Nient’altro. Nessun progetto, nessun appiglio concreto a cui aggrapparsi. Ha un
senso vivere in questa non-realtà? La risposta, elegiaca e fuori dal tempo, di
McCarthy è: sì, ha un senso, fino a quanto esiste un sentimento assoluto e
totale come l’amore che unisce questi due esseri, e che si rinnova di minuto in
minuto, di risveglio in risveglio. Il senso della vita, di questa nuova vita
schiacciata dal nulla circostante è proprio nel singolo attimo di amore che
reitera sé stesso e continua, adesso, fino all’attimo successivo e poi a quello
dopo, e non si sa fino a quando. Questo sentimento presente adesso è il
presente, perché non c’è più nient’altro, ma è sufficiente per andare
avanti. Ma dire sufficiente sarebbe riduttivo. È la spinta poderosa, disperata
ma bestialmente vitale, che come al solito innerva la vita. Si torna allo stato
di natura, all’esempio illuminante degli animali e delle loro cucciolate che
combattono la loro battaglia quotidiana per il cibo e la sopravvivenza per la
prole. Tante frasi di questo romanzo sono emblematiche. Ne ricordo solo una,
che riassume questa poetica: “il bambino era l’unica cosa che lo separava
dalla morte”. Come dicevo, sconvolgente. Perché McCarthy non è un
autore di genere, a cui già in partenza ci rivolgiamo perché vogliamo provare
sensazioni particolari, in questo caso sensazioni forti. Non è uno Stephen King
che fa rabbrividire perché la sua missione e la sua cornice è questa. No,
McCarthy ci rappresenta un mondo dove il raccapriccio e l’allucinazione sono la
disarmante realtà, la conseguenza fisiologica di ciò che potrebbe avvenire dopo
la catastrofe delle catastrofi, dopo “il finimondo”. La distruzione lascia
spazio a un’epica della spiritualità. Qui non ci sono delitti, intrighi,
psicopatici, serial killer. Qui c’è solo la spaventosa normalità in cui
cadrebbe il mondo, come diretta conseguenza di ciò che è accaduto. Mi è
capitato di parlare di questo libro e di sentirmi rispondere: “sì, ma si
tratta di una storia irreale…”. Irreale? Occorre intendersi sulle parole e
i concetti. Irreale è ciò che non potrà mai accadere, che sconfina nella
fantasia e nel mito. Irreale può essere Edgar Allan Poe, con i suoi racconti
del mistero (anche quelli capolavori assoluti e mai più eguagliati). Irreale
può essere una storia dove il sole sorge a ovest e tramonta a est. Ma qui non
c’è nulla di irreale. Nelle pagine di McCarthy c’è la nuda rappresentazione di
quello che abbiamo rischiato negli ultimi sessant’anni, e che stiamo rischiando
anche adesso, con le testate nucleari puntate sulle città europee e gli allarmi
atomici fasulli che si sono ripetuti tante volte, dovuti a un errore dei
sistemi computerizzati, e che solo per una incrollabile fortuna non hanno fatto
partire i missili e scatenare le ritorsioni nucleari. Avere evitato
l’apocalisse è stato spesso un miracolo, e speriamo che continui ad esserlo.
Dopo, cosa resterebbe? McCarthy ce lo dice con una lucidità e una capacità di
immedesimazione e di evocazioni impressionanti. “La strada” è un libro
che turba profondamente, tanto spietato quanto commovente. Un libro più che da
leggere, da affrontare, perché lascia una traccia profonda. E non è
certo colpa di Dio se una cosa del genere accadesse (o accadrà). In fin dei
conti Dio, nella sua infinita sapienza, di un essere stupido come l’uomo alla
fine si può anche disinteressare.
Bibliografia Cormac McCarthy, nato nel Rhode Island nel 1933, è cresciuto in
Tennessee, dove ha frequentato l’Università, abbandonandola per ben due volte.
Entrato nel ‘53 nell’Air Force, vi è rimasto per quattro anni. Attualmente vive
a El Paso, in Texas, lontano dal clamore. McCarthy non concede interviste e non
frequenta gli ambienti letterari e mondani: un uomo che non ha bisogno di
amicizie mondane per essere scrittore. Tra le sue opere, tutte di grande
sapienza artistica e letteraria, è giusto ricordare almeno, Il guardiano del
frutteto, Il buio fuori, Meridiano di sangue, Cavalli selvaggi, Oltre il
confine e Città della pianura. Cavalli selvaggi, ha conquistato il National
Book Award.
Da il Centauro 117
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